Meloni a Budapest, mission impossible per ricompattare il gruppo di Visegrad
di STRISCIA ROSSA (Paolo Soldini)
Un abbraccio caloroso e un bacio per risvegliare l’antica amicizia col padre padrone dell’Ungheria, alquanto compromessa da quando Viktor Orbán all’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina ha mosso il primo passo del suo giro di valzer con un altro amico, quello che risiede al Cremlino. Palcoscenico della retrouvaille politica la bella sala del museo di arte moderna di Budapest in cui Giorgia Meloni dal palco di un autodefinitosi “Summit demografico” si è esibita nel suo cavallo di battaglia preferito: Dio è con noi nella battaglia per difendere la famiglia fatta come l’ha voluta Lui, la nostra identità, la cultura delle nostre Nazioni insidiata dalla decadenza dei costumi che porta con sé la denatalità e la negazione di “tutto quello che ha contribuito a costruire la nostra civiltà”. Senza spingersi, stavolta, a denunciare complotti in atto per realizzare la “sostituzione etnica” – magari orditi da George Soros, come sostiene sicuro di sé Orbán – la presidente del Consiglio ha accusato “i nostri nemici” di considerare le migrazioni come una “soluzione” del problema demografico e ha riempito di lodi le scelte politiche a favore della famiglia e contro gli stranieri del governo ungherese.
L’unica presidente della UE presente
La visita della presidente del Consiglio dall’amico Orbán a questo punto merita, per capirne il senso, qualche notazione di cronaca. Stando alle immagini trasmesse dalla tv ungherese Meloni era l’unica capa di governo di un paese dell’Unione all’apertura del meeting. Il programma aveva annunciato un intervento in conferenza del presidente della Repubblica serbo Aleksandar Vučić e si erano fatti annunciare anche il primo ministro bulgaro e quello cèco che, però, non si sono visti alla cerimonia d’apertura tra gli ospiti d’onore. In prima fila c’erano con la coppia del padrone di casa e l’ospite italiana, la presidente magiara Katilin Novák (“sono molto felice di avere qui la mia grande amica Giorgia”), il vicepresidente della Tanzania Isidoro Mpango e poi un’infilata di esponenti in pompa magna delle confessioni religiose praticate in Ungheria. Tutte meno quella islamica che al regime non piace proprio. C’erano i rappresentanti ortodosso, cattolico, luterano-evangelico, riformato protestante ed israelita. L’italiana ha stretto la mano uno dopo l’altro ai primati delle chiese cristiane e ha fatto appena in tempo a ritirare la sua quando l’ha allungata, inconsapevole delle consuetudini rituali, al rabbino capo della comunità ebraica Slomo Köves.
Insomma, la trasferta a Budapest per il “summit demografico” è stata una nuova, plateale prova della eccentricità delle posizioni ideologiche e delle alleanze del governo italiano nel contesto europeo. Anche se, a parte le notazioni sulle presenze e sulle assenze, va considerato anche un aspetto più politico. Né Giorgia Meloni né Viktor Orbán si sono presentati alla stampa dopo l’incontro privato che hanno avuto nel pomeriggio. Tutti e due non amano affatto rispondere alle domande dei giornalisti. Uno scarno comunicato congiunto ha fatto sapere che i due hanno parlato di immigrazione sostenendo la comune convinzione che il problema non è redistribuire i profughi ma non farli arrivare. Niente di nuovo: si tratta della posizione sostenuta da sempre da tutti i paesi del fu gruppo di Visegrád alla quale la capa del governo italiano si è convertita platealmente nel giorno in cui il governo “amico” polacco le sbatté la porta in faccia sui trasferimenti.
Il problema è che le scelte adottate dentro la strategia del “non farli arrivare” sono state un disastro. Proprio ieri, poco prima che iniziasse il meeting di Budapest, il presidente tunisino Kaïs Saïed ha messo la pietra tombale sulle speranze che il vergognoso memorandum negoziato da Meloni e dal premier dimissionario Mark Rutte e firmato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen – blocco delle partenze in cambio di denaro cash – potesse funzionare. Il dittatore di Tunisi ha vietato l’ingresso nel paese a una delegazione del parlamento europeo che avrebbe dovuto controllare eventuali (inesistenti) progressi in fatto di diritti umani.
L’invito a Fidesz a entrare nei “Conservatori e riformisti”
Nell’incontro, in realtà, ci sarebbe stato dell’altro. Le indiscrezioni che circolavano fin dalla vigilia parlavano di un pressing che Meloni starebbe esercitando su Orbán perché accetti di far confluire il suo partito Fidesz nelle file del gruppo europeo dei “Conservatori e Riformisti (ECR)” di cui lei stessa è presidente. I 13 deputati europei eletti nelle liste di Fidesz un tempo militavano nel gruppo del PPE che per ordine del capo lasciarono un minuto prima di essere cacciati per le loro posizioni antieuropee e reazionarie. La loro cooptazione da parte di ECR sarebbe una manna non tanto per il loro numero, che verrebbe comunque sottratto alla possibile concorrenza del gruppo leghista e lepeniano di Identità e Democrazia (ID), quanto per il senso politico che il travaso porterebbe con sé. Da un lato la ricostituzione dell’alleanza politica di Visegrád andata in frantumi dopo le giravolte filorusse ungheresi, dall’altro l’opportunità offerta a Meloni di presentarsi come l’abile mediatrice politica della riconciliazione. Un atout che le darebbe un po’ più di autorità e forza nelle eventuali trattative con il PPE per un appoggio esterno, non determinante, alla futura coalizione che si riformerà presumibilmente tra popolari, socialisti e liberal-democratici per l’elezione del/della presidente dopo le elezioni europee di giugno. È il piano B al quale Fratelli d’Italia probabilmente si adeguerà visto che è miseramente fallito il sogno del Grande Ribaltone da realizzare con un’alleanza organica con il PPE per cacciare dal potere a Bruxelles gli odiati socialisti e i liberali “macroniani”.
Se è davvero questo il disegno meloniano, c’è da dire comunque che attuarlo non sarà facile. Il PiS, il partito del guru sovranista polacco Jarosław Kaczyński e del premier Tadeusz Morawiecki, non pare affatto ben disposto a una riconciliazione con quello che considerano un vero traditore nella crociata occidentale contro la guerra di Putin e prima del 15 ottobre, giorno in cui si terranno in Polonia elezioni che potrebbero segnare un deciso rovesciamento degli equilibri politici, nessuno a Varsavia avrà alcuna intenzione di parlarne.
In ogni caso sull’obiettivo di una grande destra che traduca nelle istituzioni di Bruxelles la spinta che, almeno nei loro auspici, verrebbe dalla società europea pesano come un macigno le divisioni ideologiche, i due gruppi che si fanno concorrenza nel parlamento europeo e le divisioni e la spietata concorrenza che le destre italiane si fanno in casa. Proprio ieri il vice di Salvini Andrea Crippa ha sferrato un durissimo attacco alla “linea diplomatica” che, secondo lui, Meloni starebbe adottando sulla questione delle migrazioni.
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