Patto di stabilità/ “Una finta riforma, paghiamo errori e ricatti di chi guida l’Ue”
di IL SUSSIDIARIO (Sergio Cesaratto, Lorenzo Torrisi)
Più che il solo Patto di stabilità e crescita da riformare ci sarebbe l’intera governance economica europea, anche per evitare effetti sociali negativi
Ci si riproverà con un Ecofin straordinario a fine mese a raggiungere un accordo sulla riforma del Patto di stabilità e crescita, prima che scada la clausola di salvaguardia riportando in vigore dal 1° gennaio 2024 le regole pre-vigenti. Abbiamo chiesto un commento a Sergio Cesaratto, professore di politica monetaria e fiscale dell’Unione monetaria europea presso l’Università di Siena e autore di Sei lezioni di economia e Sei lezioni sulla moneta (ambedue per Diarkos).
Professore, cosa pensa dello stallo che si è venuto a creare sulla riforma del Patto di stabilità?
Non penso niente, o meglio penso molto. Questo nuovo Patto non riforma un bel niente, del resto da riformare ci sarebbe l’intera governance economica europea che fa inorridire chiunque abbia una minima idea di cos’è la politica economica.
Può spiegarci meglio?
La bozza del nuovo Patto di stabilità sostituisce al precedente obiettivo di un pareggio strutturale (cioè depurato dal ciclo) a medio termine del bilancio pubblico quello di una regola di spesa – vale a dire che la spesa pubblica primaria (al netto della spesa per interessi) evolva per i successivi quattro anni a un tasso concordato fra singoli Governi e Commissione (gli anni diventano sette se si promettono “riforme”). Qual è la logica sottostante? La crescita della spesa dovrebbe essere fissata a un tasso inferiore a quello atteso del Pil. Poiché dunque le entrate fiscali crescono al tasso del Pil e la spesa primaria a un tasso inferiore, si generano avanzi primari di bilancio che possono essere portati a riduzione del debito pubblico, che è l’obiettivo ultimo. Si sostiene che questa regola supera le rigidità del precedente Patto essendo la regola frutto di una contrattazione fra singoli Stati membri dell’Unione e Commissione, e non unica per tutti. Inoltre, sarebbe anticiclica poiché se per avverse circostanze il Pil crescesse meno, la spesa primaria continuerebbe a crescere al medesimo tasso sostenendo l’economia. Ah, ecco, viene anche abolita la regola che vorrebbe una riduzione del rapporto debito pubblico/Pil al 60% in venti anni. Ma era talmente assurda che persino i tedeschi non ne hanno mai chiesto l’applicazione – ma così potevano dire: ma quanto siamo buoni noi…
Una riforma abbastanza ragionevole comunque…
Il diavolo è nei dettagli, anzi qui di diavoli ce ne sono parecchi. Intanto l’obiettivo finale, un trend discendente del rapporto debito pubblico/Pil, dipende anche dall’andamento dei tassi di interesse che si pagano sul debito medesimo. Di questo si tiene naturalmente conto al momento della determinazione del sentiero di variazione della spesa. Ammesso (e non concesso) che tali tassi possano essere ragionevolmente previsti, un andamento sfavorevole dei tassi di interesse può implicare che una tendenza discendente del debito comporti saggi di crescita bassi o addirittura negativi della spesa primaria. Ciò sarebbe socialmente devastante.
Solo socialmente?
No, anche economicamente. Solo politici ed economisti in malafede o ciecamente fedeli alle versioni più bigotte della dottrina economica dominante possono negare che l’andamento atteso del Pil dipende anche dal tasso di variazione della spesa primaria. In generale l’andamento del Pil non è in altre parole indipendente dalle decisioni circa l’andamento della spesa pubblica. Per la Commissione e i suoi apprendisti stregoni (giovani economisti formati alle dottrine di cui sopra) è invece invariante. Con metodi che lo stesso Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) giudica poco trasparenti e oggetto di controversia scientifica, la Commissione stima l’andamento del Pil trascurando o sottostimando il ruolo della domanda aggregata di cui la spesa pubblica è componente centrale. Tali metodi sono i medesimi, scientificamente arbitrari, che sono adottati nella versione corrente del Patto – quelli usati per stimare il saldo strutturale di bilancio – che si volevano superare. È l’Upb a denunciare che il Patto trascura le interdipendenze fra le economie europee, vale a dire che programmi di aggiustamento dei bilanci di natura recessiva contemporaneamente in molti Paesi europei si sommerebbero nel generare una crisi complessiva. A meno che…
A meno che?
A meno che i Paesi coi conti “in ordine” non conducano politiche fiscali espansive, ma si sa che da quest’orecchio Berlino proprio non ci sente. Ed è ancora l’Upb a suggerire che proiezioni del Pil, della spesa, dei tassi di interesse ecc. su molti anni, per giunta condotte con metodi opinabili, lasciano il tempo che trovano in un ambiente globale tutt’altro che stabile. Vale ricordare che l’Upb è un organo indipendente di controllo dei conti pubblici istituito su indicazione europea; mi riferisco qui all’Audizione parlamentare dello scorso 18 ottobre.
