Crisi e teoria critica. Qualche modesto appunto.
di NELLA FERTILITA’ CRESCE IL TEMPO (Alessandro Visalli)
Abbiamo assolutamente bisogno di una nuova teoria critica, che non dimentichi le lezioni dei nuclei più alti della storia delle lotte per l’emancipazione (e per quanto mi riguarda di quelle della vasta e multiforme tradizione marxista, ma si potrebbe aggiungere altro come la lezione della psicoanalisi e le teorie del potere e del conflitto, le migliori riflessioni sulla liberazione, le esperienze anticoloniali, e via dicendo), ma che sia anche all’altezza delle sfide presenti (in primo luogo all’altezza della sfida della rottura di queste tradizioni e del fallimento dei tentativi di ‘mobilitazione liberale’[1]).
Ne abbiamo bisogno perché il mondo è in un agghiacciante labirinto e nessuno riesce a capire in che modo uscirne. Dalla fucina della storia è giunto al presente un groviglio inestricabile di problemi rinviati nel continuo equilibrio dinamico di un sistema sociale che non ha mai cessato di trasformarsi, in modo via via accelerato dalla rottura dell’Antico Regime, ma in realtà sin dall’allargamento commerciale del XV secolo. Nel continuo turbinio della lotta per l’affermazione di gruppi sempre diversi, e dello sviluppo materiale e tecnologico che ha tenuto in tensione costante le élite nazionali e i vari outsider, più o meno locali. Facendo un notevole salto temporale si può dire che, guardandolo con senno di poi, avevamo avuto un trentennio di “quasi calma” nell’immediato dopoguerra. Il compromesso sociale, scaturito dal ricordo delle mobilitazioni operaie e sociali del secolo precedente, e dai milioni di morti ed immani distruzioni delle due guerre, è però alfine crollato sotto la spinta di un mondo che cambiava troppo velocemente. Ancora non abbiamo compreso bene perché.
Sulle ceneri di quel paradigma, e delle istituzioni sociali che lo sostenevano (e che hanno continuato, in alcuni luoghi meglio in altri peggio, a sopravvivere alle loro ragioni ed al loro assetto tecnologico a lungo), ha preso forma, per tentativi e in modo adattivo come sempre, un nuovo ambiente sociale ed una nuova cultura distintiva, ma anche un nuovo sottofondo emotivo. In questo nuovo ambiente dominano le aziende internazionali volte all’esportazione e con lunghe catene di valore e produzione, e la finanza internazionale ad esse connessa e funzionale, ma quale controtendenza si affermano nuovi e vecchi scontri tra poteri e blocchi[2], continua a modificarsi la piattaforma tecnologica[3] delle nostre vite. Su un altro piano dominano sempre più emozioni violente e oscure: paura, ansia, aggressività, angoscia e depressione[4].
La controtendenza che agisce nel lacerare il tessuto sociale (fino al punto da rendere sempre meno sensato il termine) è connessa a due vie con il fatto che queste aziende hanno sviluppato progressivamente immani effetti di polarizzazione spaziale e temporale, che si sono dispiegati lungo i trent’anni gloriosi di questo paradigma ed oltre, accelerando (d’altra parte è in questa polarizzazione, e nei differenziali di potere e risorse, che proliferano[5]). Si è passati progressivamente ad economie che sono state chiamate “monopoliste”[6] e poi alla loro esplosione su direttrici internazionali. Come un vecchio treno diesel, la lunga carovana della nuova globalizzazione (che è sia motore sia effetto di questo nuovo modo di produzione sociale), ha preso, quindi, gradualmente velocità e a cavallo del millennio ha iniziato a determinare irresistibili effetti secondari. Tra questi, due sono da rimarcare per la loro immensa potenza: la crescita delle ineguaglianze, man mano che vecchi vagoni venivano staccati per consentire al convoglio la sua accelerazione; e l’autonomizzarsi progressivo della finanza, trascinata dalla tecnologia e da specifici interessi nazionali (dello stato egemone centrale).
