Credevamo – a ragione – che il conflitto ucraino rappresentasse un punto di svolta importante, forse decisivo, nel processo di trasformazione geopolitica globale, che sta transitando il mondo verso un’era multipolare. Ne avevamo colto sia, appunto, il fatto che segnasse un giro di boa, sia come fungesse allo stesso tempo da acceleratore del processo che portava alla luce. Una accelerazione riscontrabile – ad esempio – negli avvenimenti che hanno attraversato l’Africa sub-sahariana, o nella crescente saldatura tra i grandi nemici dell’impero americano, Russia Cina Iran e Corea del Nord – che invece il disegno strategico di Washington voleva dividere e colpire separatamente.
Ma quanto accaduto il 7 ottobre ha segnato una scossa ancora più forte, più profonda. E che l’attacco sferrato dalle Brigate al-Qassam contro l’occupante israeliano sia un momento importante dello scontro in atto, è testimoniato proprio dalla portata delle reazioni. L’Ucraina, già data comunque per sconfitta, è stata prontamente relegata nel dimenticatoio, gli Stati Uniti si sono immediatamente mobilitati – con una poderosa dimostrazione di potenza – nel sostenere in prima persona l’alleato strategico nel Medio Oriente, e in occidente è scattata ancor più forte e stringente che mai la negazione-repressione del dissenso. La posta in gioco è alta.
C’è sicuramente una componente di rabbia, nella reazione israelo-americana, per l’essersi fatti cogliere a braghe calate da un nemico cui non si dava grande credito. Ma più di ogni cosa brucia la consapevolezza che, dopo la sconfitta di fatto subita in Ucraina contro la Russia, subirne un’altra in un’area strategica come il Medio Oriente, e per di più da parte di un nemico minore come l’Iran, risulta inaccettabile.
Ovviamente la sconfitta di cui si parla non è quella militare – di cui vedremo più avanti – ma quella politica. Con la sua mossa, Hamas ha fatto saltare gli Accordi di Abramo, con cui gli USA cercavano da tempo di ricomporre un quadro di non-ostilità verso Israele da parte dei paesi arabi della regione. E che soprattutto miravano a riequilibrare i mutamenti dovuti al riavvicinamento tra Iran ed Arabia Saudita, ed alla riammissione della Siria nella Lega Araba – due fatti decisamente negativi per l’impero statunitense. Ha inoltre riportato alla ribalta internazionale la questione palestinese, che Washington e Tel Aviv da tempo cercano di mantenere in sordina. E, niente affatto secondariamente, ha distrutto il mito dell’invincibilità israeliana, e rimobilitato le masse arabe e musulmane, che sulla questione palestinese sono molto più radicali dei loro governi. Questo insieme di cose ha dato una scossa poderosa all’intero Medio Oriente, i cui effetti si vedranno nei mesi a venire.
Cosa non certo meno importante, la necessità di dirottare prontamente aiuti economici e militari verso Israele, ha di fatto velocizzato il processo di disimpegno – su entrambe i piani – nei confronti dell’Ucraina, cosa che non mancherà di avvantaggiare la Russia sul campo di battaglia, dove peraltro ha ripreso l’iniziativa offensiva quasi ovunque.
Ma la questione cruciale è che adesso gli Stati Uniti sono stati costretti a fare ben oltre un singolo passo in più, ed ora si trovano sbilanciati in avanti sull’orlo di un abisso imperscrutabile.
Una crisi in Medio Oriente, infatti, è l’ultima cosa di cui Washington aveva bisogno.
Sul piano interno, perché – se pure una guerra in difesa di Israele ha maggiore consenso di quella ucraina – andare incontro alla lunga stagione elettorale per le presidenziali, avendo ben due conflitti sulle spalle, non è esattamente il viatico migliore per Biden ed i democrat.
Ancora peggio sul piano internazionale. La paziente ricucitura messa in piedi tra Arabia Saudita ed Israele, e più in generale tra questo ed i paesi arabi (i suddetti Accordi di Abramo), è andata in fumo in men che non si dica. Nei paesi musulmani è riemerso con forza il sentimento anti-USA (visti giustamente come padrini di Israele). Le tensioni nell’area rischiano di far compiere un ulteriore balzo al costo del petrolio, cosa che metterebbe in ulteriore difficoltà e fibrillazione più di un alleato [1].
