Cambiare tutto: sette nodi sulla scuola
di GLI ASINI (Redazione)
Nel corso dell’emergenza sanitaria per Covid-19, si è avviato un dibattito pubblico sulla scuola finalmente adeguato all’importanza sociale dell’istituzione educativa pubblica. Per qualche mese è risultata lampante a tutti la funzione di luogo di vita, socializzazione, scambi e formazione che la scuola potrebbe avere per bambini e giovani. Altrettanto eclatante è stata la sua fatica a cambiare anche nell’emergenza e la necessità di momenti istituenti che la aprissero ai bisogni e alla richieste di studenti e studentesse, momenti da costruire in relazione alle altre agenzie sanitarie e sociali dei territori.
Finalmente veniva da più parti affermata la funzione educativa, di prevenzione e di cura che la scuola potrebbe svolgere e la necessità di abbattere la sua condizione di isolamento. In quei giorni si è pensato che la scuola potesse continuare la sua funzione di luogo di esperienza, sperimentazione, socializzazione e inclusione per tutte le persone giovani e piccole solo in relazione a università, biblioteche, musei, associazioni di vario tipo e in coordinamento con altri servizi sanitari e sociali.
Messe di fronte a queste evidenze, abbiamo immaginato qualcosa che in una stagione non troppo remota e in modi non troppo differenti era stato teorizzato e rivendicato da una minoranza di operatori sociali e scolastici che potevano contare su una situazione politica favorevole: nel decennio Settanta era stata posta la questione della trasformazione dei metodi e dei contenuti della scuola in vista di una sua effettiva funzione di emancipazione culturale democratica, ottenendo alcune conquiste, cercando, e trovando una solidarietà e una mobilitazione sociali ampie, definendo un quadro di riferimenti politici e organizzativi su cui convergere. La chiusura delle scuole speciali e delle classi differenziali, il diritto allo studio e le 150 ore, la partecipazione democratica al governo della scuola attraverso gli organi collegiali, anche se in modo precario e a volte imperfetto, furono raggiunte. Non si poté, invece, arrivare a una relazione integrata con il territorio, i suoi servizi sociali e sanitari e le organizzazioni locali politiche e sociali, perché il progetto economico e politico che avrebbe sostenuto tale evoluzione è risultato perdente.
Quando ci siamo trovate a domandare alla scuola di essere il luogo di vita, cura e cultura che ci serviva, l’abbiamo vista perfettamente inadeguata, omologa al paesaggio desertificato e immiserito che ha favorito l’attecchimento del virus. Non c’erano i mezzi, la cultura, le strutture, le conoscenze per stabilire quella rete locale di progettazione politica e organizzazione sociale che avrebbe consentito la cura e la solidarietà collettive necessarie ad affrontare con umanità e intelligenza la crisi sanitaria e sociale dell’intera comunità.
La normalità che oggi abitiamo è quella di una crisi matura, in cui si preparano rotture drammatiche su cui andare a insistere con preparazione e forza opportune. Proponiamo, come gruppo che anima il dibattito su scuola ed educazione della rivista “Gli asini”, alcuni punti su cui vorremmo invitare a riflettere con noi i lettori e le lettrici. Vorremmo provare a costruire un dialogo, senza sovrapporci all’azione di gruppi e realtà a cui già partecipiamo, per aprire uno spazio di confronto e di idee, e, soprattutto, per dotarci di strumenti di azione. Ci sono problemi da porre di fronte a tutti, che risultino comprensibili nella loro importanza politica non solo alle minoranze, culturalmente, pedagogicamente attive, consapevoli e per questo inquiete. L’elenco che segue è dunque una proposta di ricerca e costruzione comune, non è esaustivo, è in divenire e non contiene dogmi. Vi chiediamo di scriverci – utilizzando la mail che troverete in fondo a questo testo – rispondendo a queste riflessioni, contestandole, portando storie ed esperienze, aggiungendo tutto quello che non c’è e che non stiamo vedendo. Vogliamo aprire uno spazio di pensiero e azione senza egemonie, come un’assemblea, le cui riflessioni saranno a disposizione di chi fa, chi pensa e chi vive nella scuola e intorno ad essa.
