Le pagine che seguono prendono a tema il fenomeno della finanziarizzazione del calcio. Si tratta, com’è noto, di una questione assurta spesso agli onori delle cronache, ma di recente ulteriormente rinfocolatasi in relazione a una vicenda a suo modo emblematica del momento attuale vissuto dal principe di tutti gli sport: il licenziamento di Paolo Maldini – della bandiera Paolo Maldini, icona del milanismo – dal ruolo di direttore tecnico del Milan da parte del fondo RedBird (RedBird Capital Partners), proprietario della società. Insieme a una serie di casi che si accresce di giorno in giorno, partoriti dall’attuale sessione di calciomercato, detta vicenda ha riportato al centro del dibattito con rinnovato clamore la questione della metamorfosi ontologica del calcio in business. Del suo passaggio di stato da ente ludico a ente economico, per così dire. Più precisamente, il punto della questione è se una tale metamorfosi sia da considerare un processo già compiuto oppure una dinamica in corso dall’esito ancora incerto.
Come è prassi in dibattiti del genere, la polarizzazione delle posizioni si acquatta dietro l’angolo, fungendo da anticamera di un altrettanto fatale esito manicheo. Quindi, l’un contro l’altro armati, si schierano: da un lato i “realisti” (i cinici, agli occhi della controparte), per i quali quella metamorfosi è bella che avvenuta e va semplicemente assunta come tale, metabolizzata una volta per tutte. Da: analisti, osservatori, spettatori, appassionati… dobbiamo a nostra volta trasformarci, crescere, nel senso di adattarci a uno scenario/ambiente radicalmente mutato. Ciò significa smettere di ricorrere a indebite categorie etiche (moralistiche) per decifrare situazioni ormai rispondenti a logiche esclusivamente economiche. Utilizzare il filtro dei sentimenti, laddove in gioco ci sono soltanto interessi, produce un inevitabile cortocircuito ermeneutico ovvero l’indecifrabilità di ciò che si vorrebbe comprendere. Un’operazione a metà strada tra ipocrisia e nostalgia. E dabbenaggine. Dall’altro lato si accomodano i “romantici”, i “sognatori” (gli ipocriti, agli occhi della controparte), per i quali quella metamorfosi, non del tutto compiuta, incarna uno spauracchio al quale è doveroso opporsi; una iattura che affosserebbe l’anima stessa del calcio e pertanto da contrastare con qualsiasi mezzo. Al centro del villaggio vanno rimessi i “valori dello sport”: quelli devono valere come i parametri, le stelle polari dell’interpretazione ma soprattutto del giudizio circa le attuali dinamiche del calcio. Il senso in quanto funzione del valore (quello non monetizzabile), che così viene ad assumere un carattere normativo.
Dal canto mio, vorrei cercare di sabotare almeno in parte la logica manichea sottesa a un tale dibattito, ricondurre questo scontro nell’alveo di un confronto, proponendo una sorta di terza via. Una osmosi tra le due posizioni appena esposte, partendo però da un assunto non equidistante. Proverò ad argomentare a favore del valore anche economico della dimensione extra-economica (assiologica) del calcio, sostenendo che lo stesso approccio cinico-realista non può permettersi di sottostimare il carattere del tutto singolare del bene qui in questione. Lo farò evidenziando quella che, a mio avviso, rappresenta una crepa strutturale di un’analisi convenzionalmente economica applicata all’industria calcio, integrandola poi con un elemento di matrice non strettamente economica, ma tale che nessun serio business plan calcistico dovrebbe trascurare. In altri termini, proverò a declinare in maniera non romantica le ragioni romantiche del calcio, in modo tale che appaiano, se non incontestabili, quantomeno plausibili anche agli occhi di chi sostiene una prospettiva realista e avalutativa avversando l’ermeneutica onirica dei romantici-sognatori.
1.