E, cosa più pericolosa di tutte, si ritrova a dover muovere le (poche) pedine di cui dispone in uno scacchiere esplosivo, ed in cui, comunque si muove, rischia di sbagliare. Deve infatti ad un tempo sostenere l’alleato irrinunciabile, cercando di tenerne a freno le pericolose irrequietezze, e mostrare la propria fermezza nel presidiare l’area. Ma evitando accuratamente che le cose deflagrino, trascinando gli Stati Uniti in una guerra i cui esiti sono del tutto imprevedibili, e che oltretutto può divampare a dimensioni fin troppo pericolose.
Questo il quadro geopolitico in cui si colloca l’azione delle Brigate al-Qassam – ma non solo.
Proviamo quindi, adesso, ad esaminare più nello specifico quello che è accaduto il 7 ottobre e nei giorni seguenti.
La prima cosa da chiarire, è che questa operazione della resistenza palestinese non ha visto in azione soltanto al-Qassam (ala militare di Hamas). Questa narrazione è perfettamente funzionale alla costruzione, da parte israelo-americana, di una contrapposizione dualistica: i terroristi di Hamas contro la democrazia di Israele (né più né meno che lo stesso schema usato per la guerra ucraina, basta cambiare i nomi degli attori…). In realtà, l’operazione ha visto scendere in campo le formazioni militari di più movimenti della resistenza palestinese, come si evince chiaramente da un documento congiunto diffuso nei giorni seguenti. Oltre ad Hamas, hanno partecipato la Jihad Islamica Palestinese, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina ed il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – Comando Generale.
È stata quindi una operazione militare delle resistenza palestinese in senso ampio, e questo dovrebbe far riflettere tutti coloro che si sono precipitati a solidarizzare ma prendendo le distanze da Hamas…
Quello che sappiamo, a tre settimane dall’attacco, è ovviamente ancora parziale, ed alcune cose possiamo soltanto ipotizzarle.
Al primo punto, procedendo cronologicamente, c’è ovviamente la pianificazione. Da quanto si apprende, l’elaborazione del piano, e la predisposizione della logistica necessaria a portarlo a termine, ha richiesto circa due anni. Nel settembre 2011, gli USA annunciano la firma degli Accordi di Abramo, un patto trilaterale tra Stati Uniti, Israele e Bahrein, che rilancia il processo di normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi ed Israele. Obiettivo dichiarato degli Accordi è di estenderli quanto prima all’Arabia Saudita, paese-leader del mondo sunnita. L’articolazione degli accordi è tale da mettere praticamente una pietra tombale sulla prospettiva di uno stato palestinese.
Evidentemente, a questo punto si apre un dibattito tra le forze della resistenza, per capire come fermarne il processo.
All’incirca un anno dopo, comincia evidentemente a prendere forma quello su cui le varie forze hanno concordato, ovvero la necessità di sferrare un colpo capace di frantumare la prospettiva delineata dagli accordi [2]. La pianificazione ovviamente non riguarda soltanto l’attacco in sé, ma anche la predisposizione di quanto occorre per fronteggiare il dopo.
La prima misura presa, e questo oggi lo sappiamo, è stata la creazione di una rete di comunicazione cablata chiusa, cioè non connessa ad alcuna rete telefonica pubblica, da utilizzare per le comunicazioni. Questo – insieme al non utilizzo di internet – ha consentito di tenere rigorosamente nascosto quanto si stava realizzando. È ragionevole ritenere (ed alcuni elementi lo confermano) che le stesse leadership politiche delle organizzazioni coinvolte fossero tenute all’oscuro degli sviluppi organizzativi. Sviluppi che hanno richiesto certamente la messa in opera di una serie di provvedimenti.
Innanzi tutto, è stato necessario tessere una rete di contatti operativi al di fuori della resistenza palestinese. Sappiamo per certo che in Libano è stata stabilita una sorta di centrale di coordinamento, che mette insieme responsabili militari delle varie forze palestinesi, oltre a quelli di Hezbollah e dei gruppi consimili in Iraq. Ed è chiaro che, soprattutto Hezbollah, è stata importantissima nel fornire armi, addestramento ed esperienza. Addestramento che, date le condizioni di sostanziale isolamento di Gaza, è presumibile che sia avvenuto soprattutto all’interno della Striscia, e quindi in condizioni di estrema difficoltà (visto che Israele la monitora costantemente sotto ogni aspetto).