1. Scuola e potere
Se vogliamo che le scuole siano luoghi di formazione e di vita per comunità pacifiche e democratiche è indispensabile lavorare sulle relazioni tra i soggetti, decostruendo i rapporti gerarchici e autoritari che ancora formano l’istituzione. La crisi di fiducia e il discredito che improntano le relazioni intergenerazionali dipendono dalla discrepanza tra le parole e gli atti: solo un lavoro condiviso, esplicito, umile sull’elaborazione delle regole di vita comune può rinsaldare i legami comunitari nella scuola, facendone un luogo di formazione alla cittadinanza. Imparare a lavorare assieme condividendo spazi, tempi e risorse limitate è un compito complesso e rischioso per chi educa e a cui di norma le e i docenti non sono formati né abituati: viviamo il nostro ruolo e la nostra funzione immersi in dinamiche e prassi autoritarie. Il fallimento educativo di questa modalità è palese: abbiamo urgente bisogno di educare alla complessità e alla fatica della convivenza sociale, della dolorosa dialettica tra individuo e collettivo, ma anche alle incredibili risorse che potrebbe liberare.
La didattica cooperativa e non trasmissiva che viene invocata nei documenti ufficiali non può avere luogo se non ci sono gruppi docenti che sappiano, vogliano e possano lavorare tra di loro con quelle stesse modalità cooperative, orizzontali ed assembleari, con ampie facoltà di autonomia e di decisione all’interno degli istituti e in dialogo regolato ma effettivo con le altre componenti dell’istituzione.
Ci pare che vie indispensabili siano il diffondersi nelle classi di pratiche quali l’Assemblea o il Consiglio e il coinvolgimento di tutti, fin dalla prima età, nell’effettivo governo dell’istituzione; il consulto della componente studentesca e l’assunzione da parte di questa di responsabilità, decisioni e diritti ci pare la sola via praticabile. La scrittura condivisa delle regole della vita di classe e d’istituto, la loro elaborazione in processi partecipati sono l’unico modo in cui produrre effettiva cultura civile: le eventuali riforme ministeriali per il ripristino del voto in condotta come decisivo per la misurazione del profitto vanno esattamente in direzione contraria.
Con l’approssimarsi delle crisi economiche e ambientali la montata autoritaria sarà inevitabile: ma vi è lo spazio per praticare nelle aule e nelle scuole una resistenza e una elaborazione di relazioni non gerarchiche e autenticamente cooperative e liberatorie.
2. Scuola e sapere
Cosa imparare e cosa insegnare, come insegnare e come imparare: quanto poco si discute e si lavora intorno al cuore politico della scuola! Meno tempo si dedica alla programmazione e alla ricerca didattica meno si è consapevoli del proprio ruolo e degli effetti della propria azione docente. Invece tutte le scelte didattiche nella scuola rivelano la loro costruzione ideologica e la loro funzione sociale: gli effetti della conoscenza dipendono da come essa è stata costruita, in quali relazioni, modalità, istituzioni.
Le scienze pedagogiche e i documenti ufficiali indicano la necessità di attribuire centralità al ruolo dei corpi, delle arti, delle attività tecniche nel progetto educativo e formativo. Perché questa centralità conquisti terreno è fondamentale praticare didattiche attive, acquisire le conoscenze in relazione a scopi di vita ed espressione autentici e autodeterminati. Avere accesso all’istruzione e costruire il sapere con gli altri, contemplando le differenze di capacità e modalità espressive, riconoscendo a ciascuno la propria via per fare il mondo e la sua interpretazione con gli altri è stata un’utopia luminosa il cui tempo non è ancora scaduto. Sappiamo che la cultura scolastica è anche una cultura di classe e che l’adattamento ai suoi codici esclude chi ha altre intelligenze, saperi, modi di acquisirli. Non si ha fiducia nelle persone piccole e giovani, nella pluralità delle forme del sapere, non si crede che praticando tecniche di didattica attiva e cooperativa e tempi che consentano il dialogo e la ricerca ci si istruisca davvero e si produca conoscenza. I meccanismi scolastici possono essere escludenti quanto le disuguaglianze economiche: le minoranze culturali e sociali ancora sono emarginate ed escluse a causa della forma stessa della scuola.