Fatti salvi i suoi incontestabili meriti, su tutti il sano accontamento di una retorica trita oltre che stucchevole, il punto di vista cinico-realista sull’attuale stato dell’arte del fenomeno calcistico – quello che ne assume come compiuta e definitiva la metamorfosi in business – omette un elemento di non scarso rilievo, nella misura in cui tende a considerare il proprio oggetto, l’azienda calcio, alla stregua di un’industria legata a un bene di prima o primissima necessità. Come fosse un’industria alimentare e dunque qualcosa di cui non sarebbe possibile in nessun caso fare a meno. In tal modo, questa la mia obiezione, sottostimando la peculiare natura volatile del bene in questione, compiendo un esiziale errore ermeneutico.
L’architrave dell’impianto, anche industrial-finanziario, del calcio è e rimane – non può non essere – la famigerata, fantomatica “passione dei tifosi”. Quella pulsione irrazionale in nome della quale milioni, forse miliardi, di persone hanno deciso di investire il calcio di un significato/valore obiettivamente sproporzionato, se valutato cioè in termini razionali e funzionali. Per rendere l’idea di una tale sproporzione, del plusvalore generato dalla componente passionale, cito la definizione che da sempre utilizza mio padre, il quale non ha mai amato né capito il calcio (va da sé, non lo ha mai capito perché non lo ho mai amato), per descriverlo ovvero “ventidue scemi che corrono appresso a un pallone” (detto in dialetto napoletano). Al netto dello sprezzo ostentato che esprime, trovo che questa sia una descrizione grossomodo oggettiva del fenomeno in questione. Una sua istantanea tutto sommato fedele.
Di uno svago, di un passatempo, di un gioco – il “gioco più bello del mondo” – milioni/miliardi di persone hanno deciso di fare veicolo di: identificazione, riconoscimento, posizionamento, contrapposizione… Un transfer di massa che ha generato un fattore identitario talvolta capace di soppiantare/surrogare persino le identificazioni politiche e religiose. Il calcio come ideologia (il caso della guerra nella ex Jugoslavia, ben raccontato in L’ultimo rigore di Faruk di Gigi Riva), addirittura come fede (il pellegrinaggio al “santuario” maradoniano nei quartieri spagnoli di Napoli). Quella passione, proprio in quanto passione, rappresenta il motore immobile dell’intero movimento calcistico in tutte le sue declinazioni possibili. Compresa quella economico-finanziaria. Finché c’è, finché quel motore funziona, l’intero meccanismo gira. Diversamente, si inceppa.
L’approccio cinico-realista bypassa proprio questo elemento, lo naturalizza e in tal modo lo svilisce; lo neutralizza, lo rende invisibile, facendone un dato inalterabile. Da cui l’esito di un’inferenza finale – una sorta di legge generale – che trovo indebita. Vale a dire, che il sistema calcio sia economicamente stressabile pressoché all’infinito; interamente convertibile, forse persino già convertito, in business. Appunto perché l’oggetto/motore di questa industria resterà sempre tale, perennemente al suo posto. La fede dei tifosi come elemento inamovibile: un motore immobile come perpetuum mobile. Detto per inciso, l’assunto di fondo di un simile approccio equivale nei fatti a “una fede (incrollabile) nella fede dei tifosi” e dunque a qualcosa di persino più irrazionale di ciò che intenderebbe spiegare; più volatile di ciò che vorrebbe ancorare a terra. Come che sia, adottando una cornice interpretativa di questo tipo il caso del licenziamento di una “bandiera” – Maldini fatto fuori dal fondo americano – corrisponderebbe a una semplice operazione gestionale, a una routine aziendale da giudicare esclusivamente secondo parametri economici, sgravata dalla molesta zavorra del calcio dei sentimenti.
Ebbene, questo è all’incirca il modo in cui ragionerebbe un imprenditore del settore pastario, preferibilmente italiano: “L’uomo mangia da sempre e continuerà a farlo”[1]. Ergo, le persone non potranno mai rinunciare al bene che produco”. E farebbe bene a ragionare così. Al contrario, che un imprenditore o un analista dell’industria calcistica adotti quello stesso modello, faccia propria quella medesima forma mentis, appare una mossa scorretta anzitutto sul piano logico, una strategia approssimativa per cercare di comprendere il proprio bene e con ciò anche un’opinabile operazione gestionale del proprio core business.