Proprio a seguito dell’inizio degli scontri con l’IDF ai confini della Striscia, abbiamo avuto certezza che al-Qassam dispone dei missili anticarro Kornet, che Hezbollah utilizza da tempo.
La seconda misura è certamente stata la predisposizione di nuovi tunnel, sia come deposito di armi e munizioni (ma anche scorte di cibo, acqua, materiali di primo soccorso…), sia come rifugi per i combattenti, sia come vie per lo spostamento delle unità, sia infine per superare le recinzioni che separano Gaza da Israele.
Questa è stata probabilmente la parte più impegnativa, poiché è stato necessario farlo nella massima segretezza, sapendo che i servizi segreti israeliani controllano tutto ciò che avviene nella Striscia, e certamente dispongono anche di numerose spie tra la popolazione.
Fondamentalmente, quindi, i problemi da superare sono stati: l’accumulo di scorte, senza che si notasse l’aumento delle importazioni di cibo; lo smaltimento dei materiali di risulta degli scavi; le operazioni di scavo stesse; l’evitare variazioni evidenti nel consumo di energia elettrica…
Si deve tenere presente che parliamo di una rete estremamente vasta (si ritiene estesa per circa 500 km), con ambienti ampi e strade percorribili anche con mezzi motorizzati, spesso su più livelli, ed a profondità variabile tra i 20 ed i 100 metri.
Ovviamente gran parte di questa rete era preesistente, ma di sicuro è stato necessario ampliarla in base alle esigenze del piano, così come è stato necessario accumulare grandi scorte per fronteggiare il prevedibile assedio che inevitabilmente sarebbe seguito all’attacco.
Una volta predisposte le misure necessarie – addestramento, logistica, selezione delle unità da impegnare e loro preparazione – è stato necessario predisporre anche le misure esterne, per consentire il successo dell’operazione. E ciò, fondamentalmente, significava essere in grado di superare le mura della prigione, e possibilmente cogliere impreparate le forze israeliane al di là della barriera.
Quello che sappiamo al riguardo è che le guarnigioni di confine (appartenenti alla Divisione ‘Gaza’ dell’IDF) erano assolutamente rilassate, poiché da tempo non c’erano particolari problemi, né c’erano stati preallarmi da parte dei servizi d’informazione. Inoltre, nei giorni precedenti l’attacco, una parte delle truppe era stata spostata da sud al confine con la Cisgiordania, dove invece si era registrato un aumento della tensione. Possiamo presumere che ciò sia stato organizzato proprio dalla resistenza, che in tal modo ha distratto parte delle forze di pronta reazione dal fronte di Gaza.
Sappiamo inoltre che la penetrazione oltre confine è avvenuta almeno in duplice modalità. In parte, superando il muro di recinzione con dei tunnel scavati ben oltre la capacità di rilevamento dei sensori disposti dagli israeliani (si parla di tunnel a 70 metri di profondità), ed in parte disattivando con piccoli droni sia le telecamere di sorveglianza che le torrette con le mitragliatrici automatiche collegate alle telecamere. Laddove necessario, la recinzione è stata abbattuta con bulldozer.
Una cosa importante da tenere a mente, anche per sottolineare la natura militare dell’operazione, è che i combattenti penetrati nei territori occupati da Israele erano in divisa, e ad un certo punto è stata persino effettuata una rotazione delle unità impegnate in combattimento.Ciò per sottolineare, ancora una volta, che non si è trattato di un attacco terroristico, come è stato presentato dalla stampa occidentale.
L’operazione, scattata alle prime luci dell’alba per cogliere di sorpresa le guarnigioni militari, aveva come obiettivo sia le caserme dell’IDF che i kibbutz dei coloni. Sappiamo sin dal primo momento, grazie al materiale video prodotto, che i combattenti palestinesi hanno immediatamente occupato la caserma al posto di valico di Eretz (nord della Striscia) ad almeno un altro insediamento militare, dove si trovavano numerosi mezzi corazzati, tra cui alcuni carri Merkava. Inoltre, mentre partiva un massiccio lancio di razzi verso le città israeliane, alcune unità si sono spinte in profondità, sia verso nord che verso est, e ad un certo punto erano avanzate talmente tanto che mancavano pochi chilometri per raggiungere la Cisgiordania.