Un’intera cultura tecnica, una compatta ideologia e coerenti rappresentazioni sono state costruite per giustificare questo stato di cose, e gli attori che in esso si muovevano. Le Istituzioni fondamentali del mondo (FMI, BM) sono state disegnate da Trattati vincolanti per servire questo mondo ed essere funzionali ai suoi attori chiave. E’ del tutto normale che sia così. La centralità, quasi assoluta, della finanza (i cosiddetti “mercati”) nel centro stesso del sistema, la sua indispensabilità per il mantenimento dell’equilibrio, la marginalità oggettiva delle vecchie Istituzioni nate dai conflitti locali del secolo precedente (i Parlamenti a suffragio universale, intanto; e poi i sindacati, le associazioni datoriali, le varie sfere pubbliche nazionali) e delle forze sociali che ad esse si riferiscono, parlano di un sistema al quale tutte le élite economiche, culturali e politiche contemporanee sono legate da vincoli di convenienza, riconoscenza ed identificazione.
Alla fine, però, questo sistema-mondo ha impattato nei suoi limiti intrinseci (esattamente come il precedente). Ha teso le sue forze, e sfruttato le nicchie disponibili, a tal punto da non riuscire più a generare valore a sufficienza da mantenersi attivo e onorare le sue promesse (per quanto minimali, prima tra tutte di garantire la crescita economica, ma anche e perciò di riempire di senso la vita[7]). Ha interpretato le potenzialità della tecnologia emergente, sviluppandone la potenza e dispiegandone la logica, fino a che quest’ultima ha scavato talmente tanto sotto i suoi piedi da renderlo instabile. C’è, infatti, una differenza essenziale tra lo spirito di una tecnica e gli assetti sociali. Mentre la prima dispiega una sua logica puramente autoreferente, ogni società deve essenzialmente riprodursi e conservare una sua stabilità, per far questo non può lasciare indietro la stragrande maggioranza, non può andare sempre dietro solo al vincitore. Il semplice fatto che le informazioni possano essere gestite in modo molto efficiente, e trasmettere in tempo reale impulsi economici, senza riguardo per la materialità dei luoghi nei quali si “poggiano” (e di quelli dai quali escono) si scontra in modo non aggirabile con la lentezza e la stanzialità dei sistemi territoriali, della carne e sangue dei luoghi, della differenza che esprimono. Con lo “spazio” ed il “tempo”.
L’esito è la polarizzazione, e lo spostamento che rende deserto ciò che era vitale, e iperdenso qualche singolo luogo. Ma l’esito è anche la folla abbandonata ed individuale dei naufraghi che sono lasciati indietro (e possono essere ‘lasciati indietro’ anche ceti per certi versi abbienti, dato che si tratta di termine essenzialmente relativo). L’esito è anche lo spiazzamento delle Istituzioni, nate per governare questa incertezza, ed invece da essa governate.
Emerge così la crisi che ci avvolge. Una crisi che ci fa vedere ogni giorno di più la nudità del re che ci ha governato per trenta anni.
Ci sono almeno due considerazioni, tra le tante, da fare in questo contesto:
– quando un sistema sociale di successo diventa disfunzionale non lascia la scena senza combattere; perché nessuno lo fa, e perché gli attori interessati sono diventati centrali nel tempo. Essi difendono i risultati che hanno ottenuto. Sarebbe ingenuo pensare che non sia così. Le persone che sono state selezionate in questo ambiente, ed in esso hanno fatto carriera, sono legate da innumerevoli vincoli di solidarietà, di interesse e di convinzione con esso e tra loro. Le organizzazioni stesse sono disegnate e orientate a difenderlo. L’alleanza fondamentale tra la grande impresa dedita all’esportazione, e socialmente irresponsabile fin nel genoma (dato che i capitali sono da ovunque ed i clienti pure), e la finanza de materializzata che impiega risparmi anonimi, sviluppa una pressione enorme sul mondo della consulenza e, via questo, sulle strutture decisionali ed i relativi processi.
– la cultura che si è sviluppata, in opposizione ai fallimenti della precedente gestalt egemone, ha la sua inerzia e tende a riprodurre le proprie ricette, ormai diventate dogma. Anche qui, l’immensa massa di potere e denaro, determina un’enorme capacità di gestione di informazione, di senso e di relativi veicoli. Una capacità di inquadrare ogni nuovo problema in vecchie soluzioni che non può essere in alcun modo sottovalutato.