A integrazione delle carenze di una tale analisi proporrei quanto segue. I preannunciati elementi romantici, rielaborati in modalità non romantica; l’ermeneutica onirica ricucinata in salsa realistica. Che le persone, anche collettivamente, debbano nutrire delle passioni, costruire momenti di identificazione collettiva, rappresenta verosimilmente una costante antropologica, un dato costitutivo della natura umana. Quantomeno di quella che abbiamo sin qui conosciuto. Non lo è, invece, il fatto che gli oggetti di tali passioni rimangano gli stessi. Al contrario, la storia racconta che le passioni umane si accasano di volta in volta, di epoca in epoca, in luoghi diversi. Scelgono transfer diversi, si appoggiano a supporti diversi. Come detto, finché il suo motore fideistico lavora, l’intera macchina pallonara gira e quindi nessun problema. Tutto bene. D’altra parte, se per qualche imponderabile motivo – visto che di passione si tratta, l’imponderabilità è un fattore da ponderare senz’altro – il motore si inceppasse; se a un certo punto i tifosi decidessero che il calcio non è più degno dell’investimento emotivo di cui lo hanno fatto oggetto… ebbene, a quel punto si innescherebbe un processo assai difficile da governare.
2.
A questa considerazione ne va aggiunta un’altra, a ulteriore riprova dell’inadeguatezza di un approccio interamente razionalizzato (quello cinico-realista) per la comprensione del fenomeno in oggetto. Il punto di rottura, quello oltre il quale l’applicazione a oltranza della logica imprenditoriale-aziendalistica rischierebbe di far implodere l’intero sistema, risulta indeterminabile ex ante (nessuno può stabilire a priori quale sia), ma irrimediabile ex post. Una volta scoperto, esperito, non si torna indietro. Si tratta di una dinamica irreversibile.
A scopo esplicativo propongo un parallelo che all’apparenza potrà risultare fuori luogo, eccessivo. Il calcio, nel suo piccolo, vive da anni un processo di secolarizzazione, di “disincanto”. In ossequio a una classica genealogia della modernità, quella weberiana, si potrebbe affermare che proprio nella misura in cui si sta disincantando, il calcio si stia anche modernizzando. La sua finanziarizzazione, che passa per la sua metamorfosi in entertainment, vale questo passaggio. Alla metamorfosi ontologica dello sport in spettacolo e intrattenimento – l’entertainment è la maschera indossata dal calcio, più in generale dallo sport, per convertirsi in business, il medium che trasforma questo ente ludico in ente economico – corrisponde quella antropologica del tifoso in cliente: non colui che vive una passione, ma colui a cui viene fornito un servizio. Per essere fruito in maniera ottimale, l’intrattenimento non esige passione. Anzi, per certi aspetti, la avversa; preferisce farne a meno, funziona meglio senza. Ebbene, come insegna la vicenda della religione cristiana in occidente, segnatamente in Europa, al processo di disincanto/razionalizzazione non c’è rimedio; si tratta di un movimento irreversibile. Quando ci “spiegano” che babbo natale non esiste, diventa impossibile farlo rivivere – per quanto ci si sforzi – e con esso la magia dei natali dell’infanzia, relegati da quel momento in poi, e senza rimedio, nel caveau delle nostalgie del tempo perduto. Premesso che, rispetto a dinamiche del genere Pirandello docet (et semper docebit), da ormai molti anni uno scrittore come Michel Houellebecq racconta provocatoriamente ma efficacemente proprio questa impasse epocale: la tragicità prodotta dall’aver preso coscienza dell’irreversibilità di un tale passaggio. Che quanto è andato perduto, e ora rimpianto, non è recuperabile. Accantonato in blocco il proprio apparato valoriale tradizionale, l’occidente più avanzato oscilla confusamente e disperatamente tra un nichilismo conclamato, vissuto/subìto in pienezza (Le particelle elementari), e la pericolosa seduzione nei confronti di apparati valoriali e Weltanschauung(en) di importazione, che agli occhi di un mondo decadente e serotino possiedono però l’indubbio fascino della vitalità (Sottomissione).