L’effetto sorpresa (che in una guerra moderna, in cui le capacità di sorveglianza sono elevatissime, è quasi impossibile) è stato semplicemente totale. E con ogni probabilità ciò è stato dovuto (e poi amplificato) anche dalla convinzione che questi goyam (letteralmente: animale, sub-umano) palestinesi non potessero fare altro che lanciare di tanto in tanto i loro razzetti fatti in casa [3].
A questo punto, occorre valutare quali fossero gli obiettivi militari dell’operazione. E si sottolinea militari, perché quelli politici (ovviamente assai più importanti) sono già stati chiariti.
Appare evidente che l’operazione non poteva che avere obiettivi limitati, nello spazio e nel tempo. Essenzialmente, quindi, doveva infliggere un colpo quanto più duro possibile alle forze israeliane, e quindi ripiegare su Gaza. Al tempo stesso, dovevano essere catturati quanti più possibili militari e civili, in funzione di un successivo scambio con i quasi 8.000 prigionieri palestinesi.
Questo obiettivo – la cattura di prigionieri – è chiaramente sempre stato di massima rilevanza, così come è chiaro che quanto maggiore ne fosse stato il numero, tanto più sarebbe stata un leva potente nelle successive trattative di scambio. A tal proposito, abbiamo come riferimento la registrazione video dell’interrogatorio di un combattente palestinese catturato, il quale afferma che gli ordini prevedevano l’uccisione solo dei civili maschi in età di servizio militare.
È importante sottolineare questo aspetto poiché, tenuto conto che stiamo comunque parlando di una operazione di guerra, che ovviamente prevede scontri a fuoco col nemico, serve a comprendere quale fosse l’interesse prevalente.
Una delle cose che sappiamo, è il numero di morti israeliani comunicato dal governo di Tel Aviv. Già pochi giorni dopo è stata diffusa una cifra elevata, che poi è via via aumentata, stabilizzandosi infine a 1.400. Di questi, circa il 25% sarebbero militari dell’IDF.
Se questa cifra fosse attendibile (e vedremo perché non lo è, ed in che misura), ne conseguirebbe che circa 350 soldati israeliani sono stati uccisi nel corso degli scontri, e che ben più di mille civili sarebbero stati assassinati. Una cosa che contraddice quanto abbiamo considerato prima.
Ma, riguardo a questo gran numero di morti dichiarati, c’è più di una perplessità.
La prima è che, ad oltre tre settimane dai fatti, Tel Aviv ha comunicato i nominativi di circa la metà (meno di 700). E sinceramente appare assai difficile credere che, in oltre venti giorni, non sia stato ancora possibile identificare un così gran numero di persone. Se si tratta di militari, infatti, questi sono indubitabilmente identificabili dalla targhetta metallica che portano al collo (esattamente per questo scopo) . Se si tratta di civili uccisi per strada, molto probabilmente avevano con sé i documenti; se sono stati uccisi in casa, sono quasi sicuramente gli abitanti. Ed in ogni caso, in un modo o nell’altro, questo lasso di tempo sarebbe più che sufficiente per identificarli tutti, non solo la metà.
Ma dietro questo numero – che appare sproporzionato sia agli obiettivi dell’azione militare, sia al suo svolgimento, sia appunto per la mancata identificazione – c’è con ogni probabilità ben altro.
Un’altra delle cose che oggi sappiamo con certezza, è che la reazione militare israeliana all’attacco non è stata soltanto (in parte) un po’ tardiva, ma che soprattutto è stata indiscriminata. Ci sono numerose testimonianze, sia di sopravvissuti sia – come vedremo – di militari, dalle quali emerge con chiarezza che numerose vittime militari e civili sono state fatte dall’IDF stesso.
Le ragioni di ciò risiedono in un insieme di fattori. Dalle testimonianze – tutte di parte israeliana – emerge che le forze dell’IDF intervenute erano costituite dapprima da squadre di elicotteri da combattimento, e quindi successivamente da unità corazzate. Ad esempio, quando i combattenti palestinesi hanno attaccato il valico di Eretz – dove si trovavano numerosi militari ed impiegati del ministero della difesa – una parte dei militari, sopravvissuti al primo scontro a fuoco, si sono rifugiati nella sala di guerra sotterranea, e da lì hanno lanciato l’allarme. Quando sono arrivati gli elicotteri, hanno semplicemente aperto il fuoco sulla caserma, radendola al suolo. Ciò sia nell’intento di impedire ai guerriglieri di entrare in territorio israeliano (occupato), sia in virtù di una precisa disposizione.
