Berlinguer e Craxi. Dalla fine della modernità alla post-modernità
di L’INTERFERENZA (Gerardo Lisco)
Le figure politiche di Enrico Berlinguer e Bettino Craxi vanno lette, come proverò a dimostrare, inquadrandole nel passaggio dalla modernità alla post-modernità. A tal fine, sarà utile ricostruire le movenze storiche della politica italiana che hanno trasformato l’ultima fase del moderno in una contemporaneità fondata sull’individualismo neoliberale, se non neoliberista.
Il progetto politico del PCI, sin dalle origini, vuole significare, come suo portato storico, la modernizzazione dell’Italia in funzione del superamento del sistema capitalista e l’edificazione del Socialismo. Fondamentale ai fini della modernizzazione è il rapporto con i Socialisti, quando dopo la scissione di Livorno nasce appunto il Partito Comunista, così come con i Cattolici. Gramsci, quando ancora non era ‘comunista’, scriveva: “Il costituirsi dei cattolici in partito politico è il fatto più grande della storia italiana dopo il Risorgimento. I quadri della classe borghese si scompaginano: il dominio dello Stato verrà aspramente conteso, e non è da escludere che il partito cattolico, per la sua potente organizzazione nazionale accentrata in poche mani abili, riesca vittorioso nella concorrenza coi ceti liberali e conservatori laici della borghesia, corrotti, senza vincoli di disciplina ideale, senza unità nazionale, rumoroso vespaio di basse congreghe e consorterie(…)[1]”. L’articolo è del 1918. Era in corso allora un confronto molto intenso nel mondo Cattolico che nel giro di poco tempo, nel gennaio 1919, avrebbe visto la nascita del PPI guidato da don Luigi Sturzo. Scriveva sempre Gramsci, questa volta su L’Ordine Nuovo del 1° novembre 1919: “La costituzione del Partito popolare equivale per importanza alla Riforma germanica, è l’esplosione inconscia irresistibile della Riforma italiana (…) Il cattolicesimo entra così in concorrenza, non già col liberalismo, non già con lo Stato laico; esso entra in concorrenza col socialismo, esso si pone sullo stesso terreno del socialismo, si rivolge alle masse come il socialismo, e sarà sconfitto, sarà definitivamente espulso dalla storia dal socialismo. I popolari rappresentano una fase necessaria del processo di sviluppo del proletariato italiano verso il comunismo. Essi creano l’associazionismo, creano la solidarietà dove il socialismo non potrebbe farlo, perché mancano le condizioni obbiettive dell’economia capitalista(…)” il cattolicesimo, o meglio una sua parte, organizzatosi in soggetto politico attraverso il PPI, contribuisce a creare la coscienza di classe tra quelle masse popolari che non conoscono la fabbrica, in prevalenza, quindi, proletariato rurale, braccianti, ecc. Questa è l’idea guida che ha animato il partito comunista a partire da Gramsci, passando per Togliatti, Longo e infine Berlinguer – ultimo interprete della dottrina Comunista declinata in chiave nazionale. Scriveva Togliatti: “La ricerca di una via italiana al socialismo necessariamente dovrà comprendere un’alleanza politica con quelle forze cattoliche che partendo dal generico spirito anticapitalistico siano giunte alla decisione di fare il necessario perché le strutture capitalistiche italiane subiscano le indispensabili profonde trasformazioni. A noi spetta renderci conto pienamente di questa necessità e non respingere le conseguenze che ne derivano (…)”[2]. Togliatti era ancora dello stesso avviso nel 1963, come si evince dal seguente passo: “Bisogna invece considerare il mondo comunista e il mondo cattolico come un complesso di forze reali – Stati, governi, organizzazioni, coscienze individuali, movimenti di varia natura – e studiare se e in qual modo, di fronte alle rivoluzioni del tempo presente e alle prospettive di avvenire, siano possibili una comprensione reciproca, un reciproco riconoscimento di valori e quindi una intesa e anche un accordo per raggiungere fini che siano comuni in quanto siano necessari, indispensabili per tutta l’umanità (…)”[3].