Il tema dei mezzi e delle infrastrutture non può prescindere da scelte didattiche precise: il lavoro a classi aperte e per gruppi di interesse, con percorsi e tempi differenziati nel quadro comune di una scuola intesa come comunità di ricerca e di formazione culturale integrale, è ancora tutto da sperimentare e da costruire.
3. Scuola e differenze
Una parola a cui non possiamo rinunciare e che dobbiamo sostanziare nuovamente è inclusione. Quando nel 1977 sono state chiuse le classi differenziali ed è cominciato il lungo cammino dell’inclusione, era chiaro che solo una modifica complessiva dei metodi e dei contenuti didattici l’avrebbe resa realizzabile.
Chi ha specifiche caratteristiche fisiche, cognitive o relazionali non porta un proprio problema ma pone una questione sociale, culturale e politica: siamo in grado di contemplare nella scuola altri corpi, altri funzionamenti, altri linguaggi? Ci sono differenze culturali, di classe, di condizione fisica e psicologica che vanno assunte come dati da elaborare trasformativamente nella vita sociale e anche nella vita scolastica. Questa nettissima consapevolezza permise a una minoranza di operatori sanitari, scolastici e sociali di suscitare una mobilitazione sociale ampia a favore di politiche inclusive, emancipatrici, anti segregative che hanno trasformato in senso democrativo l’istituzione scolastica. Oggi l’ossessione valutativa e il governo delle carriere scolastiche tramite il sistema dei crediti in funzione del regime di competizione iper individualista impedisce di fatto qualsiasi prassi inclusiva nelle scuole.
La cura dei momenti di socializzazione, il tempo per attività di libera scelta e per attività di ricerca ed espressione in cui si costruiscono effettivi scambi e partecipazione non sono contemplati. La collegialità della programmazione e quindi il lavoro effettivo con le docenti di sostegno non avvengono. I pasti, la cura, il gioco, le pratiche di ascolto e dialogo non sono considerate in relazione ai saperi disciplinari.
I Gruppi Operativi di Lavoro per l’Inclusione (GLO) non hanno avuto a disposizione tempi e spazi riconosciuti per diventare vere sedi di confronto operativo, limitandosi in moltissimi casi a una vuota formalità burocratica.
La modalità in cui le certificazioni vengono richieste e rilasciate sono frutto di paradigmi medici che non contemplano ricerche e confronti al di fuori dei propri ambiti specialistici. Dobbiamo lavorare nella scuola affinché diventi acquisizione condivisa il fatto che categorizzazioni e formulazioni dei saperi medici e psichiatrici dipendono anche dalla cultura e dalla società.
4. Scuola e territorio
Le scuole nei paesi e nei quartieri delle città sono i luoghi pubblici dove l’infanzia e la giovinezza trovano già organizzati spazi, tempi, socialità, formazione per larga parte della giornata. Esse dovrebbero svolgere una funzione educativa e di cura oltre che di istruzione: pensare che queste funzioni possano svolgersi indipendentemente dal radicamento nel territorio e dalle relazioni con le organizzazioni locali è velleitario. Tutti lo scrivono, tutti lo dicono, ma rimane lettera morta.
Le condizioni economiche, sociali, ambientali, del territorio determinano e spiegano l’esperienza scolastica e solo divenendone coscienti, insegnanti ed educatori possono contribuire effettivamente al benessere degli studenti e delle studentesse.
La scuola aperta al territorio significa tempo organizzativo previsto per riunioni di equipe e scambi sul territorio, non il subappalto al terzo settore dei problemi e dei conflitti che scoppiano a scuola. La partecipazione dell’associazionismo alla progettazione scolastica o all’organizzazione del tempo di vita giovanile avviene spesso secondo logiche di profitto indipendenti dai bisogni e dalla conoscenza di studenti e studentesse, magari etichettando i disagi e le caratteristiche dei singoli per affidarne la gestione anche in tempo scolastico a figure specialistiche.
