Antonio G. Bortoluzzi, autore di Come si fanno le cose (Marsilio/Feltrinelli 2019-2023), ha appena dato alle stampe un libro coraggioso. Si intitola Il saldatore del Vajont (Marsilio, 2023) e prosegue il lavoro della memoria, pubblica e privata, che, a giudicare dai suoi primi lavori raccolti ora in Montagna madre (Biblioteca dell’Immagine, 2022), sembra essere il vero movente che ha spinto un operaio specializzato come Bortoluzzi a dedicare per anni tutto il suo tempo libero a un’attività apparentemente lontana dal suo mestiere come la scrittura.
La tragedia del Vajont – quasi duemila morti per avidità, codardia, tracotanza e una serie di errori, inadempienze, meschinità, che mettono ancora oggi i brividi – è un episodio cruciale ed emblematico della nostra storia nazionale e, più in particolare, della variante italiana del processo di modernizzazione. Quando Marco Paolini l’ha rispolverato trent’anni fa mettendolo al centro di un esperimento classico di teatro civico, io stesso, che, per ragioni biografiche (la mia famiglia è originaria di quei luoghi), credevo di sapere tutto quello che occorreva sapere su quell’evento, sono stato colto di sorpresa dalla potenza emotiva del suo racconto, che nel 1997 è diventato anche un programma televisivo visto da più di tre milioni di persone.
Pochi anni più tardi una tragedia dalle proporzioni umane simili – l’attentato alle Torri gemelle – è diventato un totem della coscienza umana globale e ha provocato una reazione politica a catena che ha sconquassato il mondo per decenni. La tragedia del Vajont, invece, è rimasta nel tempo una tragedia locale, a cui si è faticato a dare un significato e un valore universale. Perché?
Viene spontaneo chiedersi se non sia proprio l’esigenza di rispondere a questo interrogativo che ha spinto uno scrittore delle Terre alte a tornare narrativamente sul luogo del delitto e riprendere il filo di una narrazione interrotta. Da dove riparte il racconto orchestrato nel Saldatore del Vajont? Ricomincia da una visita guidata sotto, sopra, accanto alla famigerata diga (che, vale sempre la pena ricordarlo, fu la causa indiretta e non diretta del disastro) e da un’emozione diversa dall’indignazione. Anzi, opposta, direi. Visitando il colossale manufatto con gli occhi di uno che sa come si fanno le cose, il protagonista del romanzo descrive infatti con ammirazione il gigantesco sforzo tecnico che ne ha permesso la costruzione. È proprio l’ambivalenza tra tracotanza e sano orgoglio di specie che nel libro funge da pompa della memoria pubblica e privata che, rievocando episodi trascurabili e monumentali, nobili e meno nobili, cerca di ricavare quel poco di senso che si può trarre dalle misere esistenze umane.
Questo sforzo di discernimento, però, è sempre sul punto di naufragare minacciato com’è dall’oscurità impenetrabile della sofferenza causata la sera del 9 ottobre del 1963 dall’onda provocata dall’annunciatissima frana del monte Toc. Qui, il nodo filosofico, per evocare una celebre definizione del progresso di Andrea Zanzotto, è un nodo scorsoio, che se lo tiri troppo rischia di soffocarti. Come si fa, insomma, a tenere insieme storia personale, le forze storiche impersonali che dettano il ritmo alle nostre vite e lo sfondo buio in cui, se inghiottita, ogni cosa perde colore, sapore e può suscitare in noi una disperazione da cui l’unica via di fuga sensata sembra essere, su fronti opposti, il cinismo o lo stoicismo?
Una delle risposte possibili è proprio raccontare nella maniera giusta. Se gli eventi che capitano agli esseri umani sono per loro natura narrabili, questo vuol dire che attorno a chi racconta deve pur esistere un numero significativo di persone in grado di rispondere nel modo giusto alla loro narrabilità. A tale scopo, il racconto deve però suonare autentico alle orecchie di uomini e donne che, entrando in risonanza con questa narrabilità, possono agire come raggi di luce iridescente anche nei tempi bui.