La questione delle alleanze, in particolare con il mondo cattolico, la DC, dunque, per il PCI è fondamentale ai fini dell’edificazione del Socialismo che, dalla lettura non solo degli scritti di Gramsci e Togliatti ma di altri dirigenti comunisti, coincide con la modernizzazione della società italiana. Oltre che al mondo Cattolico, il PCI guarda all’alleanza con il PSI, altro partito espressione dei ceti popolari, che ritiene fondamentale ai fini della strategia politica finalizzata alla costruzione del Socialismo. Negli anni ‘70 si completa il processo di modernizzazione della società italiana, iniziato negli anni ‘60 con i governi di centro-sinistra[4]. Il ‘compromesso storico’ e il Governo di solidarietà nazionale, con la partecipazione esterna ai governi monocolore DC, presieduti da Andreotti dal 1976 al 1979, sono la concretizzazione della originaria strategia del PCI che però non porterà alla realizzazione del Socialismo ma contribuirà, cosa comunque non da poco, alla modernizzazione del sistema sociale ed economico dell’Italia.
La costruzione del Socialismo non fu possibile a causa di eventi interni e internazionali. Tra gli eventi di politica nazionale bisogna tener presente il movimento del ‘68 e la protesta del 77, movimenti sociali che contribuirono, seppure in modo diverso dal PCI, al mutamento della Società italiana, contribuendo a destrutturare le istituzioni sociali e politiche della modernità e favorendo l’affermazione dell’individualismo che caratterizza il post-moderno e il neoliberalismo e conduce alla realtà attuale. A differenza di Berlinguer, fu Craxi, eletto nel 1976 Segretario del PSI, a raccogliere, in parte, le istanze post-moderne. Per comprendere il pensiero politico di Berlinguer e le ragioni che lo spinsero a perseguire l’accordo con la DC, invece della costruzione dell’alternativa di governo secondo la proposta di De Martino, bisogna prendere le mosse dai fatti del Cile. A tali ragioni non è estraneo il golpe militare consumato dalle oligarchie di quel Paese sostenute dalla CIA sul piano militare e ispirate dall’ideologia neoliberale della Scuola di Chicago sul piano socio-economico. I riferimenti ideologici della Scuola di Chicago, Friedman e von Hayek, del resto, sono gli stessi che ispirarono la Thatcher e lo stesso Reagan. Berlinguer affrontò la questione cilena contestualizzandola in ambito nazionale con un lungo articolo pubblicato dal settimanale Rinascita[5]. Analizzando i fatti cileni, si convinse che non sarebbe stato sufficiente vincere le elezioni politiche per poter avviare la trasformazione in senso socialista dell’Italia; addirittura non lo sarebbe stato nemmeno salvare la Democrazia, dal momento che i democristiani cileni avevano sostenuto il golpe di Pinochet contro Allende, Presidente della Repubblica cilena democraticamente eletto. Berlinguer in merito, con realismo da politico, scrive quanto segue: “Di ciò consapevoli, noi abbiamo sempre pensato – e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione – che l’unità dei partiti dei lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia ove a questa unità si contrapponga un blocco dei partiti che si situano dal centro fino alla estrema destra. Il problema politico centrale in Italia è stato, e rimane più che mai, proprio quello di evitare che si giunga a una saldatura stabile e organica tra il centro e la destra, a un largo fronte di tipo clerico-fascista e di riuscire invece a spostare le forze sociali e politiche che si situano al centro su posizioni coerentemente democratiche (…) Sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51% dei voti e della rappresentanza parlamentare (cosa che segnerebbe, di per sé, un grande passo avanti nei rapporti di forza tra i partiti in Italia) questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51%. Ecco perché noi parliamo non di una alternativa di sinistra ma di una alternativa democratica, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica oltre che con formazioni di altro orientamento democratico (…)”[6].
