Soluzione dei due stati: una foglia di fico che non porterà la pace a Gaza
di TERMOMETRO GEOPOLITICO (Roberto Iannuzzi)
Rievocare la prospettiva dei due stati, da parte di Biden e dei leader europei, non è che una manifestazione di ipocrisia. In aggiunta, alcune osservazioni sul cessate il fuoco a Gaza.
Alcuni giorni fa, il Washington Post ha pubblicato un editoriale a firma del presidente Joe Biden, nel quale egli delineava la strada da seguire per porre fine al drammatico conflitto di Gaza e impedire che esso si ripeta.
Come sempre quando scoppiano gravi crisi in Palestina, il presidente ha rispolverato la soluzione dei due stati, affermando che “il popolo palestinese merita un proprio stato e un futuro senza Hamas”.
A tal fine, Biden afferma che la Striscia di Gaza e la Cisgiordania dovrebbero essere riunite sotto un’unica struttura di governo, un’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) “rivitalizzata”.
Porre fine alla catastrofe umanitaria in corso nella Striscia è prioritario, ma è altrettanto imprescindibile prospettare soluzioni realistiche, dopo che per anni il processo di pace israelo-palestinese è stato archiviato.
La prospettiva dei due stati, dopo aver proceduto all’eliminazione di Hamas, è per l’appunto una soluzione irrealizzabile, e il rievocarla, da parte di Biden e dei leader europei, non è che una manifestazione di ipocrisia.
Non esiste materialmente più lo spazio su cui creare uno stato palestinese (che già avrebbe dovuto nascere su appena il 20% della Palestina storica). Almeno 700.000 coloni israeliani vivono ormai stabilmente nella Cisgiordania occupata. Essi risiedono in 279 insediamenti, 14 dei quali sono a Gerusalemme Est (dove abitano oltre 229.000 coloni).
Proprio negli anni successivi alla firma degli Accordi di Oslo del 1993 che portarono alla nascita dell’ANP, i governi israeliani succedutisi al potere accelerarono enormemente l’edificazione di insediamenti e la confisca di terre nei Territori palestinesi occupati, insieme alla costruzione di strade tangenziali che collegano direttamente tali insediamenti al territorio israeliano propriamente detto.
La costruzione della barriera decretata dal premier Ariel Sharon nel 2002 per separare Israele dai Territori palestinesi ha di fatto annesso un ulteriore 9,5% della Cisgiordania allo stato ebraico. Della rimanente parte, il 60% costituito essenzialmente da zone rurali (la cosiddetta Area C, in base agli accordi di Oslo) rimane sotto il pieno controllo di Israele.
La violenza dei coloni, in particolare contro i palestinesi residenti nell’Area C, cresciuta a livelli allarmanti nel corso dell’attuale guerra a Gaza, è finalizzata a scacciarli anche da queste terre.
Secondo i leader del movimento dei coloni, che hanno steso un piano per arrivare a un milione di residenti israeliani in “Samaria” entro il 2050, l’intera Area C (che dovrebbe far parte del futuro stato palestinese) deve essere annessa a Israele.
Nel panorama politico israeliano, il cosiddetto “fronte della pace” che sostiene la soluzione dei due stati in pratica non esiste più. Il partito di sinistra Meretz non è nemmeno riuscito a entrare in parlamento alle elezioni del novembre 2022, mentre il partito laburista (che ebbe un ruolo chiave nella fondazione e nella storia di Israele) ha appena quattro seggi.
Anche se la carriera politica dell’attuale premier Benjamin Netanyahu dovesse concludersi alla fine della guerra, a sostituirlo sarebbe probabilmente una coalizione di centrodestra ostile all’idea di uno stato palestinese.
E’ poi più facile che, a causa dell’attuale conflitto, Gaza venga spopolata piuttosto che il movimento di Hamas venga completamente distrutto.
Storicamente Gaza – abitata per il 70% dai discendenti delle famiglie sfollate nella guerra del 1948 che portò alla nascita di Israele – è l’incubatrice del movimento nazionale palestinese. Non solo di Hamas e della Jihad Islamica, ma già del partito Fatah di Yasser Arafat negli anni ’50 del secolo scorso.
Hamas non è solo un movimento sociale e politico radicato nella Striscia, poiché ha una rete di quadri, simpatizzanti e finanziatori che si estende nella regione mediorientale, includendo il movimento dei Fratelli Musulmani e stati come il Qatar e la Turchia.
Hamas potrà essere ridimensionato militarmente, ma la sua pretesa di rappresentare lo spirito della resistenza palestinese ne rafforzerà la reputazione e la capacità di rinnovarsi attingendo alle masse palestinesi diseredate e traumatizzate dall’attuale conflitto.
A maggior ragione se paragonato ad un’ANP corrotta, profondamente screditata per la sua incapacità di difendere le istanze dei palestinesi, e fondamentalmente vista da essi come un’entità al servizio di Israele e degli USA.
