Educazione all’egoismo
di FERDINANDO PASTORE (Pagina FB)
Dovrei accodarmi al sentimento collettivo di colpevolizzazione del maschio di fronte alla brutalità ragionata di un omicidio odioso; dovrei perché l’epoca richiede ragionamenti conditi da premesse simili a biglietti d’ingresso per partecipare alle conversazioni: “c’è un aggressore e un aggredito”, “Israele ha diritto di difendersi”, “la cultura è patriarcale”. Non lo farò.
Non riesco, pur sforzandomi, a scorgere le caratteristiche proprie del delitto d’onore, dell’oppressione di genere, nei casi di violenza dei nostri tempi. Quando leggo le cronache, minuziose, dei casi di cronaca più appariscenti, immediatamente collego il fatto alla frustrazione, senza mai derogare dal principio, scolpito nella civiltà giuridica, dell’individualità della responsabilità penale.
Qualche regista americano negli anni ’90 raccontava, nella nostra incredulità rallegrata, esempi di efferatezza gratuita. Robert de Niro scaricava un caricatore di pallottole su Bridget Fonda in un parcheggio, solo perché lei parlava troppo. Non si voleva sottolineare la protervia maschile ma l’accecata dittatura dell’individuo. La sfera personale diventava intoccabile.
Emergeva in quei racconti l’apparizione di un crack relazionale nella scomparsa della società. L’altro si immiseriva in bene strumentale per l’accesso al piacere o al raggiungimento dei propri scopi, non importa se professionali o affettivi. L’Io si legittimava nella sovrabbondanza e così il suo rovescio, pieno di vendette, capricci e autolesionismi.
Questa inclinazione personale nel tempo è stata affrancata ideologicamente dal buon senso comune. Il soggetto impiegabile, incluso, approvato, deve dotarsi di un saper essere, di buone condotte, pena la sparizione dal mondo. Ogni scelta corrisponde a un investimento e il fallimento dipenderà esclusivamente dalla mancanza di razionalità. L’intera esistenza doveva essere scandagliata psicologicamente perché nulla era veramente ingiusto.
Investire su una persona è frase ormai frequente. “Io ho investito sulla tua formazione!”, “Io ho investito su questa relazione!”; questi ritornelli, per quanto cinici e ricattatori, carichi di violenza inespressa, non sorprendono più. Li ascoltiamo senza farci più caso negli uffici o quando un amico confida problemi di coppia. Ho diritti sull’altro perché gli slanci pretendono una contropartita. Le relazioni sono equivalenti agli scambi commerciali.
Il quadro ideologico è chiaro e appellarsi al patriarcato mi sembra attività consolatoria, perché quel quadro non possa mai essere smontato. Questo perché quella mentalità utilitaristica rappresenta l’asse portante della dottrina di mercato nella quale il soggetto deve raffigurarsi come un capitale umano, sociale e relazionale. L’altro ci può essere d’aiuto o d’ostacolo. Indifferentemente.
Un modo per non superare mai la fase infantile del possesso. “È mia la chitarra” ripetevo strenuamente da bambino di fronte al mio giocattolo, per poi rovinarlo in mille pezzi quando mi veniva a noia. La trasposizione dell’altro in giocattolo fa parte a pieno titolo della pedagogia arrivista calata nelle dinamiche del progressismo evoluzionista.
Qualsiasi attività umana deve corrispondere al quantificabile secondo i canoni dell’utile. Anche la scuola contemporanea ha l’assillo del misurabile. Deve servire a qualcosa di concreto, di spendibile individualmente. Si disperde nelle strettoie di costi e benefici la reale missione dell’educazione pubblica: quella di accompagnare il passaggio dall’infantilismo egoista alla coscienza critica dell’adulto.
Storia, filosofia, letteratura, arte, musica, scienze non devono servire a nulla se non a far crescere consapevolezze personali, sociali, culturali sul dramma della caducità esistenziale. La scuola forma l’essere umano nel collettivo, forma la sostanza di un noi, non consola un eterno bambino in un eterno presente. Per questo bocciare, esprimere pubblicamente il voto, sono azioni che incarnano la politicizzazione dialettica dell’esistenza. L’autorità statale può essere oggetto di contestazione solo se gli si riconosce la legittimità del ruolo pubblico assunto, che un giorno potrà essere anche conquistato da culture differenti.
Progetti di educazione sentimentale esulano da questo compito, anzi corroborano la mentalità individualista dei nostri tempi. Una cura eccessiva, strabordante, per soggetti coccolati nelle loro scelte, per l’esaltazione degli investimenti personali in una meccanizzazione del saper essere, a questo si punta. Ma è proprio la frustrazione dell’eterno infante a produrre la violenza scapricciata degli investimenti, anche affettivi, falliti. Quella pressione sociale nel “riuscire” solo con la propria forza di volontà, con le proprie risorse che produce la cannibalizzazione dei rapporti interpersonali, la propensione al suicidio in età giovanile (in maggioranza maschile, tanto per sfatare miti), l’alienazione depressiva del burnout.
La violenza di oggi marca a fuoco la dimensione egotica dell’obbligo alla prestazione, della dittatura del personale. E il personale non è politico, se sganciato da un collettivo e dal conflitto organizzato. Facciamocene una ragione.
Commenti recenti