Berlinguer non aveva nessuna intenzione di trasformare il PCI in un partito ‘socialdemocratico’ nonostante i buoni rapporti con la S.p.D., e il progressivo avvicinarsi all’economia sociale di mercato/ordoliberalismo[7] che la stessa S.p.D., con la svolta di Bad Godsberg, aveva fatta propria. Le scelte di politica economica del PCI furono quelle illustrate da Eugenio Peggio, Presidente del CeSPE, nel convegno organizzato a Roma nel 1976: “(…) Di fronte all’impossibilità di ricorrere a una ulteriore dilatazione dell’indebitamento verso l’estero, di tornare a una politica protezionistica e di affidare a una continua svalutazione della lira il riequilibrio nei conti con l’estero, appare evidente che i problemi del Paese possono essere affrontati e avviati a soluzione soltanto con un grande sforzo di tutta la nazione: uno sforzo che comporta necessariamente sacrifici, anche per la classe operaia e per le grandi masse popolari (…)”[8]. Queste dichiarazioni riscossero il plauso dell’economista Franco Modigliani intento a rivedere la teoria keynesiana in funzione della riduzione dell’inflazione e dello stesso debito pubblico. Dello stesso avviso erano anche dirigenti sindacali come Lama e Trentin. Il secondo si spingeva fino al punto da sostenere che, a fronte dei sacrifici chiesti ai lavoratori, e più in generale alle classi popolari, la controparte sarebbe stata quella di aver un ministro del lavoro espressione della sinistra che, non più da dirigente sindacale ma da ministro del lavoro, avrebbe imposto loro politiche di austerità[9]. Perfino all’indomani della fine dell’esperienza dei governi di ‘solidarietà nazionale’, Gerardo Chiaromonte[10] sosteneva che la legittimazione del P.C.I. sarebbe dovuta passare attraverso il superamento della conventio ad excludendum e si sarebbe realizzata solo grazie alla capacità della dirigenza P.C.I. di imporre politiche di austerità alla propria base elettorale. E’ questo il senso dell’austerità teorizzata da Berlinguer[11]. La strategia di Berlinguer è quella dell’eurocomunismo, idea questa lanciata insieme a Santiago Carrillo e George Marchais: un’idea che si rivela di corto respiro come hanno dimostrato l’esperienza politica tanto del Partito Comunista spagnolo quanto di quello francese. Le trasformazioni in corso nelle Società occidentali, compresa quella italiana, non erano parte dei ragionamenti che il gruppo dirigente del PCI faceva, non a caso il PCI non ‘amava’ il ’68, tanto meno il ‘77. Il PCI temeva che i movimenti sociali autonomi potessero in qualche modo costruire alla sua sinistra raggruppamenti politici concorrenti, capaci di mettere in forse quell’egemonia culturale e politica che esso perseguiva sin dalle origini, ossia dal Congresso di Livorno del 1921. Lo scontro più duro fu senza dubbio con il movimento del ‘77 culminato con la cacciata di Lama dall’Università La Sapienza di Roma. Il PCI veniva ritenuto il partito della stabilizzazione del sistema politico addirittura più della stessa DC. Come scrive D. Sacco: “Stretto nella contraddizione tra la lealtà a un sistema politico, che si supponeva dovesse rappresentare la società intera, e il bisogno di non essere tagliato fuori da una opposizione sociale non mediata e risolta nelle istituzioni, il PCI finì con l’apparire un ‘partito d’ordine’ a non pochi militanti dei movimenti collettivi. Nella visione extraparlamentare, i soli a non suonare le campane a morto per la DC erano proprio i suoi storici avversari comunisti, preoccupati di non perdere il partner principale per la realizzazione del “compromesso storico (…)”. L’ascesa del PCI in termini elettorali negli anni ‘70, sicuramente in parte sull’onda della protesta degli anni ‘60, venne male interpretata dalla dirigenza dell’epoca alla ricerca affannosa di legittimazione da parte dell’establishment. Gli elettori non chiedevano ‘il compromesso storico’, bensì un governo alternativo alla DC. Il PCI, però, non fu in grado di cogliere quelle istanze e, alla fine degli anni ‘70, il processo di modernizzazione della Società italiana appariva sempre di più superato dai mutamenti sociali intervenuti.
