Il nazionalismo americano: la nascita di una politica estera messianica
di ITALIA E IL MONDO (Eric Juillot)
Dopo aver osservato, in un precedente articolo, le condizioni di nascita e l’estrema singolarità del nazionalismo americano, è ora opportuno avvicinarsi al suo dispiegamento storico, per coglierne le diverse modalità e la sorprendente resistenza al tempo. A tal fine, la politica estera di Washington nel corso dei decenni offre il miglior punto di osservazione.
Messianismo, realismo, isolazionismo: questi tre termini rappresentano le determinanti strutturali della politica estera americana. Ognuno di essi è plasmato dalla cultura politica del Paese, al centro della quale si trovano le convinzioni e le idee che costituiscono il nazionalismo.
Il realismo è caratterizzato da una preoccupazione per la moderazione e la moderazione, da un’enfasi sulla stabilità delle relazioni internazionali e da un’analisi approfondita dei rischi connessi all’eventualità di una guerra. Sebbene il realismo possa peccare di pusillanimità o cinismo, non è sinonimo di inerzia, ma di razionalità nella scelta o nel rifiuto della guerra. Nella sua versione americana, non presenta alcuna singolarità che lo distingua da quello di altre potenze.
Non si può dire lo stesso del messianismo, l’idealismo della nazione americana: l’estrema importanza del legame diretto e privilegiato con la Provvidenza – credenza incisa nel cuore del nazionalismo americano – induce un sentimento di elezione, la convinzione incrollabile della superiorità morale dell’”America” e della necessità della sua affermazione, per la propria felicità e per quella del resto dell’umanità. Forti di questa certezza, gli Stati Uniti hanno dato alla loro politica estera una dimensione guerrafondaia molto presto e a lungo termine. Sebbene il suo messianismo nel XIX secolo non fosse originale in linea di principio – poteva essere osservato in molte altre nazioni in un momento o nell’altro – era già evidente per la sua coerenza e intensità.
L’isolazionismo, infine, è una caratteristica specificamente americana, l’altra possibile conseguenza del sentimento di elezione: piuttosto che agire nel mondo e per esso, il nazionalismo americano sceglie di isolarsi dal mondo, a distanza dal suo tumulto e dalla sua corruzione, nella soddisfazione di una società e di un regime politico ideali sotto gli auspici del Creatore.
Sarebbe irrilevante cercare di individuare fasi della politica estera americana segnate a loro volta da ciascuno di questi tre elementi, poiché ognuno di essi è in realtà costantemente in gioco nell’elaborazione – in parte sotterranea – di un rapporto americano con il mondo, nel complesso processo di determinazione della politica estera e nei dibattiti politici che presiedono al processo decisionale. Emerge però una tendenza: l’isolazionismo, pur essendo una caratteristica specifica americana, è la tendenza più debole, quella che ha meno influenza sul corso degli eventi. Il messianismo, invece, è sorprendentemente costante e virulento. Al massimo, il realismo interviene regolarmente, sia per moderarlo che per rafforzarlo.
Espansione territoriale aggressiva
A parte l’acquisto della Louisiana dalla Francia (1803), della Florida dalla Spagna (1819) e dell’Alaska dalla Russia (1867), per non parlare del terribile destino riservato alle popolazioni indigene degli Stati Uniti, la formazione del territorio americano si inseriva in una politica estera apertamente bellicosa, in cui l’aggressione agli Stati vicini era apertamente accettata.
Il Canada fu la prima vittima di questo desiderio di espansione, che affrontò per decenni. Quella che oggi è la provincia di Québec fu oggetto di un tentativo di invasione militare già nel 1775, prima ancora della Dichiarazione di Indipendenza, che sancì la nascita degli Stati Uniti l’anno successivo. Le truppe americane conquistarono Montreal, ma non riuscirono a conquistare Quebec City. Al termine della Guerra d’Indipendenza, gli Stati Uniti ottennero comunque dalla Gran Bretagna la cessione di un vasto “Territorio del Nord-Ovest” incentrato sul lago Michigan: l’espansione territoriale oltre le tredici colonie originarie era avviata.