Ugualmente, sia i piloti che numerosi testimoni civili, hanno confermato che gli elicotteri e poi i tank hanno aperto il fuoco praticamente su tutto ciò che si muoveva, distruggendo auto in movimento, gruppi di persone in corsa, ed anche abitazioni dove si sospettava fossero presenti gli uomini di al-Qassam. I militari coinvolti hanno poi dichiarato di essersi trovati in condizioni di urgenza, senza una precisa capacità di distinguere miliziani e civili, e che in quella situazione hanno quindi scelto di aprire il fuoco sempre. Sicuramente, al di là delle giustificazioni ex-post, va aggiunto che l’intera catena di comando israeliano era in quei momenti nella confusione più totale, e probabilmente anche nel panico, e che questa sensazione di pericolo – amplificato ed imminente – si è trasmessa ai militari inviati in prima linea.
Va però tenuto presente un altro elemento, per certi versi illuminante, ovvero la cosiddetta Direttiva Annibale. Si tratta di una procedura militare istituita nel 1986, a seguito di uno scambio di prigionieri (3 soldati israeliani per 1.150 prigionieri palestinesi). Questa direttiva segreta, emanata al fine di evitare il ripetersi di situazioni simili, stabilisce sostanzialmente che – qualora vengano catturati degli israeliani, e non c’è possibilità immediata di liberarli – l’esercito deve uccidere tutti, sequestrati e sequestratori [5].
Questo serve a spiegare sia l’elevato numero di morti israeliani durante la fase attiva dell’attacco palestinese, sia l’evidente indifferenza con cui Tsahal bombarda la Striscia, nonostante la presenza di oltre duecento civili e militari israeliani.
Ovviamente, allo stato attuale è impossibile stabilire con certezza se quel numero fornito (1.400) sia gonfiato o meno, così come quante siano le vittime di fuoco amico. Di sicuro sono in numero elevato, proprio per il tipo di armi utilizzate. Mentre i combattenti palestinesi infatti utilizzavano soltanto armi leggere e spalleggiabili (gli RPG al-Yassin anticarro), l’IDF sparava coi cannoni dei carri Merkava e con i missili degli elicotteri. Tutti i cadaveri carbonizzati, che sono stati mostrati, sono certamente riconducibili all’esplosione dei missili Hellfire.
Anche rispetto alla questione del festival rave, le cose stanno diversamente da quanto raccontato ai media. Innanzi tutto, come si vede dai video pubblicati, quando sono arrivati i combattenti palestinesi con i deltaplani erano presenti guardie di sicurezza armate ed in divisa, per cui è presumibile ci sia stato un primo scontro a fuoco con queste. Dai testimoni sappiamo che molti ragazzi sono fuggiti verso il vicino kibbutz di Be’eri, dove poi sono stati raggiunti dagli uomini di al-Qassam, che li hanno catturati. Quando poi sono giunte le forze IDF, come raccontato alla radio israeliana da una dei partecipanti al rave, queste “hanno eliminato tutti, compresi gli ostaggi perché c’era un fuoco incrociato molto, molto pesante” [6].
Sempre in merito alla questione dei morti israeliani, ci sono ancora altri elementi da considerare.
Uno di questi, sicuramente alquanto ruvido, è ricollegabile a quanto riportato prima, relativamente all’ordine di uccidere i civili maschi. Si deve infatti tener presente che tutta l’operazione palestinese, a parte i lanci di razzi, si è svolta nell’ambito di territori occupati. Col termine territori occupati si intende precisamente riferirsi a delle porzioni di territorio che Israele ha occupato in seguito a guerre con i paesi vicini, e che in base al diritto internazionale – nonché a numerose risoluzioni dell’ONU – non solo avrebbero dovuto essere restituite da tempo, ma che non possono essere annesse né tantomeno vi si possono insediare abitanti del paese occupante. In termini di diritto internazionale, quindi, quella che si svolge in Palestina è una guerra di liberazione. Nello specifico, i coloni che abitano nei kibbutz, nei villaggi e nelle città edificate nei territori occupati, non soltanto vi si trovano in violazione delle leggi internazionali, ma sono a tutti gli effetti parte del sistema di occupazione.