Rileggere tutto questo assetto, come se si trattasse di individuare soluzioni razionali a problemi razionali, come se si trattasse di decidere una nuova ricetta (trattamento del debito pubblico, soluzione della crisi ambientale e climatica, definizione delle politiche espansive corrette, bilanciamento della politica commerciale, definizione delle politiche industriali strategiche) è non comprenderne la natura essenzialmente sociale e politica della situazione. Inoltre lavora con un’idea di “razionale” troppo limitata. Queste decisioni vanno prese, e non sono affatto indifferenti, possono anzi fare la differenza, ma generano sempre una nuova società. Articolano nuovi vincenti e perdenti, mutano le istituzioni e la loro programmazione essenziale, ne creano di nuove, inibiscono degli sviluppi tecnologici e ne favoriscono altri, determinano assetti di potere e politici, articolano la dialettica tra i paesi e tra quelli che una volta si chiamavano “blocchi” (e che torneremo presto a chiamare così), cambiano il tono morale ed emotivo della situazione, sviluppano una nuova teologia (anche politica[8]).
Dunque facciamo mezzo passo indietro: una decisione pubblica non è un calcolo. Non è l’espressione di una volontà. Non è un voto. In una decisione pubblica c’è sempre l’attivazione di un’arena di conflitto e lo spegnimento di qualche altra. Ci sono sempre attori valorizzati ed altri oscurati. C’è sempre una posta palese ed altre invisibili; ogni attore ne ha, e non sempre collimano. Una decisione pubblica non è mai logica. Ha sempre anche un contenuto emotivo ed un significato politico. Produce, riproduce e celebra dei valori sociali, e dunque è il risultato (e la matrice) di una società esistente o nascente. Ogni decisione interpreta il flusso della storia dell’organizzazione o del milieu che è stato attivato per strutturarla e giustificarla, essa crea sempre alleanze (e non sarebbe concepibile senza di esse), nasce nel conflitto e lo delimita. Articola una sua legittimità e dispiega i simboli della competenza e della reputazione.
Per arrivare a definire una decisione strutturante (ad esempio, come quella di sviluppare una transizione energetica) bisogna accedere ai problemi, definirli, riconoscerli tali, traguardarne l’esito. Il “setting decisionale” inquadra le identità valide nel campo decisionale, i soggetti riconoscibili e gli attori, le istituzioni attivate e quelle inibite. Per arrivarci bisogna selezionare l’informazione pertinente e le tecniche “valide”.
Ogni decisione viene presa in condizioni di scarsità di tempo, di attenzione, di chiarezza ed è un processo sociale e politico importante in sé. Una sorta di “rituale sacro”, come scriveva James March[9].
Ogni decisione è in parte mera applicazione di routine e norme, in parte attivazione di memoria selettiva, in parte intuizione di nuove possibilità, in parte imitazione, in parte tradizione e fede. Lavora con scopi, conseguenze future, preferenze future (che sono sempre gestite strategicamente), con l’informazione (che è fonte di potere, di garanzia ritualistica, oggetto di strategie, riserva di senso, …).
Un urbanista americano attivo dagli anni cinquanta ai primi ottanta, Kevin Lynch, in “Good city form” del 1981 descriveva i processi decisionali, ad esempio quelli coinvolti nelle dinamiche territoriali, come un intreccio di catene, o sequenze, di inferenze e atti che mettono in connessione situazioni, valori e obiettivi; ma “le parti inferiori di tali catene sono sommerse nell’abitudine, mentre quelle superiori si perdono tra le nuvole, per essere rivelate solo in occasioni retoriche”, inoltre e quel che più conta, “catene differenti si mescolano e si separano in modi confusi, sicché le singole azioni derivano da molti valori e hanno conseguenze molteplici, che a loro volta sono collegabili ad altre fonti di valore. Il risultato è un cespuglio [thicklet] piuttosto che una catena, o più esattamente un cespuglio le cui radici e i cui rami si intersecano e si innestano gli uni negli altri”[10].
Ci sono due principali “finzioni” (che svolgono una fondamentale funzione di legittimazione sociale) che vanno considerate per non immaginare che sia questione solo di definire una buona e razionale “soluzione”.
- che le siano scelte ricondotte ai decisori,
- che i problemi siano ricondotti alle scelte.
Il processo decisionale è essenzialmente un confronto-scontro che fa uso dei materiali disponibili (tra cui, sia bene inteso, hanno grande importanza le “riserve di senso” incorporate nelle norme e nei discorsi normativi ed il loro ancoraggio necessario ed implicito a densi sfondi sociali) per attivare impulsi di forza, contrattare, formare coalizioni, stimolare lealtà, riscuotere crediti. I risultati dipendono dalle preferenze di partenza degli attori e dal potere che può essere mobilitato da ognuno. Le scelte sono da ricondurre alla sedimentazione (o agglomerazione) di un “sistema d’azione” efficace (più dei concorrenti) e non ai “decisori”.