Tornando al tema principale: a furia di stressarlo, di provocarlo a oltranza, il rischio è che il fondamento irrazionale del fenomeno calcistico – l’unico possibile anche per il business – venga meno, con l’inevitabile implosione dell’intera impalcatura. La boxe, la “fu nobile arte”, incarna un esempio emblematico e un monito doloroso di una tale irreversibilità. Da arte a sport, da sport a intrattenimento, da intrattenimento a circo equestre. Giorni fa ho appreso di un incontro/esibizione/rissa/carnevalata/farsa (pagliacciata) che lo scorso 12 giugno, presso la FLA Live Arena di Sunrise (Florida), ha visto opposti Floyd Mayweather Jr. e John Gotti III: un ex campione del mondo di pugilato contro un lottatore di MMA, ma soprattutto rampollo di una delle più blasonate aristocrazie criminali degli Stati Uniti. Un “vero duro” contro un “vero cattivo”. Un’operazione insensata, assurda da qualsiasi prospettiva la si valuti che non sia quella dello spettacolo, dell’intrattenimento; il quale, a sua volta, risponde a sole ragioni economiche (entertainment = business): se ci si possono fare dei soldi, se frutta, allora va bene. Il senso in quanto funzione del valore (stavolta quello monetizzabile). La crematistica come unica assiologia possibile[2].
In conclusione: data la peculiare natura volatile del proprio bene, la stessa industria del calcio dovrebbe porsi – per ragioni anzitutto economiche – il problema, se non di tutelarla, quantomeno di non stressarla oltre i livelli di guardia. Tradotto in soldoni (appunto, in soldoni): licenziare Maldini è stato economicamente, se non un errore, quantomeno un azzardo. Un rischio non del tutto calcolato e dunque una mossa non del tutto giustificata.
“Ma la passione è un’altra grammatica”, cantavano gli Avion Travel. Probabilmente anche un’altra economia, che però l’economia (quella convenzionale) non può più permettersi di ignorare.
p.s. Meriterebbe una riflessione adeguata la differente natura del legame che intrattengono con lo sport la cultura europea e quella americana. Da un lato passione (addirittura fede), dall’altro spettacolo. Negli Stati Uniti non è mai esistito il fenomeno degli ultras (men che meno, buon per loro, quello degli hooligans). Nel dire questo, non faccio nessuna valutazione in merito; mi limito a constatare un fatto. I tifosi statunitensi sono al massimo dei forti simpatizzanti delle rispettive squadre (franchigie).
Stante una tale sostanziale diversità di approccio allo sport, ne segue la domanda: siamo sicuri che il tentativo di trasformare lo sport – segnatamente il calcio – in intrattenimento, di americanizzarlo (modernizzarlo, razionalizzarlo…), non si riveli alla lunga una fusione a freddo? Un trapianto a rischio di rigetto?
[1] Concludendo queste pagine mi sono imbattuto in un’intervista di Riccardo Illy (a capo della holding agro-alimentare di famiglia) al «Corriere della sera» (16 luglio), il quale usa esattamente questa espressione per definire il proprio settore: «Sì, aveva ragione Ludwig Feuerbach. Un’industria universale. L’uomo mangia da sempre e continuerà a farlo». https://www.corriere.it/cronache/23_luglio_16/riccardo-illy-le-nozze-scarpe-tennis-senza-dirlo-miei-genitori-feci-facchino-sindaco-niente-scorta-giravo-armato-017e4978-240f-11ee-9a25-49ea51e50816.shtml
[2] Su questi temi mi permetto di rinviare a: A. Cera, Nella società pandemica. Prove tecniche di tecnocosmo, Aras, Fano 2022, pp. 57-68.
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