Nel 1812, approfittando del coinvolgimento del Regno Unito nelle guerre napoleoniche, l’aquilotto americano dichiarò guerra al vecchio leone britannico nella speranza di conquistare il Canada. Henry Clay, presidente della Camera dei Rappresentanti, ad esempio, dichiarò (1: citato in Stanley B. Ryerson, The Founding of Canada: Beginnings to 1815, Totonto, Progress Books, 1963, p.230.1):
“Non sono d’accordo sul fatto che dovremmo fermarci a Québec o in qualsiasi altro posto; propongo di prendere l’intero continente da loro, senza chiedere il loro parere. Non voglio la pace finché non avremo fatto questo. Dio ci ha dato il potere e i mezzi per farlo. Saremo colpevoli se non li useremo”.
Trent’anni prima della sua esplicita formulazione, il Destino Manifesto animava già alcune menti. A quel tempo, la certezza della superiorità della civiltà consentiva di arrivare agli estremi, almeno nel linguaggio utilizzato. Il generale americano alla testa delle truppe che invadevano l’Alto Canada (poi Ontario) non esitò a fare il seguente proclama (2: D.B. Read, Life and Times of Sir Isaac Brock, Toronto, William Briggs, 1894, p.125.2):
“Sono alla testa di un esercito che schiaccerà ogni opposizione. […] Se permetterete ai selvaggi [amerindi] di massacrare i nostri compatrioti, le nostre donne e i nostri bambini, sarà una guerra di sterminio. [Ogni bianco che combatte a fianco di un indiano non sarà fatto prigioniero, ma sarà massacrato sul posto”.
Il tentativo di invasione del Canada ebbe però vita breve. Anche se il conflitto culminò, in un simbolo molto sfortunato, nella cattura e nell’incendio di Washington da parte dell’esercito britannico nell’agosto del 1814, il Trattato di Gand che vi pose fine nel dicembre dello stesso anno determinò uno status quo ante bellum, di cui gli Stati Uniti potevano essere soddisfatti: la loro presunzione non si era trasformata nella catastrofe che avrebbe potuto provocare.
Trent’anni dopo, nel 1844, James Polk vinse la campagna per la presidenza degli Stati Uniti con lo slogan “54°40′ o guerra!”, utilizzando queste coordinate di latitudine per rivendicare il territorio fino ad allora occupato congiuntamente da sudditi britannici e cittadini americani, che comprendeva l’intera costa occidentale del Nord America, dall’Oregon all’Alaska. In difesa di questo slogan, il direttore del New York Morning News, John O’Sullivan, affermò nel suo articolo “The Authentic Title” (3: citato in Albert K. Weinberg, Manifest Destiny: A Study of Nationalist Expansionism in American History, Baltimore, Johns Hopkins Press, 1935, p.145.3):
“Il nostro titolo è ancora più valido di qualsiasi titolo attestato da quegli antichi testi di diritto internazionale. Liberiamoci di quei polverosi volumi in cui sono registrati i diritti di scoperta, esplorazione, insediamento, continuità, ecc. Abbiamo un titolo più solido: quello che il destino ci ha dato per renderci padroni dell’intero continente che la Provvidenza ci ha lasciato in eredità”.
Al posto della diplomazia tradizionale, l’illuminismo politico fu usato come unica giustificazione per le ambizioni espansionistiche: un simile modo di pensare aveva pochi equivalenti in altre parti dell’Occidente, all’epoca o in seguito. Il Trattato dell’Oregon, firmato nel 1846, fu comunque il risultato di un compromesso: il confine americano-canadese a ovest delle Montagne Rocciose doveva essere un’estensione di quello già esistente a est, cioè lungo il 49° parallelo.
Forti di questo accordo con l’ex metropoli, gli Stati Uniti rivolgono ora la loro attenzione al Messico. Il Texas, divenuto indipendente dal Messico nel 1836, si unisce alla federazione americana nel 1845. La questione del confine americano-messicano generò ben presto una serie di tensioni tra i due Stati. Washington voleva che il confine corresse lungo il Rio Grande, mentre il Messico si opponeva al Rio Nueces, 300 km più a nord. Con posizioni inconciliabili, la guerra scoppiò infine nel 1846: gli Stati Uniti usarono l’imboscata di un piccolo distaccamento dell’esercito americano appartenente a una guarnigione da poco stabilita a Fort Texas, sul Rio Grande, come pretesto per dichiarare guerra al loro vicino meridionale il 13 maggio 1846.
