Da ormai un anno e mezzo lavoratrici e lavoratori sono alle prese con un problema quasi sconosciuto agli under 40: il ritorno dell’inflazione. Di fatti, da ormai diversi mesi salari e stipendi stanno perdendo potere d’acquisto a causa dell’aumento generalizzato dei prezzi dei beni e dei servizi di cui quotidianamente ci forniamo, con evidenti conseguenze sul tenore di vita (specialmente delle classi meno abbienti, come certificato dall’ISTAT). L’inflazione che registriamo in questo periodo, con gli indici dei prezzi in aumento di 8 punti su base annua nel 2023 (circa 10 nel 2002) è un fenomeno piuttosto ‘nuovo’, alla luce del fatto che tassi di inflazione così alti non si registravano da quasi trent’anni nel nostro paese. Intendiamoci: non che i periodi antecedenti a questa fiammata inflazionistica fossero caratterizzati da alti salari, tutt’altro. C’è da dire, tuttavia, che piove sul bagnato: a salari bassi e stagnanti si sono aggiunti, di recente, dei rincari di una portata senza precedenti negli ultimi decenni.
In altri contributi ci siamo soffermati sulle misure di politica economica che Governi e banche centrali stanno mettendo in campo per affrontare l’inflazione. Abbiamo visto che si tratta di interventi insufficienti e addirittura dannosi per le tasche di lavoratrici e lavoratori. In questo breve intervento, tuttavia, ci vogliamo focalizzare sulle cause di questa impennata dei prezzi. Un tema, purtroppo, su cui si è in più occasioni fatta (volutamente) confusione e che invece merita un approfondimento.
È indubbio che un ruolo nell’attuale spirale inflazionistica sia stato giocato dal lockdown (lo stop ad alcune produzioni per contenere la diffusione del Coronavirus) e dalla successiva riapertura del commercio, che ha portato con sé colli di bottiglia e strozzature sul lato delle catene di approvvigionamento. È altresì evidente che il conflitto bellico in Ucraina abbia rappresentato un ulteriore fonte di tensioni sui mercati energetici.
Ma al di là di questi aspetti di natura sia tecnica sia geopolitica, ce n’è un altro che più ci interessa e che riguarda il ‘nostro’ modo di osservare i fenomeni economici: quello della lotta per la distribuzione del reddito. Adottando questa prospettiva, dobbiamo chiederci, quando andiamo al supermercato, dove vanno a finire quei 10 euro in più che oggi siamo costretti a tirar fuori per lo stesso carrello della spesa che fino a qualche anno fa ci costava 100 euro, e oggi ce ne costa, per l’appunto, 110.
Ci viene in aiuto un attore insospettabile: il Fondo monetario internazionale (FMI). Stiamo parlando di un’istituzione tutt’altro che schierata con il mondo del lavoro, anzi. Un recente studio di questo organismo ci fornisce un assist illuminante per rispondere alla domanda di cui sopra.
La figura riportata (che fa riferimento all’intera area euro) ci indica che nell’ultimo biennio la componente principale dell’aumento dei prezzi sono stati i profitti (l’area blu degli istogrammi): di quei 10 euro che il consumatore finale è costretto a pagare per lo stesso carrello della spesa, circa 5 euro sono maggiori profitti che i produttori dei beni che acquistiamo si intascano. Solo 2 euro e mezzo finiscono invece ai lavoratori che hanno preso parte al processo produttivo (l’area rossa), 2 euro circa sono il risultato del maggior costo dei beni importati (l’area gialla), che finiscono pertanto all’estero, mentre lo Stato vede ridotte le proprie entrate per circa 0.5 euro (in virtù di alcuni sgravi fiscali, del tutto insufficienti e non in favore dei lavoratori, introdotti per contenere la crescita dei prezzi).
Ebbene sì: mentre ci viene detto che il carovita che siamo costretti a sopportare è principalmente causato dall’aumento dei prezzi dei beni energetici, un autorevole organismo internazionale punta il dito sui padroni (come avevamo già fatto in precedenza sulle nostre pagine), capaci di cavalcare l’attuale congiuntura per gonfiare i prezzi e intascarsi gran parte degli aumenti.
Mentre i capitalisti si appropriano della fetta più grossa della torta, le risposte di politica economica dell’attuale Governo e della Banca Centrale Europea sono, tanto per cambiare, totalmente orientate alla difesa dei profitti. Da un lato, il Governo si scaglia contro il mondo del lavoro, bocciando qualsiasi (timida e opportunistica) proposta di salario minimo e continuando nel processo di precarizzazione del mercato del lavoro. Dall’altro, la Banca Centrale Europea prosegue sulla sanguinosa strada del rialzo dei tassi dell’interesse, provocando recessione e disoccupazione. Per difendersi dal carovita occorre ben altro, a partire da un salario minimo vero e pienamente indicizzato all’inflazione e da un controllo dei prezzi e dei profitti.
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