La scuola come sede di elaborazione culturale dell’esperienza deve comprendere attività di ricerca e di interazione delle studentesse e degli studenti con il loro territorio e il suo governo, imparando a interpretarlo, interrogarlo, immaginarlo nel corso degli studi. L’orientamento come momento di autodeterminazione nell’assunzione dei ruoli attivi e produttivi ne sarebbe potenziato. Collegare le attività di formazione e istruzione alla ricerca e allo studio d’ambiente sarebbe un mezzo per l’effettiva cittadinanza infantile e giovanile, portatrici di specifiche visioni ed istanze nella progettazione urbanistica e nel governo locale.
Non stiamo parlando di “consigli dei ragazzi” o di qualsiasi simulazione di vita democratica, quanto di sviluppare i curricola disciplinari anche attraverso pratiche di ricerca sociale e ambientale. La mobilità, lo stato dei servizi, l’impatto economico sociale ed ecologico delle attività sul territorio riguardano i piccoli e le giovani più di chiunque altro.
5. Scuola e tecnologie
Oggi nella scuola si parla il linguaggio dell’ “economia della conoscenza”: innovazione, competenze, occupabilità, intraprenditorialità e soprattutto tecnologia. Nel processo di istruzione e formazione e nello stesso discorso pedagogico, le tecnologie informatiche, cibernetiche e le intelligenze artificiali sono considerate un orizzonte inevitabile e auspicabile: esse da sole sembrano poter garantire liberazione, innovazione, inclusione e modernità. Tuttavia si dimentica che sono l’esito di un sistema economico e politico che sta trasformando il lavoro e la socialità umane, creando sempre più interdipendenza tra le nostre funzioni sociali, cognitive, biologiche e le macchine.
È ciò che si intende con “capitalismo delle piattaforme”: l’interazione continua con le piattaforme digitali è il modo in cui si estrae valore dalle energie creative e dalla socialità di ognuno. Siamo allo stesso tempo produttori e consumatori di servizi, scambi, pratiche che avvengono sulle piattaforme digitali ed esse occupano sempre più spazio nell’organizzazione di tutti gli aspetti della vita.
Lo smaterializzarsi dei processi di consumo di tempo, fatica e risorse umane e naturali dietro le azioni compiute digitalmente è un’illusione: molto lavoro, spesso poco riconosciuto, tutelato e organizzato è necessario. Oggi un buon numero di ricerche in campo pedagogico ha rilevato come le teorie del capitale umano abbiano penetrato profondamente gli ambiti educativi ed in particolare quelli della istruzione/formazione. Ciò avviene tramite le linee di indirizzo diffuse dai documenti di molti organismi sovranazionali e fondazioni private riprese poi nei documenti ministeriali nazionali.
Il feticcio tecnologico domina nella scuola e monopolizza tutte le risorse economiche che dovrebbero essere invece destinate all’edilizia scolastica, alla qualità degli spazi, alle esperienze fuori dalla scuola, ai bisogni delle e dei più svantaggiati.
All’interno del Piano nazionale della scuola digitale la parola «innovazione», «innovation» o «innovativa» è ripetuta 179 volte in 140 pagine senza che venga mai chiarito cosa intenda esattamente. In generale la parola sembra coincidere con il concetto di tecnologia digitale riferito a strumentazione e a modelli organizzativi e infrastrutture necessari per rendere tale tecnologia la mediatrice principale del processo formativo.
In questo ottimismo acritico senza progetto e senza pensiero, si dimentica che le nuove dipendenze, la scomparsa del corpo a scuola e di una educazione alla convivialità e alla manualità artigiana, le depressioni e i ritiri sociali, l’insensibilità affettiva, l’analfabetismo sociale non sono nuovi enigmatici comportamenti per cui trovare etichette in forma di disturbi psicologici. Sono piuttosto lo “scarto” e le nocività di questo ambiente di produzione dello studente-lavoratore per l’economia di piattaforma che è divenuta la scuola.
Riconquistare collettivamente la capacità di visione e di critica verso questo processo di alienazione tecnologica in atto è fondamentale, così come contestare questa irrazionale destinazione dei fondi pubblici sulla scuola, costruire forme di rifiuto, di diserzione ma anche pratiche alternative, che riportino al centro della vita educativa e del sapere la cura di noi stessi, degli altri esseri viventi, del nostro vivere in comune.