Il partito della guerra dominava il Paese, soprattutto tra i politici e nella stampa. L’ampia maggioranza che votò a favore della guerra al Congresso trovava eco nelle dichiarazioni bellicose che abbondavano sui giornali. Per il New York Evening Post, “i messicani sono indiani nativi e devono condividere il destino della loro razza”. L’American Review spiegava che i messicani dovevano piegarsi a “una popolazione superiore […] che si stabilirà nel loro territorio, cambierà i loro costumi e […] li libererà dal loro sangue impuro” (4: Evening Post, dicembre 1847, citato in Graebner, Manifest Destiny, American heritage series N°48, 1968; American Review, marzo 1847, citato in Graebner, op. cit.4).
In risposta alla domanda del Segretario di Stato americano James Buchanan, “Come faremo a governare la razza bastarda che popola questo Paese?”, la Democratic Review propose una soluzione radicale: “Le azioni che abbiamo compiuto nel Nord – e con questo intendo il fatto che abbiamo cercato di reprimere gli indiani o di annientare la razza – devono essere compiute allo stesso modo nel Sud”. Da parte sua, l’ex presidente del Texas, Sam Houston, sostenne che grazie alla guerra “l’Essere Divino […] sta compiendo il destino della razza americana” (5: Democratic Review, xx, 1847, p.100, citato in Weinberg, op. cit., pp.168-169; Houston, citato in Weinberg, op. cit., p.178.5).
Nel gennaio 1848, quasi da solo, il futuro presidente Lincoln denunciò davanti al Congresso le provocazioni, le manipolazioni e l’aggressività da parte americana che avevano portato alla guerra. La guerra si concluse il 2 febbraio 1848 con la firma del Trattato di Guadalupe Hidalgo. Il Messico, sconfitto, riconobbe il Rio Grande come suo confine e cedette agli Stati Uniti un immenso territorio di 1,36 milioni di km², corrispondente essenzialmente agli attuali Stati della California, del Nevada e dello Utah, oltre ai due terzi settentrionali dell’Arizona.
La prima espansione oltremare alla fine del XIX secolo
Una volta raggiunto l’Oceano Pacifico e dopo aver superato il trauma della guerra civile americana, gli Stati Uniti intrapresero una politica estera apertamente espansionistica. Non si trattava più di dare alla giovane nazione il territorio di cui aveva bisogno; a partire da quella base territoriale, essa doveva affermarsi come potenza da tenere in considerazione nel concerto delle nazioni, inizialmente sulla scala del continente americano e poi, per spostamenti successivi, su quella del pianeta.
Le Hawaii furono il primo territorio interessato da questa strategia di espansione. Unificato alla fine del XVIII secolo sotto l’unica autorità di un monarca, l’arcipelago delle Isole Hawaii vide riconosciuta la propria indipendenza nel 1840 da Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Nei decenni successivi, l’apertura del Paese portò a una forte immigrazione asiatica, europea e americana, le ultime due sotto forma di minoranze benestanti che acquistarono attivamente terreni e svilupparono la coltivazione della canna e la produzione di zucchero. Nel 1898, alla vigilia dell’annessione delle Hawaii agli Stati Uniti, il 90% della terra era di proprietà di stranieri, ricchi proprietari terrieri euro-americani.
Ansiosa di difendere i propri interessi, questa minoranza si scontrò frontalmente con le autorità politiche negli anni Ottanta del XIX secolo. La sequenza che portò all’annessione iniziò nel 1887, quando la Lega hawaiana, un gruppo di un centinaio di ricchi proprietari terrieri, usò la forza armata per imporre al re Kalakua la “Costituzione della baionetta”: la vecchia monarchia feudale fu abolita a favore di un sistema di tipo parlamentare, con il potere affidato principalmente a un’assemblea dominata da proprietari terrieri stranieri.