I problemi sono definiti insieme alle scelte (non di rado sono le scelte a individuare i “loro” problemi.
Il significato della decisione assunta, o che si predilige, incorpora l’informazione solo se questa è collegabile a storie coerenti e raccontabili. Se fa sistema. Informazioni e processo decisionale consolidano una struttura di significati nella quale si collocano; che le sostiene e le crea. In questo senso l’attività decisionale pubblica (ma anche quella privata) è una sorta di “rituale sacro” e comporta attività “altamente simboliche”. Come scrive March, “essa esalta i valori fondamentali di una società, in particolare il concetto che l’esistenza è alla mercé della volontà umana e che tale controllo si esercita mediante scelte, individuali e collettive, fondate su un’esplicita previsione di alternative e sui loro probabili effetti”[11]. Decisione e potere sono indissolubilmente uniti per via di questa caratteristica simbolica ineliminabile.
Allora il processo decisionale non è un luogo “tecnico” (molto spesso, in ogni polemica politica su qualche scelta pubblica si sente la lamentazione circa l’irrazionalità tecnico-economica della decisione “politica” assunta), è più la palestra per esercitarsi in valori sociali, far mostra di autorità, esibire comportamenti distintivi rispetto al costrutto ideologico centrale (nella nostra cultura occidentale) di ‘scelta intelligente e consapevole’. La decisione è politica in questo senso. Ogni scelta e decisione crea il sociale.
Dunque, interagire con questa complessa dinamica richiede saggezza ed intuito, richiede percezione ed empatia per le forze in campo e quelle mobilitabili (che in campo possono entrare), richiede una strategia rivolta a spingere l’intero apparato di dati informativi, aspettative ed opzioni disponibili in una direzione nella quale si dimostri produttiva o utile. Cercando di sviluppare in una sola mossa ciò che è produttivo e gli strumenti per conseguirlo (insieme agli attori).
Considerato tutto ciò si potrebbe argomentare che la crisi che attraversiamo non è solo un malfunzionamento essenziale della finanza nel suo ruolo di mediazione tra risparmio ed impieghi produttivi, che ha avuto sin dal medioevo; non è solo uno scollamento tra la crescita della produttività e l’occupabilità o la rendita del lavoro, che è in corso almeno da quattro decenni; non è solo lo spaccamento della società in enclave incomunicanti ed il rifiuto della parte fortunata di condividere le sue ricchezze tornate a livelli ottocenteschi; non è solo prevalenza della competizione e dell’egoismo sulla cooperazione e solidarietà, e relative emozioni, senza la quale la società precipita nel caos e nell’odio (e nell’ansia). La crisi è anche una rottura di razionalità nel capitalismo come struttura di ordine della società. E’ la dimostrazione che le routine e le soluzioni consolidate nella tradizione sono ormai spiazzate, che anche le nuove non funzionano più.
Che non abbiamo più parole adatte e pensieri fecondi, danziamo intorno a ‘dei’ sterili e amiamo le cose sbagliate. Che dobbiamo reinventarci.
Per questo serve una nuova teoria critica.
[1] – Finisco per chiamare così, in modo tranchant, le mobilitazioni populiste in salsa occidentale che abbiamo visto negli anni Dieci finali. Per una critica più ampia si veda Alessandro Visalli, Classe e Partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo, Maltemi, 2023.
[2] – Per una conversazione su questi temi si può vedere il canale di Giacomo Gabellini a questo link.
[3] – Si veda “Appunti sul mutamento della piattaforma tecnologica del capitalismo contemporaneo”, 20 maggio 2018.
[4] – Si veda su questi temi il lavoro recente di Vincenzo Costa.
[5] – Si veda, per questo modello interpretativo che qui non posso esplicitare le Conclusioni di Alessandro Visalli, Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare, Meltemi 2022.
[6] – Paul Baran, Paul. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1958.
[7] – Si veda su questo il primo e terzo capitolo del mio libro recente Classe e Partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo, cit.
[8] – Si veda il recente libro di Geminello Preterossi, “Teologia politica e diritto”, Laterza, 2022
[9] – James G. March, Decisioni e organizzazioni, Il Mulino, Bologna 1993.
[10] – cit, in. V. Andriello, La Forma dell’esperienza, 1997, p.74
[11] – James G. March, Decisioni e organizzazioni, op.cit., p. 383.
FONTE:http://tempofertile.blogspot.com/2023/09/crisi-e-teoria-critica-qualche-modesto.html
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