L’avvenire degli oppressi
DA LA FIONDA (di Lorenzo Serra)
L’impossibilità di afferrare alcun anello, fosse anche il più debole, della catena: questa è l’attuale condizione di contrapposizione alla realtà circostante. Ma l’assenza di una forza/cultura politica antagonista non coincide, tuttavia, con l’assenza di sacche di oppressione ed emarginazione – in realtà sempre più consistenti. Da qualche parte, quindi, si deve pur cominciare, tenendo fermo quest’obiettivo da perseguire: il tentativo, cioè, di tramutare l’emarginazione in consapevolezza (coscienza), la coscienza in forza antagonista, la forza antagonista in una montagna che possa, quindi, schiantarsi contro il mondo contemporaneo.
Si dovrebbe, dunque, iniziare dalle domande più semplici, immediate: quale è il male che affligge l’essere umano della nostra epoca? Come si configurano le nuove forme di debolezza, oppressione ed emarginazione? Che tipo di modernità è quella che abbiamo di fronte? Questa nuova declinazione delcapitalismo in che modo sta mutando le strutture fondamentali della forma di vita borghese? Come ci poniamo rispetto al problema della totalità del mondo, e dei suoi rapporti di forza? E, ancora, quali sono le metodologie appropriate, da recuperare, per opporci a quest’epoca?
Bisogna cominciare a rifletterci su queste domande, tenendo ferma la consapevolezza di come qualsiasi riflessione antagonista abbia la possibilità di venir assorbita dalla cultura egemone. Quest’ultima, infatti, è divenuta un blocco unitario – l’unica forma del mondo – in grado di accogliere al suo interno elementi contrastanti, finanche opposti. Qui, infatti, vi è uno dei tratti salienti della nostra contemporanea cultura estetica: la capacità di dialettizzare ogni proposta antagonista, di tramutare, cioè, ogni assalto esterno in problema interno. E, ancora, di rendere molle ciò che è duro, superficiale ciò che è radicale, specialistico ciò che è estremamente vitale. Queste sono le fattezze del Nemico che ci ritroviamo di fronte: fluido, onnipervasivo, apparentemente impossibile da afferrare e, quindi, da combattere.
Discutendo dei potenziali elementi di contrasto, partiamo anche qui da un’evidenza: il nuovo mondo non ha, in alcun modo, risolto il problema della sofferenza umana. O meglio, per esser più precisi, non ci è entrato in alcun dialogo, è completamente estraneo al problema (già questa dovrebbe essere una buona motivazione per voler abbatterlo). Ecco, insomma, la condizione, solo apparentemente paradossale, in cui viviamo: un’epoca abitata da un dolore sempre latente, a cui sono lasciati i singoli individui, senza più alcuna capacità di simbolizzazione, condivisione o presa in carico collettiva. Al grado più alto della civilizzazione, ci ritroviamo, così, di fronte alla massima condizione terribile per l’essere umano: una solitudine, sempre più angosciante, di fronte alla domanda di senso. Ed allora nostro compito, il compito, cioè, di una forza antagonista, dovrebbe essere il seguente: andare a vedere queste nuove forme di emarginazione – esaminarle, indagarle, nel tentativo di donare ad esse una forma comunitaria.
Per assolvere a questo compito storico si pone, innanzitutto, una necessità: la riacquisizione di una forma di coscienza. Questo significa costruire un’alternativa, politica ed antropologica, al mondo dominante, da cui discende, logicamente, la necessità di mutare l’angolazione della nostra visuale: fare in modo, cioè, che, nella nostra visione del mondo, centrale e periferico si scambino di posto. Non (in)seguire più le categorie dell’epoca dominante: costruirne, piuttosto, delle proprie, recuperando, simultaneamente, quell’antica tradizione di messa in questione delle forme di emarginazione ed oppressione, per donare ad essa una forma riattualizzata. Riacquisire, in sintesi, la nostra forza autonoma: anelare a fare in modo che sia il centro a guardare noi, e non viceversa.