Nel gennaio 1893, la nuova regina Liliuokalani annunciò la sua intenzione di abrogare la Costituzione. La reazione dei piantatori fu travolgente: raggruppati attorno a un Comitato di Salvezza Pubblica, organizzarono e riuscirono a fare un colpo di Stato il 17 gennaio, chiedendo aiuto al governo degli Stati Uniti: “Non siamo in grado di proteggerci senza assistenza esterna e quindi speriamo nella protezione delle truppe americane”. Con l’appoggio di 162 marinai della USS Boston – ma senza spargimento di sangue – i membri del comitato presero il potere, formarono un governo provvisorio e costrinsero il sovrano ad abdicare.
I cospiratori non intendevano perdere tempo: il 18 gennaio fu inviata a Washington una commissione per chiedere l’annessione dell’arcipelago agli Stati Uniti. Tuttavia, quest’ultimo passo si scontrò con la volontà del nuovo presidente americano, Grover Cleveland, un democratico anti-espansionista. Cleveland chiese l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulle circostanze del colpo di Stato, che stabilì formalmente che le minacce ai cittadini americani nelle Hawaii erano false e che l’intervento americano era illegale. L’annessione avvenne solo diversi anni dopo e con l’elezione di un nuovo presidente, William McKinley. Il 7 luglio 1898, il Congresso degli Stati Uniti adottò unilateralmente la Risoluzione di Newlands, che rese le Isole Hawaii un territorio degli Stati Uniti.
Se un tempo l’idealismo poteva ostacolare l’espansione, nel caso delle Hawaii dovette piegarsi alle realistiche necessità della geostrategia: nel contesto della guerra che allora opponeva gli Stati Uniti alla Spagna, Washington riteneva che fosse nel suo massimo interesse mettere le mani sulle Hawaii una volta per tutte, poiché la sua posizione nel Pacifico centrale, a metà strada tra Asia e America, era eminentemente strategica. La marina statunitense, la principale componente delle forze armate americane, si stava sviluppando rapidamente sotto l’influenza degli scritti di Alfred Mahan – il grande teorico della talassocrazia americana – ed era in grado di espandere senza controllo la base di Pearl Harbor, dove si trovava dal 1887.
Contemporaneamente all’annessione delle Hawaii, gli Stati Uniti erano in guerra con la Spagna da diverse settimane: il Congresso aveva approvato l’entrata in guerra il 25 aprile 1898, poche ore dopo la dichiarazione di guerra spagnola, mentre la Marina statunitense imponeva il blocco a Cuba da quattro giorni. Per gli Stati Uniti si trattava di sostenere la causa dell’indipendenza cubana, sostenuta da alcuni abitanti dell’isola che nel 1895 avevano intrapreso la lotta contro la loro metropoli. Più che le considerazioni economiche, la dimensione umanitaria sembra aver giocato un ruolo importante nell’influenzare l’opinione pubblica a favore dell’intervento.
Per mesi e mesi, la stampa sensazionale riportò – in articoli che non tardarono a suscitare l’indignazione – le crudeltà e le atrocità commesse dalle forze spagnole incaricate di sedare l’insurrezione, ignorando deliberatamente la violenza degli insorti. A questa indignazione si aggiungeva un elemento più decisivo: il fervore di un nazionalismo che ormai manifestava apertamente le sue mire espansionistiche sui territori francesi d’oltremare. Sebbene gli ambienti economici fossero divisi sulla prospettiva del conflitto e alcuni esponenti di spicco dell’establishment politico dessero prova di moderazione – a cominciare dal presidente McKinley -, nel corso dei mesi si formò un partito della guerra che penetrò in tutti gli ambienti e si espresse con una virulenza tale da costringere la presidenza ad agire.
Quando, il 15 febbraio 1898, la USS Maine esplose nel porto dell’Avana dove il governo americano l’aveva inviata tre settimane prima, causando la morte di 266 marinai, il furore nazionalista e bellico di gran parte dell’opinione pubblica esplose nelle strade, sui giornali, nelle piattaforme di partito e nelle aule parlamentari. La pressione divenne così forte che i moderati iniziarono a piegarsi. Il Chicago Times Herald disse, con lucidità e rassegnazione: “L’intervento a Cuba è ormai inevitabile. Le nostre condizioni politiche interne rendono impossibile rimandarlo”.