La memoria, si sa, come l’acqua, scorre, scava, tracima, trova le sue vie di fuga, spesso imprevedibili. Governarla non è semplice. Nel caso del Saldatore del Vajont, in effetti, l’obiettivo di imbrigliare la memoria per trasformarla in una memoria riparativa è reso ancora più improbo dalla necessità di mantenere la tensione morale a un livello tanto alto quanto è richiesto dal dovere umanistico della memoria di fronte a tragedie di dimensioni inimmaginabili. È questo che fa del Saldatore del Vajont un libro ammirevole, tanto più perché l’esercizio sinfonico di memoria pubblica e privata viene prodigato con riserbo dai margini geografici della comunità che ha pagato un prezzo così alto alle patologie del progresso moderno.
La prima domanda che mi è venuto spontaneo rivolgere all’autore concerne perciò proprio il dovere della memoria in questo caso specifico.
Lo scopo del tuo romanzo, se non sbaglio, non è tanto ribadire la verità storica sul «Vajont», che è ormai scolpita nella pietra, ma ragionare sul significato sociale, esistenziale, persino antropologico di tale verità. Riflettendo sullo «scorrere» del tempo e sugli argini con cui gli umani cercano di incanalare questo fiume impetuoso, infestato dalle anguàne, le streghe dell’acqua, il protagonista del romanzo registra con fatalismo che «i ricordi di una persona sono come un libro senza numeri di pagina, né capitoli; non c’è un indice, non c’è un inizio e non c’è una fine» (p. 72). Non esiste, dunque, un’alternativa alla lenta e anonima opera di erosione e riconfigurazione del tempo? Come si può convivere sensatamente, secondo te, con una memoria ingombrante e dolorosa come quella con cui prova a fare i conti il saldatore?
Provando a tirarla fuori quella memoria, portandola alla luce del sole, agli occhi degli altri. Già nell’introduzione al volume antologico Montagna madre: trilogia del Novecento, basandomi su un’etimologia conosciuta, avevo insistito sul fatto che «ricordare è portare vicino al cuore». Personalmente interpreto questo nesso tra memoria e vita interiore così: qualcosa che è già stato rivive nel presente attraverso il cuore e la mente di chi ricorda. Quando un evento passato arriva alla persona singola, o a tante persone, si riaccende, lavora nell’animo, nelle idee. Inoltre, non appena il ricordo di una persona è reso indelebile dalle forme della scrittura (alfabetica, visiva, sonora), ecco che abbiamo una costruzione che deve rispettare anche le norme del discorso letterario, della composizione artistica, e non è più solo flusso, visione, apparire e scomparire (soprattutto del dolore), ma un tirar su, un far vedere, una costruzione. Forse un riparo all’impetuoso scorrere del tempo.
Mentre scrivevi il libro avevi un’idea chiara di come la tua rimemorazione potesse entrare in sinergia con il ricordo dei testimoni diretti dell’evento oppure lo hai vissuto piuttosto con incertezza, come una specie di perlustrazione? Esiste una distanza «giusta» anche per la memoria oltre che per il giudizio storico di fronte a eventi così tragici?
Dopo la visita guidata all’impianto del Vajont (centrale di Soverzene, gallerie, condotte, diga) non avevo intenzione di scrivere un romanzo, avevo solo una domanda: come può essere stato che tutta quella perizia, quel saper fare le cose, quei lavori eseguiti a regola d’arte, abbiano in qualche modo concorso al disastro? Perché mentre si perseguiva un bene, l’energia idroelettrica, dentro un’idea di progresso (e la domanda è tanto più rilevante oggi che il tema delle energie rinnovabili è diventata una questione di vita o di morte per l’intero pianeta), è accaduto l’irreparabile e le persone non sono state allontanate dal pericolo?
