Torniamo a occuparci della Siria. Il Paese rischia di deflagrare o di riprecipitare in una guerra civile su vasta scala di cui, peraltro, si avvertono da settimane le avvisaglie e che potrebbe coinvolgere anche le forze armate russe, presenti nel Paese dal 2015 e tuttora molto attive, nonostante qualche regola d’ingaggio un po’ meno elastica e qualche riduzione di uomini e mezzi. Il tutto mentre la popolazione soffre per una situazione economica disastrosa, che il Presidente Assad non riesce in alcun modo a governare, stretto tra la corruzione dei vertici politici, l’inefficienza dell’apparato burocratico e il peso delle sanzioni. L’ultimo provvedimento è stato raddoppiare i salari e ridurre i sussidi su carburanti e gasolio. Poca roba visto che il dollaro oggi vale 14 mila lire siriane, mentre prima della guerra era quotato a 52.
Vediamo i diversi scenari. Le tribù druse del Sud della Siria, in particolare nella provincia di Sweida, da sempre in cerca di una maggiore autonomia, continuano a manifestare contro il Governo centrale. Nella stessa città di Sweida l’agitazione è ormai cronica, e dura da più di un anno. Il fatto che i drusi si schierino è per Assad è un pessimo segnale, perché durante la guerra cominciata nel 2011 i drusi avevano mantenuto una specie di neutralità che aveva permesso alle truppe siriane (e russe) di concentrarsi su zone dove i ribelli erano molto più attivi. E non è una buona notizia nemmeno per i russi, che in quest’area sembravano aver ottenuto buoni risultati nel promuovere con i gruppi ribelli gli accordi “armi in cambio di amnistia”.
Il fronte più sanguinoso, però, è quello dell’Est, soprattutto la zona di Deir Ezzor dove, nelle ultime settimane, più di 150 persone sono rimaste uccise negli scontri tra gli uomini delle tribù arabe e i reparti delle Forze Democratiche Siriane (SDF), una milizia interetnica in cui, però, il grosso è formato dalle Unità popolari di protezione (YPG), una formazione curda che ha stretti legami con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), a sua volta considerato un gruppo terroristico sia dalla Turchia sia dagli Usa. Con una differenza non da poco: su quelli del PKK e limitrofi i turchi sparano a vista, mentre gli americani non vogliono smettere di appoggiare l’SDF. Il paradosso più profondo, però, sta nel fatto che SDF e tribù arabe sono entrambe, e da sempre, alleate degli USA e sono state, con l’aiuto degli americani, decisive nelle battaglie che, nel 2018-2019, portarono alla definitiva liquidazione dell’Isis in territorio siriano. Adesso si sparano e reciprocamente si accusano di ogni genere di crimine: dal furto al traffico di droga alla collusione con Assad (queste le ragioni per cui l’SDF ha arrestato Ahmad al-Khabil, leader arabo del locale Consiglio militare), per passare alla corruzione, alla violenza, all’appropriazione indebita che gli arabi imputano ai curdi.
Assad, con l’appoggio della Russia, potrebbe essere tentato di approfittare del conflitto interno allo schieramento pro-Usa? La situazione di Deir Ezzor lo farebbe anche pensare: la città si trova sulle rive dell’Eufrate, sulla sponda Ovest il controllo è dei siriani pro-Damasco e dei russi, su quella Est di americani e alleati. Ma nella realtà Assad ha pochi margini di manovra. Intanto, com’era prevedibile, le assai più organizzate e meglio armate formazioni dell’SDF stanno avendo il sopravvento. E poi le stesse milizie arabe hanno sempre ribadito di non voler rompere il patto siglato con gli Usa (che da lì controllano i pochi ma decisivi pozzi di petrolio siriani) ma solo di voler mettere un freno allo strapotere dei curdi. Cercare di intervenire in questo quadrante avrebbe effetti disastrosi e i russi, semmai, che nonostante le difficoltà continuano a considerare la Siria centrale nella propria strategia mediorientale, si trovano nella posizione di dover far ragionare Assad e i suoi, di controllare che non ci siano colpi di testa.
E poi c’è un altro fattore: l’Esercito di Assad, sostenuto dall’aviazione russa che non lesina le bombe, è a sua volta impegnato, nella parte Nord della stessa provincia di Deir Ezzor, in ripetuti scontri con la stessa SDF e con altre milizie ispirate dalla Turchia. E anche qui la Russia deve muoversi con cautela per non andare allo scontro (troppo) aperto con la Turchia di Erdogan, con il quale Putin ha raggiunto da tempo un sia pur fragile accordo per la gestione della provincia di Idlib, controllata dalle formazioni islamiste che sono però tenute al guinzaglio dalla Turchia.
È un quadro allucinante. Soprattutto se consideriamo che il resto del Medio Oriente, in un modo o nell’altro, si muove. Basta pensare all’attivismo della Turchia, alle nuove relazioni tra Iran e Arabia Saudita (i due Paesi si sono scambiati gli ambasciatori dopo sette anni passarti sull’orlo della guerra), all’astuto movimentismo degli Emirati Arabi Uniti… La Siria pare condannata a ripetere in eterno quel 2011 che l’ha sprofondata nel peggiore dei disastri. E per la Russia, com’è capitato molte volte agli Usa, si rivela più difficile vincere la pace che vincere la guerra.
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