Le operazioni militari durarono dieci settimane, durante le quali l’esercito statunitense, nonostante le sue debolezze materiali e umane, riuscì a prevalere sulle forze di terra spagnole schierate sull’isola. Le battaglie più decisive, tuttavia, si svolsero in acqua, a migliaia di chilometri di distanza, quando la Flotta americana del Pacifico distrusse le navi spagnole ancorate nella baia di Manila il 1° maggio 1898. Con la loro vittoria, sancita dal Trattato di Parigi, gli Stati Uniti non solo garantirono l’indipendenza di Cuba – che occuparono militarmente fino al 1902 – ma, applicando con vigore la Dottrina Monroe, distrussero le ultime vestigia dell’ordine coloniale europeo nel continente americano; si impadronirono di Guam e soprattutto delle Filippine, conquistando un punto d’appoggio in Asia e partecipando a pieno titolo, insieme agli altri imperialisti occidentali, all’espansione che li stava guidando in quel momento.
In questo senso, la piccola guerra contro la Spagna rappresentò un punto di svolta: fece convergere la maggioranza sull’idea che il proprio Paese potesse e dovesse intromettersi negli affari del vasto mondo. Un editoriale del Washington Post lo chiarì ancor prima della fine della guerra, il 2 giugno 1898, in un momento in cui era possibile dare libero sfogo a una sfrenata smania di potere:
“Una nuova coscienza sembra entrare in noi – un sentimento di forza accompagnato da un nuovo appetito, un vivo desiderio di mostrare la nostra forza […]. Ambizione, interesse, sete di conquista territoriale, orgoglio, puro piacere di combattere, comunque lo si voglia chiamare, siamo animati da una nuova sensazione. Siamo di fronte a uno strano destino. Il sapore dell’Impero è sulle nostre labbra, come il sapore del sangue nella giungla.
Da quel momento in poi, la linea era stata presa: il sentimento nazionale americano era ormai compatibile con il fatto che gli Stati Uniti si impadronissero del vasto mondo e usassero le loro forze armate in nome della civiltà americana, dei loro legittimi interessi e dei loro diritti in virtù della loro superiorità morale. L’arrivo al potere di Theodore Roosevelt accelerò, se ce ne fosse stato bisogno, questo cambiamento: presidente dal 1901 al 1909, nel 1903 appoggiò la creazione di Panama – che si era emancipata dalla Colombia – per garantire la costruzione del Canale di Panama, di cui gli Stati Uniti presero il controllo.
Il 18 novembre 1903, in base al trattato Buneau-Varilla, Panama concesse agli Stati Uniti “l’uso, l’occupazione e il controllo di una zona di terra (…) per la costruzione, la manutenzione, il funzionamento, l’igiene e la protezione del suddetto canale”, dove Washington installò molto rapidamente diverse basi militari con 10.000 uomini. Nel 1904, in un famoso discorso, Roosevelt affermò che gli Stati Uniti avevano il dovere di intervenire in America Latina e nei Caraibi quando i loro interessi erano minacciati (6: Theodore Roosevelt, Discorso al Congresso, 6 dicembre 1904.6):
“L’ingiustizia cronica o l’impotenza che derivano da un generale allentamento delle regole della società civile possono alla fine richiedere, in America o altrove, l’intervento di una nazione civile, e nell’emisfero occidentale l’adesione degli Stati Uniti alla Dottrina Monroe può costringere gli Stati Uniti, per quanto a malincuore, in casi flagranti di ingiustizia e impotenza, a esercitare il potere di polizia internazionale“.
“In America o altrove”: questo discorso, presentato come un “corollario alla Dottrina Monroe”, contribuì in realtà a metterla in discussione. Tredici anni dopo, la partecipazione alla Prima guerra mondiale avrebbe completato questa conversione al mondo con un’ingerenza su larga scala negli affari europei di cui, cento anni prima, la giovane nazione americana non aveva voluto sentir parlare.
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