Il presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas, ha ormai 88 anni. Eletto nel 2005, è rimasto in carica ben oltre il suo mandato di quattro anni, e appare del tutto delegittimato. Egli guida un’istituzione difficilmente riformabile. Abbas stesso, poi, si è detto indisponibile a governare Gaza in assenza di una chiara prospettiva negoziale finalizzata alla creazione di uno stato palestinese.
In generale, qualsiasi struttura di governo imposta a Gaza essenzialmente dagli USA e da Israele sarà considerata dai residenti della Striscia come una forza di occupazione. E’ la ragione per cui gli stessi paesi arabi si sono detti contrari all’invio di una forza di pace araba.
Non è peraltro nemmeno chiaro quale traguardo militare permetterà a Israele di dichiarare “missione compiuta” a Gaza. Washington ha mostrato di avere interesse a scongiurare un allargamento del conflitto, ma decisamente non ha un piano risolverlo.
Osservazioni sintetiche sul cessate il fuoco
Il fragile accordo di cessate il fuoco raggiunto a Gaza fra Israele e Hamas è più probabilmente una mera pausa nel conflitto che non una svolta che porti a una cessazione delle ostilità.
La pausa potrà durare un minimo di 4 giorni, e prolungarsi ancora di più se Hamas libererà più ostaggi rispetto alla cifra minima iniziale di 50 (si ritiene che il gruppo trattenga almeno 70-80 donne e bambini, e l’obiettivo minimo sarebbe liberare perlomeno costoro).
I responsabili israeliani hanno già chiarito che le operazioni militari riprenderanno dopo lo scambio di ostaggi (verranno liberati anche circa 300 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane), avendo definito la sospensione dei combattimenti una “pausa operativa” piuttosto che un cessate il fuoco.
L’accettazione dell’accordo da parte del governo Netanyahu è avvenuta solo dopo settimane di travagliati negoziati, a causa della crescente pressione popolare in Israele che chiede risultati concreti sugli ostaggi, e delle esortazioni americane.
Le pressioni USA, in particolare, non hanno una finalità umanitaria, ma sono dettate dalla preoccupazione di rendere “accettabile” l’offensiva israeliana agli occhi dell’opinione pubblica occidentale e del resto del mondo (impresa, quest’ultima, già persa).
Altra preoccupazione della Casa Bianca è quella di ridurre l’intensità del conflitto per scongiurare un allargamento della guerra al Libano (e forse anche a Siria, Iraq e Yemen) che coinvolgerebbe inevitabilmente le forze USA nella regione.
Gli israeliani in realtà hanno accettato solo ora un accordo che era stato offerto da Hamas già all’inizio del conflitto, quando il gruppo aveva proposto di liberare donne, anziani, bambini e malati in cambio di un cessate il fuoco di 5 giorni.
Un’altra ragione per cui Netanyahu ha accettato ora l’offerta è che ci troviamo all’inizio di una nuova fase del conflitto. Gli israeliani si preparano infatti ad estendere le operazioni di terra alla parte meridionale della Striscia di Gaza.
Questa seconda fase è però logisticamente più complessa perché richiede un’ulteriore estensione delle forze israeliane e delle loro linee di rifornimento, esponendole maggiormente ai contrattacchi di Hamas.
Le operazioni nel sud, dove si concentrano ormai quasi 2 milioni di residenti della Striscia, rischiano di avere un impatto umanitario ancora più devastante. Da qui la decisione di assicurare la liberazione di almeno alcuni ostaggi prima della nuova fase di operazioni militari.
E’ probabile che, una volta iniziato il cessate il fuoco, le pressioni internazionali per prolungarlo aumenteranno, ma i vertici israeliani sembrano determinati a ignorarle, alla luce del fatto che da parte americana non vi è alcun veto alla ripresa delle operazioni, e che l’opinione pubblica interna è in gran parte favorevole a una prosecuzione della campagna bellica. La ripresa del conflitto comporterebbe tuttavia rischi di escalation ancora maggiori rispetto alla fase attuale.
Alla vigilia del cessate il fuoco, il fronte libanese era già pericolosamente surriscaldato, il movimento sciita degli Houthi nello Yemen ha lanciato diversi missili e droni in direzione di Israele, ed ha per la prima volta sequestrato una nave nel Mar Rosso, prefigurando la potenziale destabilizzazione di una delle rotte commerciali più importanti al mondo.
Inoltre gli USA hanno per la prima volta esteso all’Iraq i loro bombardamenti di rappresaglia per gli innumerevoli attacchi subiti dalle basi americane nel paese e in Siria. Una espansione delle operazioni israeliane alla parte meridionale di Gaza, aggravando ulteriormente la catastrofe umanitaria e il rischio di una pulizia etnica, potrebbe far deflagrare le tensioni a livello regionale.
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[Fonte: https://robertoiannuzzi.substack.com/p/soluzione-dei-due-stati-una-foglia]
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