6. Scuola e università
Non è più possibile, oggi, concepire una società nella quale scuola e università continuino a non dialogare tra loro. L’accademismo attua una ormai decennale prassi bancaria nella quale il sapere è parcellizzato in crediti formativi, necessari per accedere alle classi di concorso d’insegnamento. Questi crediti, con i relativi esami, creano l’illusione di formare l’insegnante di domani, laddove servirebbe un contatto e una conoscenza maggiori con la scuola stessa, a partire da tirocini retribuiti.
Ben lontana dal considerare la sua missione e il necessario dialogo con scuola e insegnanti, l’università è votata a produrre (salvo rari casi) una merce di scambio interna al suo mondo autoreferenziale, asfissiando sé stessa e togliendo così ossigeno anche alla scuola. Sappiamo bene quanto prima ancora della ricerca, quella vera, si dia la precedenza alla scalata accademica, e quindi alle pubblicazioni, che si susseguono con tale foga da non dare la possibilità di studiare seriamente. L’università ha la grande responsabilità di preparare i nuovi docenti, ma non contribuisce a formare nuove teste pensanti e critiche e le imbottisce di un sapere che rischia di rimanere sterile perché privo di qualsiasi riflessione sul suo utilizzo. Non è insomma più capace di armare intelligenze e coscienze (l’ha mai veramente fatto?), ma è dedita a costruire discorsi di giustificazione dell’esistente.
A nulla sono valsi alcuni tentativi, come la creazione di scuole di specializzazione (le Ssis) affinché, una volta fuori dall’università, le studentesse e gli studenti potessero formarsi seriamente come future insegnanti, comprendendo profondamente le finalità, i doveri e le responsabilità di tale lavoro. Chi insegna all’università si crogiola in un’ignoranza totale del mondo della scuola (anche qui sono rare le eccezioni), nella convinzione di essere invece al corrente di tutti i mutamenti e di tutti i problemi.
All’Università va chiesto moltissimo: deve mettersi in dialogo con insegnanti, studenti e famiglie; non solo con i dirigenti scolastici o i tecnici-politici della buropedagogia. Deve offrire energie e risorse per la documentazione delle esperienze, per fare co-ricerca, per inventare, sperimentare insieme soluzioni ai problemi che si presentano nella scuola. Deve, perciò, combattere per uscire dalla situazione in cui si trova, sovvertendo gli ordini politici e mentali che vigono al suo interno.
7. Scuola e lotta
Le docenti sono lavoratrici dipendenti che vivono, al pari della maggioranza dei lavoratori, un processo di impoverimento materiale costante e progressivo. Ma affrontiamo i problemi materiali in solitudine, senza riconoscerne la dimensione collettiva. Crediamo sia importante sentirsi parte di un corpo sociale che va ben oltre la scuola e del quale si condivide una condizione. Qualsiasi riflessione sulla scuola non può prescindere dalla piena consapevolezza dei livelli drammatici di disuguaglianza che caratterizzano la società, sia in riferimento alle condizioni economiche che alle possibilità reali di accesso al sapere. E tale consapevolezza si costruisce a partire dalla propria condizione, dalle caratteristiche della propria comunità e del proprio territorio.
Pensiamo, che operatori, educatori, docenti debbano (ri)mettere la parola “lotta” nella propria esistenza, nel proprio lessico professionale e quotidiano, per il miglioramento della propria condizione lavorativa e salariale, per il riconoscimento dei diritti, propri e di tutti.
Il luogo in cui questo riconoscimento avveniva e questa lotta trovava spazio e strumenti, era il sindacato. Oggi ci sembra non sia più così. I sindacati, con pochissime eccezioni, non sono più luoghi di elaborazione collettiva, di organizzazione, di costruzione del conflitto. Tutt’al più sono strutture che offrono consulenza individuale, sostegno burocratico, “consigli”. Nei pochi momenti in cui tentano di fare il “salto” dall’individuale al collettivo, fanno pure peggio: diventano corporativi.
Esprimere una critica forte al sindacato non significa sostenere che quello “strumento” e quella dimensione oggi non servano più. L’auto organizzazione dei docenti è importante. Se dentro le classi parliamo di cooperazione, ascolto e riconoscimento di ciascuno, nella società dobbiamo essere dei “lottatori sociali”, a partire dalla nostra condizione. E per farlo bisogna stare insieme, dismettere l’individualismo, riconoscersi come lavoratori, cercare alleanze sociali.