Nei giorni successivi alla visita guidata ho avuto modo di raccontare a Chiara Valerio (responsabile della narrativa italiana di Marsilio) questa visita, così, come si racconta un fatto importante della nostra vita a un amico, a un’amica, forse perché quell’esperienza sta ancora ribollendo dentro di noi e non riusciamo a sistemarla da qualche parte. E lei mi ha detto: scrivila questa storia, con questo punto di vista la puoi scrivere solo tu. Fino a quel momento non ci avevo pensato, e ho avuto subito timore di farlo: a che titolo avrei potuto scrivere? Non sono ingegnere, né geologo, avvocato, giornalista. Soprattutto non sono un superstite. Però nei giorni successivi l’idea ha cominciato a scavare dentro di me e mi sono tornate in mente tante piccole storie, che avevo sentito in casa, nei paesi e soprattutto dai colleghi e dalle colleghe di lavoro della zona industriale di Longarone, dove lavoro da tanti anni. Là dove ora sorgono le fabbriche, la mattina del 10 ottobre 1963 c’era solo desolazione, fango, morte. E il saldatore, che è a una «distanza» non scelta, avverte una «vicinanza» mentre osserva, sfiora, respira, considera ciò che vede nell’impianto idroelettrico e nei luoghi circostanti: il bosco vecchio del Monte Toc, la Pianta Santa (la sequoia gigante che ha resistito all’onda), il Cimitero monumentale delle vittime.
Ti ho sentito spesso dire, in occasioni pubbliche e private che un rapporto autentico, non spurio, con l’ambiente montano deve necessariamente passare attraverso il lavoro, il fare le cose, la fatica. Ma c’è qualcosa che distingue in maniera inequivocabile il modo in cui sono state fatte le cose costruendo la spettacolare diga sulla gola del torrente Vajont e la proverbiale operosità dei montanari, oppure l’ambivalenza è, per così dire, connaturata al rapporto asimmetrico tra Natura e specie umana che si può quasi toccare con mano nelle Terre alte?
Come dici, credo che un buon modo per ritornare alla montagna, sia lavorarla. Accanto all’ammirazione per la Natura, alla difesa di questi nostri luoghi, per così dire «fino all’ultimo prato», ovunque vi siano ancora porzioni di verde coltivato e verde selvatico, ci deve essere un «nuovo fare». Io mi immagino un futuro con i vecchi abitanti dei paesi alti resistere al lavoro sulle terre ripide e nuovi montanari e montanare che salgono in quota per aver cura dei poderi abbandonati, dei prati, dei boschi, delle case, delle stalle. E in questo fare li immagino, se non proprio felici, in sintonia con i propri giorni, acquietati dalla fatica fisica e dalla sensazione ancestrale che si prova quando la propria terra è un tutt’uno col proprio corpo. Non molti credono a questa specie di visione ottimistica (perché i paesi si spopolano, nascono pochi figli, i servizi essenziali abbandonano la montagna), ma siccome nessuno mi aveva avvisato, quarant’anni fa, che ci sarebbe stata, per esempio, la grande riscoperta della bicicletta come mezzo di svago o che avremmo aperto palestre dove si paga per faticare (la fatica come piacere!), direi che possiamo tranquillamente supporre che, in un giorno non molto lontano, ci saranno persone e famiglie che avranno l’idea e la voglia di organizzare la propria vita con delle porzioni di tempo dedicato al coltivare da sé, al farsi le cose. Quassù gli spazi non mancano.
La diga del Vajont, gli impianti industriali, ciò che è stato costruito nel Novecento, anche in montagna, ha una storia più recente e dirompente rispetto al lavoro contadino, agricolo, artigianale che è giunto a noi attraverso una stratificazione millenaria. Questo secolo industriale ha scardinato tecniche, usi, relazioni, visioni del mondo e altrettanto accade con i recenti balzi tecnologici (energia termonucleare, informatica, intelligenza artificiale), balzi che ci lasciano dentro un’opulenza di beni materiali e di opportunità ma spaesati, isolati, spaventati. Un modo per non essere spaesati è appunto tornare o andare al «paese». Contro l’isolamento e contro la moda del solitarismo (che è un’ostentazione dello stare per i fatti propri) è importante rinforzare o costruire le comunità: contro la paura è necessario conoscerci.