Oltretutto, i settler sono anche la base elettorale delle forze dell’estrema destra sionista più radicale, e sono costantemente impegnati nella persecuzione dei loro vicini arabi. Solo in queste ultime tre settimane, ad esempio, i coloni hanno attaccato i palestinesi in più di 100 incidenti, in almeno 62 città e villaggi della Cisgiordania, a volte accompagnati da soldati.Sono quindi forze di occupazione. E la decisione di uccidere i coloni maschi, seppure ovviamente contraria al diritto di guerra, trova la sua ratio nella volontà di terrorizzare i settler, e spingerli ad abbandonare le terre occupate illegittimamente. Una cosa, questa, che peraltro i palestinesi hanno appreso proprio dagli israeliani, che fanno esattamente ciò dal 1948. E per quanto suoni sgradevole, se semini vento per settantacinque anni, prima o poi raccogli tempesta.
Non a caso, l’operazione militare si denominava al-Aqsa Flood.
Un elemento importante da sottolineare, anche perché peserà non poco sugli avvenimenti successivi ed ancora in corso, è l’impatto che l’attacco palestinese ha avuto sulle forze politiche israeliane, sulle forze armate, e sulla popolazione.
Come già detto, la sorpresa non è stata solo tattica – la capacità militare di cogliere alla sprovvista le difese israeliane – ma strategica: semplicemente i vertici politico-militari di Israele non concepivano nemmeno che la resistenza palestinese potesse realizzare qualcosa del genere. Di conseguenza, quando è accaduto, si è generato il caos. Al caos ha fatto seguito il panico, e poi la rabbia.
Ovviamente sono tutti consapevoli che saranno ritenuti responsabili di questa impreparazione. E ciò non fa che aumentare la rabbia, il desiderio di vendetta – quasi che questa potesse cancellare gli errori fatti. Mentre tutto sommato la società israeliana ha in buona parte reagito bene, nonostante lo shock, parlando apertamente sia delle responsabilità interne, sia della realtà degli accadimenti, la reazione di politici e militari è stata di ben altra natura.
Il governo, già consapevole di avere contro una fetta importante del paese, e di non essere particolarmente simpatico all’alleato americano, ha compreso immediatamente come questo evento rivoluzionasse completamente il quadro politico, interno ed internazionale. Ovviamente, la sua componente più estremista ha reagito mostrando senza remore la propria arabofobia, e mettendo in luce i propri sogni di pogrom. Ma Netanyahu, da politico navigatissimo, ha capito anche la delicatezza del momento. Paradossalmente, da uomo simbolo del radicalismo sionista contemporaneo, ha in effetti agito con prudenza, avendo chiaro da subito che il coinvolgimento (e quindi l’approvazione) degli USA è essenziale. Atteggiamento questo che lo ha portato ad entrare in frizione con i vertici militari, che invece scalpitano dalla voglia di vendicare l’onta subita.
Oltretutto, gli alti ufficiali israeliani sanno bene che – prima o poi – saranno chiamati a rispondere non solo della mancata previsione dell’attacco, e della risposta tardiva, ma anche delle numerose morti israeliane dovute al caotico svolgersi di questa. E cercano quindi, in una ordalia di sangue, di emendarsene per quanto possibile.
Evidentemente, quella che si è aperta con il 7 ottobre è una finestra di opportunità. Riportare drammaticamente al centro del dibattito mondiale la questione palestinese, significa concretamente rintuzzare i tentativi di seppellirla, e rilanciare le possibilità di fare dei passi avanti. Possibilità che sono legate anche al fatto che la tempesta scatenata dalla resistenza ha messo a nudo la debolezza di Israele.
Il quale però è adesso un animale ferito, che non solo sta reagendo con rabbia e ferocia, ma si trova ad un tornante impegnativo della propria storia; insistere a perseguire la via dell’apartheid e dell’occupazione, spinge sempre più il paese verso l’isolamento e – forse – la distruzione, ma imboccare la via che conduce alla fine dell’occupazione è altrettanto impervio, e potrebbe portare all’implosione di Israele. Rinviare questa scelta è stato possibile sinché il mondo era comunque dominato dalle potenze occidentali, che ne hanno resa possibile la nascita, e che ne hanno garantito la sopravvivenza. Ma il mondo non è più lo stesso. E così come la rabbia e la ferocia che imperversano su Gaza tradiscono la consapevolezza che quell’era è tramontata, altrettanto fanno le squadre navali americane fatte accorrere in fretta e furia.