Lo stipendio non esaurisce il tema delle risorse per la scuola. La condizione dei docenti e l’efficacia della scuola dipendono anche da quante risorse le vengono destinate per funzionare e da come si decide di impiegarle e attraverso quali processi di partecipazione. La rivendicazione dell’intelligenza e della responsabilità nel lavoro educativo è importante tanto quanto quella salariale e contrattuale. Valgono per esso le stesse prerogative che rendono “umano” e quindi non degradante qualsiasi lavoro: la ricerca, l’iniziativa, la responsabilità, la scelta delle strategie più efficaci, la comprensione dell’intera opera da compiere e dei metodi più efficaci per compierla.
Svolgiamo il nostro ruolo dentro un’organizzazione che negli ultimi anni è stata oggetto di diversi interventi normativi, tutti calati dall’alto. Sono aumentati il verticismo, la precarietà (intesa non solo come situazione contrattuale), gli organi collegiali sono luoghi dove si ratificano decisioni prese altrove, non si sa bene dove e da chi, molte energie sono spese nella compilazione massiccia di inefficace documentazione, il livello di “burocratizzazione” del nostro ruolo è massimo.
Alla lotta per il miglioramento delle condizioni di lavoro deve accompagnarsi una mobilitazione costante per la trasformazione della scuola, della sua organizzazione, per la ridefinizione radicale di spazi e tempi, priorità e metodi. Sindacato e auto organizzazione devono ridiventare lo strumento per la presa di parola politica sulla scuola come bene pubblico.
Riflettere, sperimentare, mettere in pratica nella singola aula i principi della didattica attiva non basta. Bisogna attivarsi collettivamente per strappare pezzi di cambiamento. Pensiamo che alcuni esempi del passato ci indichino almeno in parte una strada ancora percorribile. La nascita del tempo pieno e delle 150 ore sono due casi in cui le rivendicazioni di chi viveva e operava nella scuola si saldavano con bisogni sociali più ampi, definendo alleanze e percorsi di azione comune; hanno rappresentato anche momenti in cui si è realizzata una forte convergenza tra questione “sindacale” e questione pedagogica. Gli insegnanti e chi in quegli anni volle sostenerli non chiedevano genericamente più risorse per la scuola pubblica, ma lottavano per dei modelli che contenevano in sé ipotesi organizzative e opzioni ideali e metodologiche. La questione delle risorse veniva di conseguenza.
Crediamo che vada recuperato se non quella modalità di azione (il contesto è drasticamente mutato), almeno lo spirito di quell’agire. Solo tenendo insieme il tema delle risorse con quello dei modelli educativi si evitano deragliamenti corporativi. Difendere questa scuola pubblica non ci interessa, ci interessa creare le condizioni per una sua reale e radicale trasformazione.
Litighiamo spesso, dentro e fuori le pagine di questa rivista, sulle cause che hanno determinato la crisi che abbiamo tentato di descrivere attraverso questo parziale e provvisorio elenco di contraddizioni della scuola. C’è chi pone l’accento sul “piano” del Capitale (il mercato, la finanza e la tecnologia al loro servizio) e chi sugli “effetti” del Capitale (la burocrazia, la tecnocrazia, la “secolarizzazione” radicale degli ideali libertari di trasformazione della società). Comunque sia, i piani e gli effetti del Capitale non cadono nel vuoto. Ciò che si è degradato in questi anni non sono solo la situazione materiale della scuola e le condizioni contrattuali di noi insegnanti, ma anche la nostra intelligenza, il nostro buon senso, la nostra immaginazione, la nostra capacità di reazione.
La crisi dell’organizzazione della scuola e della nostra cultura professionale non è qualcosa che potrà essere modificata da un giorno all’altro, è fatta di relazioni tra esseri umani. La modificheremo iniziando a sperimentare forme di relazioni educative diverse, organizzandoci in modo diverso. Se nel contempo sapremo guardarci intorno e descrivere quello che vediamo con la dovuta “crudeltà”, non si tratterà di inutile attendismo riformista.
FONTE:https://gliasinirivista.org/cambiare-tutto-sette-nodi-sulla-scuola/
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