Secondo il Mef, sarebbe meglio tornare alle vecchie regole piuttosto che vararne di nuove più penalizzanti sul fronte del deficit. Cosa ne pensa?
Avranno fatto i loro conti, ma se tanto mi dà tanto fanno politicamente bene. Il punto è che questo rifiuto dovrebbe accompagnarsi alla proposta di un disegno alternativo di politica economica europea. Ma non mi sembra che né a destra né a sinistra si abbia la forza intellettuale per farlo. Elly Schlein, ne vogliamo parlare?
E quali sarebbero gli elementi portanti di tale riforma della governance?
Sarebbero la consapevolezza che la governance economica dell’economia europea richiede certamente un coordinamento complessivo, ma questo non può risolversi in rigide prescrizioni pluriennali condotte con modelli che vanno al massimo bene per pubblicare sulle riviste mainstream. La politica economica non si fa così! La politica economica è da condursi giorno per giorno attraverso il coordinamento degli obiettivi fiscali dei diversi Paesi con un dialogo aperto con la Bce. Solo in un contesto di interdipendenze fra Paesi, fra politica fiscale e monetaria, fra obiettivi di crescita e controllo dei conti pubblici, ma anche fra politiche macroeconomiche, industriali e, attenzione, politica estera, si può uscire dall’impasse di un’Europa politica ed economica senz’anima, né prospettiva (e anche a un aggiustamento dei conti socialmente sostenibile). A Roma si vedono ipocriti manifesti pubblicitari dell’Unione Europea che parlano di Europa sociale e inclusiva. Nelle università l’Ue paga analoghe iniziative di mera propaganda. Che almeno non ci prendano in giro (a spese nostre peraltro).
Qual è il ruolo che dovrebbe avere la politica estera?
L’Europa dovrebbe tornare quella di Olaf Palme e Willy Brandt, faro di giustizia sociale e di cooperazione internazionale, indipendente dagli Stati Uniti. In anni recenti è stata tutt’altro, e lo stiamo pagando con inflazione e instabilità. L’Italia poi, con il partito della presidente del Consiglio che deve rifarsi una verginità “democratica”, è diventato il Paese più codino. E la smetta di sciacquarsi la bocca con Enrico Mattei che era partigiano e filoarabo.
Vista anche la situazione dell’economia europea, non sarebbe meglio prorogare la sospensione delle regole del Patto di stabilità e provare a riformarle dopo che si saranno tenute le elezioni europee e si sarà insediata una nuova Commissione?
Mah, cosa mai ci si può attendere da una possibile vittoria del centrodestra. Dalla padella nella brace. E ripeto il mio invito alla segretaria del Pd di parlarne con gli economisti non ortodossi, o si accontenta delle analisi (sic) del movimento delle sardine?
Sembra che la presidente della Bce abbia avvertito l’Italia che senza un accordo sulle nuove regole sarebbe più difficile aiutare il nostro Paese. Cosa ne pensa?
Conosciamo la Lagarde sin dal suo insediamento, quando disse che la Bce non era lì a calmierare gli spread sui titoli di Stato italiani facendone crollare il mercato. Si tratta di ricatti. La Bce è indipendente e nessuno può metter bocca nei suoi affari, ma non sembra valere il contrario, ahimè, dalla famigerata lettera di Trichet e Draghi del 2011.
Lagarde ha invece detto che i tassi di interesse resteranno alti almeno per altri sei mesi. Come giudica questa postura della Bce?
Ci andrebbe di lusso se fra sei mesi ci fosse una riduzione. Mi sembra che l’instabilità geopolitica con le sue conseguenze su prezzo dell’energia e catene di approvvigionamento sia foriera di inflazione e instabilità future. È lì che l’Europa dovrebbe agire, con un’azione di pace, non auto fustigarsi a colpi di rialzo dei tassi. Ma insomma, qui ci sono Paesi che da decenni occupano illegalmente territori e altri verso cui si è ostili laddove, magari, qualche ragione ce l’hanno. Il che, si badi, non giustifica le aggressioni, ma dovrebbe stimolare politiche europee di distensione.
Secondo Mario Draghi, in Europa ci sarà una recessione, ma non sarà destabilizzante. Lei cosa ne pensa? Stiamo andando verso la recessione?
Ha ragione Draghi, non sarà destabilizzante. Infatti, ci stiamo abituando da anni a un lento declino negli standard e qualità della vita, altro che Europa sociale ed inclusiva! È questo che mi preoccupa. E la gente vota per i partiti dell’evasione fiscale vero tarlo del Paese.
I dati sul Pil del terzo trimestre mostrano una crescente divergenza tra le economie di Europa e Stati Uniti. Da cosa è a suo avviso generata questa divergenza? È destinata ad ampliarsi?
L’Europa ha da tempo perso la corsa con gli Stati Uniti. Il gap nei redditi pro-capite si è allargato. Negli Stati Uniti la politica economica è vigorosa e attenta alla crescita. Gli Stati Uniti sono una nazione, l’Europa no.
Venerdì è atteso il giudizio di Moody’s sul rating dell’Italia. Rischiamo il downgrade?
Io speriamo che me la cavo.
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