Gli anni ‘80 segnarono l’abbrivio del processo di trasformazione in senso post-moderno e neoliberale della Società italiana, ed è per questa ragione che sostengo che Berlinguer e Craxi vadano letti ed interpretati rispetto al passaggio che si consuma tra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ‘80. Il PSI degli anni ‘70, terminata l’esperienza dei governi di centrosinistra, e dopo la grande paura rappresentata dalle elezioni politiche del 1976 che lo avevano visto scendere sotto la soglia del 10%, stava avviando un processo di riorganizzazione e di riposizionamento ad opera del nuovo segretario Bettino Craxi. Per prima cosa, quest’ultimo cercò di marcare la propria identità culturale rispetto al PCI. Il PSI a guida Craxi per analogia con la S.p.D. rinunciò all’identità marxiana abbracciando istanze liberali e libertarie. Il contesto nel quale il PSI di Craxi inizia a smarcasi dalla sinistra rappresentata dal P.C.I. e da una parte, seppure minoritaria, dello stesso PSI, è appunto quello della post-modernità, della società liquida, flessibile, individualista. Teorie sostenute e diffuse dagli economisti d’oltreoceano, diretti eredi della Scuola economica di Vienna[12], che aveva fornito la soluzione della crisi economica degli anni ‘70, un combinato disposto di stagnazione e inflazione. Il PCI alla fine degli anni ‘70, terminata l’esperienza della ‘solidarietà nazionale’ non è più in grado di mettere in campo una proposta politica adeguata, ne è la prova la relazione di Enrico Berlinguer al XVI Congresso del PCI del 1983. Ad interpretare al meglio i mutamenti in atto negli anni ‘80 fu, invece, il PSI[13] guidato da Craxi.
Si può, dunque, affermare che gli anni ‘80 sono stati gli anni del PSI craxiano. Già negli anni ‘ 70, il PSI aveva iniziato a porre attenzione ai movimenti sociali che si agitavano spingendo per una trasformazione profonda della società italiana e per la costruzione di nuovi valori di riferimento. In questa operazione Craxi fece un’opera di recupero della tradizione socialista al di fuori dell’alveo rappresentato da Marx e dai marxismi. Colse le istanze individualiste e libertarie che venivano dai movimenti protestatari con la critica alle istituzioni sociali tradizionali: famiglia, partiti, Stato. Gli anni ‘80 governati dal pentapartito non vanno assolutamente intesi come una riedizione del centrosinistra degli anni ‘60. I governi di pentapartito furono coalizioni di governo con, da una parte, il blocco laico – socialista, anticipatore del liberalsocialismo degli anni ‘90 e, dall’altra, la DC, partito elettoralmente ancora forte, grazie alla sua rete di clientele rivenienti da trent’anni di governo della cosa pubblica, ma ormai in un declino inarrestabile. D’altra parte anche la società italiana era cambiata dagli anni ‘60, il ceto medio era cresciuto passando dal 28,2% degli occupati nel 1969 al 37,92% nel 1981, e non solo nella sua composizione. Il mutamento più profondo riguardava l’aspetto valoriale che implicava un approccio politico completamente diverso. Il problema non era più la modernizzazione della società in funzione del superamento del capitalismo per la costruzione del socialismo. Come scrive D. Sacco[14]: “Berlinguer, come tutto il partito, aveva poco compreso il carattere strutturale e il segno innovativo, benché ulteriormente squilibrato, dei processi di trasformazione in atto(…)”. Per Berlinguer, la prospettiva era ancora quella del superamento del capitalismo, per Craxi il problema era altro, guidare il processo di trasformazione in corso del nuovo capitalismo. Quella di Craxi è l’anticipazione della ‘Terza via’ che di lì a qualche anno porterà il Labour party guidato da Tony Blair alla guida del Regno Unito.
Gli anni ‘80 sono gli anni dell’individualismo, dell’”edonismo reaganiano”, termine elaborato dal comico Roberto D’Agostino, che finì con l’interessare il dibattito culturale coinvolgendo filosofi come Vattimo, Veca e lo stesso Vacca. Gli anni ‘80 sono gli anni dell’ascesa del post-moderno e del neoliberalismo, ideologia oggi dominante, e nessun partito interpreta questa fase storica meglio del P.S.I. di Bettino Craxi. Gli eredi del PCI, dopo la svolta della Bolognina con la nascita del PDS, hanno ripreso questo processo di trasformazione, iniziato da Craxi, utilizzando in modo strumentale l’incontro con il mondo cattolico auspicato sin dalle origini del PCI da Gramsci, Togliatti e Berlinguer, per far nascere prima l’Ulivo, successivamente l’Unione e alla fine il PD. La ricerca della legittimazione richiamata da G. Chiaromonte[15] è avvenuta solo con la conversione degli eredi di Berlinguer al neoliberalismo e al post-modernismo con uno spostamento ancora più a destra di quello operato da Craxi.