Il senso profondo del 7 ottobre 2023 (una data che resterà nei libri di storia) è che gli arabi – non solo i palestinesi – hanno alzato la testa. Questo è il significato di ciò che accade al confine libanese, in Siria, in Iraq. Nell’immediato, Israele non ha altra alternativa che attaccare. È la mossa sbagliata, strategicamente parlando, ma non può fare altro, non può farne a meno. In qualche modo, dovrà andare oltre i bombardamenti dall’aria. Dovrà, come si dice, mettere boots on the ground. E “Hamas ha preparato il campo di battaglia. Il campo di battaglia è esattamente quello che Hamas vuole che sia, si sono addestrati per questo, sono pronti per questo. Israele invece ha mobilitato 300.000 riservisti che non sono stati addestrati a questo scopo, che non sono motivati a fare una battaglia come questa” [7]. Da quanto riusciranno a calibrare l’operazione di terra, dipende non solo se il conflitto si estenderà o meno, ma anche come ne uscirà Israele. E, in fondo, con lui l’intero occidente.
Il nocciolo della questione è molto semplice: “Il sionismo politico deve essere sconfitto. Deve essere sconfitto politicamente e deve essere sconfitto militarmente” [8].
Siamo tutti seduti su un barile di esplosivo (oltre che di petrolio…), e basta una mossa falsa a far sì che quella finestra si spalanchi sull’abisso. Se la guerra in Ucraina ha fatto temere a qualcuno che ci stessimo avvicinando ad una deflagrazione ben maggiore, una guerra regionale in Medio Oriente condurrebbe quasi sicuramente ad un confronto totale tra le superpotenze.
Gli attori in gioco sono tanti, e ciascuno è anche portatore di interessi specifici – non ci sono semplicemente due fronti – il che rende estremamente complessa la partita. Per il momento, ci saranno (nella auspicabile ipotesi che nulla vada oltre) mesi e mesi di tensioni, di guerra ad intensità più o meno limitata. Poi, passata la tempesta, si aprirà la strada verso l’inevitabile ridisegno strategico dell’intera regione. E noi europei dovremo capire quanto sia più importante Gerusalemme di Kiev.
1 – Uno dei problemi enormi che implicherebbe un conflitto esteso, anche solo parzialmente, all’Iran, è che questo potrebbe agilmente bloccare lo stretto di Hormuz. Come sottolinea l’analista Pepe Escobar (“Iran-Russia set a western trap in Palestine”, the Cradle), “Il cuore della questione in ogni strategia russo-iraniana è lo Stretto di Hormuz, attraverso il quale transita almeno il 20% del petrolio mondiale (quasi 17 milioni di barili al giorno) più il 18% del gas naturale liquefatto (GNL), che ammonta ad almeno 3,5 miliardi di piedi cubi al giorno”.
2 – Ciò che doveva essere fatto era un’operazione militare di tale portata e scala da cambiare l’intero paradigma in Medio Oriente. E questo è quello che è successo”, intervista all’analista americano Scott Ritter sul canale ‘Dialogue Works’.
3 – Per quanto riguarda il disprezzo e l’odio verso gli arabi che nutrono molti israeliani, basti ricordare le dichiarazioni di alti esponenti governativi e diplomatici, dal Ministro della Difesa al rappresentante presso l’ONU, Gilad Erdan, un fanatico estremista che – parlando all’Assemblea Generale – urlava “stiamo combattendo animali”. Secondo numerosi video, registrati dagli israeliani stessi, li si vede mentre profanavano i cadaveri degli uomini di Hamas uccisi dalle forze di sicurezza, spogliandoli nudi, urinando su di loro e mutilandone i corpi.
4 – Secondo quanto riportato da Max Blumenthal (“October 7 testimonies reveal Israel’s military ‘shelling’ Israeli citizens with tanks, missiles”, theGreyzone), “almeno 340 soldati attivi e ufficiali dell’intelligence sono stati uccisi il 7 ottobre, rappresentando quasi il 50% delle morti israeliane confermate. Tra le vittime figuravano ufficiali di alto rango come il colonnello Jonathan Steinberg, comandante della Brigata Nahal israelian”.
5 – Sul tema, di fondamentale importanza il già citato articolo di Blumenthal, ricco di riferimenti alla stampa israeliana; un vero e proprio report sulla questione.
6 – Cfr. Max Blumenthal, ibidem
7 – Cfr. intervista a Scott Ritter su ‘Dialogue Works’.
8 – Cfr. intervista a Scott Ritter, ibidem
FONTE:https://giubberosse.news/2023/10/30/20-giorni-di-tempesta/
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