La nostra battaglia deve quindi partire da qui: da una critica radicale, feroce alla forma di vita borghese, a quella che, in precedenza, abbiamo definito nei termini di cultura estetica. Insomma, la lotta è insieme storico-epocale, politico-economica, antropologica ed i bersagli sono, conseguentemente, la declinazione finale della modernità, la ristrutturazione contemporanea del modo di produzione capitalistico, e, quindi, la forma di vita borghese, discendente e, insieme, protettrice di questo mondo. Il compito è quello di sfidare apertamente l’epoca egemone, opponendo alle sue categorie le nostre categorie: nuovamente forti lo saremo nel momento in cui non aneleremo più a divenire come lui, ma cominceremo a disprezzarlo, odiandone (con tenerezza, si intende, come scriveva Mario Tronti) la sua Weltanschauung.
Il tempo di essere subordinati, a rimorchio, deve terminare: il centro deve ritornare ad avere paura di noi. Ciò significa schernirlo, dileggiarlo, togliergli la maschera: destrutturare i suoi punti di forza, mostrandone la loro vacuità. Non aver più timore di un’apparente marginalità: piuttosto, costruire sulla disfunzionalità al moderno un’alternativa, su ciò che appare come debolezza una forza radicale. Questo è il campo di lotta, di conflitto, concernente i destini del nostro avvenire: la riscoperta di una fierezza, di un orgoglio, nella condizione di oppressione ed emarginazione. Ciò, tuttavia, non significa crogiolarsi nella subordinazione, nello stato degli sconfitti: piuttosto, tentare, continuamente, di dire che che ciò che è periferico può divenire centrale – costruire, cioè, lentamente, un potere alternativo, un contro-potere.
Qui vi è un elemento decisivo: proprio, infatti, perché il punto di vista è politico – poiché, cioè, la nostra è sempre una lotta per l’egemonia – non dobbiamo dichiararci fuori dalle dinamiche della realtà circostante. Questo significa che il nostro obiettivo finale non deve essere la costruzione di una fortezza interiore, di una realtà privata, mentre il mondo esterno sopravvive e prospera: piuttosto, la nostra meta è di far sì che le fondamenta della realtà contemporanea crollino. Da qui la necessità di esaminare, studiare, esperire punti di forza e limiti del contesto dominante, con l’obiettivo di farli esplodere: dentro e contro, secondo la vecchia formula operaista – ecco l’unica possibilità che abbiamo per rivoluzionare il contesto egemone.
Il giovane Lukács, commentando Dostoevskij, parlava di atei che credono: questa, in qualche modo, dovrebbe essere anche la nostra filosofia. Infatti, siamo comunque figli di questo mondo ed il nostro obiettivo non deve essere l’eremo, seppur anche comunitario, ma la polis, e quindi la politica. E questo si deve tradurre nel comprendere, a fondo, l’ateismo del nostro mondo (ateismo e fede hanno, nell’interpretazione del filosofo ungherese, una valenza metaforica, simbolica), senza, tuttavia, evidentemente sposarlo: stare dentro l’attuale moderno in un modo antico. Solamente dall’interno, infatti, potrà avvenire un rovesciamento.
Così, oggi socialismo significa critica della civilizzazione, di una forma di vita borghese divenuta onnipervasiva: questi, cioè, si traduce nella presa in carico del materiale di scarto del contemporaneo, di ciò che da quest’ultimo è considerato come primitivo, barbaro. Si avrebbe dunque bisogno propriamente di un’alternativa al potere anti-convenzionale: un socialismo come forza barbara che si ponga in guerra contro la nostra epoca. Scriveva ancora il giovane Lukács, in un passaggio molto bello della sua giovinezza, a proposito della chance storica incarnata dal socialismo: “la speranza che sopraggiungano dei barbari, i quali mandino brutalmente in frantumi tutte le raffinatezze”.
È qui, dunque, in ultima istanza, la possibilità rappresentata dal socialismo nel mondo attuale: la feroce critica di ciò che si definisce come centrale e, conseguentemente, la costruzione di una nuova cultura, che possa divenire il tramite (l’aurora) di una nuova epoca. Una dimensione politico-economica, antropologica-esistenziale, storico-epocale – mai il compito assegnato al socialismo fu più ampio: costruzione di una nuova direzione per la modernità, critica della forma di vita borghese, rivoluzione del sistema economico di produzione e messa in discussione dei rapporti di forza globali, rivalutazione e creazione di un orizzonte di senso comunitario per oppressi ed emarginati. La possibilità, in estrema sintesi, di aprire la strada ad una nuova Kultur.
FONTE: https://www.lafionda.org/2023/09/13/lavvenire-degli-oppressi/
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