Ad aver vinto non è stato Berlinguer ma Craxi. Si può dire che entrambi abbiano nociuto alla costruzione di un soggetto politico socialista alternativo al neoliberalismo e alla post-modernità. Oggi molte sigle fanno riferimento al partito socialista e altrettante al partito comunista, ma nella realtà della sinistra resta un PD americanizzato che nulla ha che vedere con la tradizione italiana ed europea del Socialismo. Resta una sinistra da intendersi come “liberali di sinistra”, molto attenta ai diritti di libertà individuale e molto meno alle questioni sociali, alla crescente disuguaglianza, alla democrazia ridotta a pura e semplice competizione tra ceti politici in funzione della rappresentanza dei molteplici interessi che si muovono nel mercato[16].
[1] Siglato A.G. Avanti!, Ediz. piemontese , 22 dicembre 1918 in “ Gramsci/Togliatti/Longo/Berlinguer. Il Compromesso Storico a cura di Pietro Valenza, Ed. Newton Compton Editori, 1975
[2] P. Togliatti, La via italiana al Socialismo. Dal rapporto all’VIII Congresso del PCI, dicembre 1956 . n. 1, pag. 116
[3] P. Togliatti, Il Destino dell’uomo. Conferenza tenuta a Bergamo il 20 marzo 196. Il testo integrale è stato pubblicato su Rinascita, a. XX, n. 13, 30 marzo 1963 ,n. 1, pag. 117
[4]G. Tamburrano. Storia e cronaca del centro-sinistra. BUR 1990
Galli. Ma l’idea non muore. Storia orgogliosa del socialismo italiano. Marco Tropea Editore. 1996
Nencioni. Tra autonomia operaia e autonomia socialista. La cultura politica della sinistra del PSI (1956 – 1963) Ricerche di Storia politica n. 3/15 il Mulino.
A cinquanta anni dal primo centro – sinistra: un bilancio nel contesto internazionale a cura di G. Bernardini e M. Marchi in Ricerche di Storia politica n. 2/14 ed. il Mulino
[5]E, Berlinguer. Riflessione sull’Italia dopo i fatti del Cile. Da Rinascita, 28 settembre , 5 e 9 ottobre 1973. Idem nota 1 pag. 14
Corvalan. Il Cile tra rivoluzione e reazione. Editori Riuniti. 1973
[6] E. Berlinguer, Perché il PCI persegue un’altern’ativa democratica e non una alternativa ‘di sinistra’, n. 1, pag.27
[7] L. De Michelis, Dall’austerità di Berlinguer, al cancello di Arindhati Roy, 16 febbraio 202, in Economia e Politica rivista on line
[8] A. Barba M. Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Ed. Imprimatur, 2016, pag. 192.
[9] Ibidem, nota 7. pag. 196
[10] G. Chiaromonte, Le scelte della solidarietà democratica. Cronache , ricordi e riflessioni sul triennio 1976 – 1979, Editori Riuniti 1986
[11] E. Berlinguer, Austerità occasione per trasformare l’Italia. Le conclusioni al convegno degli intellettuali , Roma 15/01/1977 e all’assemblea degli operai comunisti, Milano , 30/01/1977, Editori Riuniti 1977
[12] Y. Wasserman, I rivoluzionari marginalisti. Come gli economisti austriaci vinsero la battaglia delle idee, Ed. Neri Pozza 2021
[13] M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni 80. Quando eravamo moderni, Marsilio, 2010
[14] D. Sacco, Comunisti e Socialisti italiani nella Prima Repubblica ( 1948 – 1994). Alcune questioni tra tradizione e innovazione politica, Le Lettere 2022
[15] Ibidem, n. 9
[16] G. Lisco, Riflessioni minime sull’origine della disfatta delle Sinistre, L’interferenza, 30 aprile 2021, rivista online
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