A un certo punto del racconto è lo stesso protagonista a dire che la saldatura ricorda la guarigione di una frattura. Secondo te, insistere sulla metaforicità della figura del saldatore per spiegare come funziona la memoria a sessant’anni di distanza da un evento che non è ancora storia, ma non è più nemmeno cronaca, significa sovrainterpretare il testo oppure no? Mi spiego meglio: è in questo senso che va interpretata l’idea che «la memoria non è mai fatta una volta per tutte: è come un lavoro, una specie di fragile costruzione che cammina sulle parole e sull’esempio delle persone» (p. 97)?
Il saldatore, il protagonista che nel romanzo non ha un nome proprio, ha fatto proprio quel mestiere nella vita: il saldatore di putrelle d’acciaio, di silos, di carpenterie metalliche. Ma, come suggerisci, è importante fare spazio alla metafora. Da sempre, per provare a capire, per mostrare (anche a noi stessi) abbiamo attinto alla Natura, e continuiamo a farlo. Il saldatore introduce nella sua rimemorazione una cosa che ha visto fare, che sa fare: l’elettro-saldatura, una fusione controllata che unisce due lembi, due parti attraverso il lavoro, e sente che ci può essere un insegnamento in questo: non ciò che deve accadere, ma ciò che vogliamo provare a far accadere. Magari raccontando.
Leggendo le storie raccolte in Montagna madre, l’impressione generale che si ricava è che, nell’universo che hai scelto di raccontare, i destini individuali contino infinitamente meno rispetto alle circostanze esterne che costringevano, e ancora oggi costringono, la povera gente a una lotta estenuante per la mera sussistenza. Questo, se non sbaglio, suscita, da un lato, fatalismo, dall’altro, una collera sorda contro l’ingiustizia patita da persone che avrebbero meritato di più. Il risarcimento che i tuoi libri offrono a queste persone, che la corrente della Storia ha trascinato via come le imbarcazioni di canna con cui comincia il racconto del saldatore, mi sembra che sia una forma di pieno riconoscimento. È forse questa la lezione che possiamo trarre da ciò che è successo sessant’anni fa e che va al di là del monito a non commettere più gli stessi errori? Ha senso dire che il debito che ancora abbiamo con le vittime del Vajont verrà onorato soltanto quando avremo la certezza che il senso della loro tragedia è stato riconosciuto fino in fondo? È qui, insomma, che va cercato quel punto di «eternità immobile che preme sulle spalle, e si adagia sul cuore» evocato nella frase finale del libro?
Il Saldatore del Vajont non ci sarebbe se non ci fossero stati prima Montagna madre o Come si fanno le cose, senza cioè il tentativo di dare voce a chi non ha voce (eppure ne avrebbe di cose da dire). L’idea che mi sono fatto, giungendo alle ultime pagine di questa storia, iniziata con una certa inquietudine, è che abbia via via seguito il proprio corso con «naturalezza» come l’acqua di un torrente: c’è una forza, un andare verso, e poi sassi, anse, sponde, e alla fine l’incontro con un’acqua più grande, la fusione nel lago o nel fiume. E accade che il Saldatore, l’io narrante, che all’inizio è concentrato sui propri piccoli drammi (arriverà la meritata pensione? Avrà abbastanza salute per goderne?), sente il peso del calcestruzzo che si posa «sulle spalle e sul cuore» e quel peso lo costringe a terra, quella terra che custodisce i resti delle vittime innocenti del Vajont. L’eternità immobile di quel dolore che preme (e insieme solleva dai piccoli affanni del quotidiano), lo porta a sentirsi parte di qualcosa: solo tante mani, tante menti, tante energie possono sorreggere quel peso.
Commenti recenti