Ci ricordiamo come nacque, nel 2019, l’idea di introdurre l’educazione civica come disciplina curricolare, con tanto di valutazione, nelle scuole di ogni ordine e grado? Di fronte all’ennesimo caso di bullismo, il governo Conte-Salvini-Di Maio (perlopiù nella persona di quest’ultimo) pensò che la cosa giusta da fare per porre fine al dilagare del fenomeno fosse di riannodare con la tradizione di Aldo Moro, che nel 1958 istituì per legge due ore mensili di educazione civica, poi abbandonate negli anni Novanta. Così, nell’a.s. 2020/21 docenti e studenti si sono trovati alle prese con una disciplina nuova, da insegnare e imparare.
Oggi la cosiddetta ECC è ormai una materia incardinata nei curricula, ma rimane tutt’altro che ben definita, almeno nella scuola superiore: in buona sostanza si chiede ai professori di costruire un percorso interdisciplinare che sviluppi uno o più nodi concettuali, oppure si decide un argomento a tavolino e, per così dire, ce lo si palleggia.
Salta agli occhi, dunque, che da una parte si è voluto imporre una nuova materia, con tanto di voto e colonna ufficiale nel documento di valutazione, ma dall’altra non si ha avuto il coraggio di formare ad hoc degli insegnanti appositi. Tantomeno, furbescamente, ci si è azzardati a aggiungere ore ai piani di studio, perché allora avremmo verosimilmente assistito a una rivolta degli studenti. Ma sarebbe stata, quella, la cosa più giusta da fare, sia per non sottrarre ore alle materie esistenti, sia per ragioni di onestà intellettuale: se davvero si ritiene fondamentale l’educazione civica, allora bisognava anche avere il coraggio di aggiungerla ai percorsi di studio, non di diluirla sottraendo tempo prezioso alle altre discipline.
(Per inciso, è abbastanza curioso l’indirizzo contraddittorio che la scuola italiana ha preso da alcuni anni a questa parte: da un lato si vuole andare verso un modello di istruzione che tenga i ragazzi il più possibile sui banchi, facendo leva su progetti extrascolastici e un planning di lezioni che raggiunge anche le nove ore quotidiane, intervallate da una breve pausa pranzo; dall’altra, però, è palese che gli studenti vogliono starci il meno possibile, tanto che aderiscono senza battere ciglio a retrocessioni sempre più improponibili dell’orario di inizio delle lezioni, che nei casi più estremi arriva alle 7.30!)
Adesso, a pochi giorni dal deprecabile omicidio di Giulia Cecchettin, lo schema si è ripetuto, con Elly Schlein che – perfetta esponente di una sinistra che da decenni ha perso qualsiasi sintonizzazione con le frequenze della classe insegnante italiana – si è subito data da fare per proporre, istituzionalizzandola, l’ora di educazione all’affettività nelle scuole.
Ora, che le generazioni odierne più di quelle passate abbiano bisogno di questo è fuori di dubbio, e la barbara uccisione di Giulia non fa che sbattere in primo piano l’esigenza di bonificare nel profondo le nostre relazioni e in particolare la concezione che i maschi hanno delle femmine. Lascia perplessi invece che, come in una sorta di meccanismo irriflesso, ancora una volta si additi la scuola come l’agenzia educativa deputata a colmare quelle che sono, invece, lacune della società tutta, che ha il suo primo nucleo pedagogico nei genitori, non lo dimentichiamo. Tuttavia, verso di loro una lancia va pure spezzata: se è vero che i figli non devono scontare le colpe dei padri, deve essere pur vero anche il contrario. E sarebbe quanto mai grossolano affermare che tutti gli autori di femminicidi hanno avuto pessimi genitori: in un certo senso, magari fosse così; magari, cioè, l’esempio dei genitori (positivo o negativo che sia) si ripercuotesse sulla prole in una catena di causa-effetto, in maniera deterministica… almeno si saprebbe chi colpevolizzare o premiare, e dove intervenire.
Ora, al di là di dubbi legittimi sul piano organizzativo (chi insegnerà educazione all’affettività? Come verrà valutata? Da chi? Perché non è esattamente come valutare le competenze e le conoscenze di storia o scienze naturali…), io penso che venga largamente sopravvalutata la capacità educativa della scuola, come se essa fosse in grado di porre rimedio a tutte le storture della società.
È tipico di chi non insegna fare idealizzazioni di questo genere, pensando che basti preparare un contenuto e offrirlo agli studenti come una fetta di torta affinché essi lo assimilino e cambino i loro comportamenti sbagliati. Chi insegna giorno dopo giorno sa benissimo che non è così, non almeno nei gradi alti dell’istruzione: ciò che resta, più che i contenuti disciplinari, è l’attitudine dell’insegnante verso la materia; il suo approccio alla disciplina, la sua capacità di far capire che ciò che lui propone giorno dopo giorno alle menti degli studenti, merita di essere studiato; che non sono ore spese a vuoto, anche se non se ne vedrà subito (e talvolta non se ne potrà mai vedere) la vera utilità. Non restano più di tanto i contenuti, bensì l’esempio. E sulla sessualità e l’affettività non so quanto gli insegnanti abbiano da dare di extra, ecco, né quanto siano tenuti a farlo.
E poi c’è un’altra questione: in realtà, nelle scuole già si fa educazione all’affettività e alla sessualità, per esempio nelle classi seconde delle superiori, dove gli studenti hanno almeno un incontro con le esperte dei consultori. E non si tratta di iniziative pubblicizzate, perché non serve il clamore, né si tratta di percorsi di trenta o più ore: un paio d’ore fatte bene con chi se ne intende, in cui gli studenti esplicitano i loro dubbi e ricevono le dovute risposte, magari approfondite in classe con l’insegnante. Spesso, di affetti e sesso si parla anche nelle ore di religione, che come noto sconfinano spesso nei territori della psicologia e della sociologia (e dunque sarei cauto in certi proclami che pure si sono visti sul web: “sostituiamo l’ora di religione con educazione all’affettività”. Anche qui, come al solito si parla senza conoscere i contesti).
Ecco dunque come si fanno le cose bene, senza grandi proclami e istituzionalizzazioni: poche iniziative, mirate, con esperti, magari riprese poi dai prof. Ma come ribadito si fanno già, non c’è da inventare niente! E lo stesso discorso sin qui fatto vale, s’intende, anche per l’educazione civica, che comincia fuori dalle aule scolastiche.
Si obietterà che, se poi succedono certe cose è perché la scuola non fa abbastanza. Ma come detto, ciò presuppone un’eccessiva fiducia nella sua capacità di incidenza nella vita quotidiana degli studenti. Se accadono certi atti efferati, non è perché non si fa abbastanza a scuola… è perché non si fa abbastanza fuori, dove imperversa uno sconcertante vuoto valoriale, o meglio: imperversano gli anti-valori.
In questi anni di rinnovamento pedagogico si parla tanto di apprendimento tra coetanei, enfatizzando il carattere virtuoso dell’imparare nozioni dai consimili. C’è del vero e del buono, sicuramente. Si dimentica, però, che questo apprendimento peer-to-peer non è qualcosa che si attiva solo nelle ore di permanenza a scuola; e, soprattutto, riguarda anche le cattive pratiche. Poco si parla, dunque, di un “disapprendimento” permanente, perché il tempo scuola si risolve in fondo in qualche ora al giorno, mentre poi la vita dei ragazzi e delle ragazze continua. E in questo prosieguo trovano voce i veri “insegnanti” dei ragazzi, che sono poi dei loro coetanei: influencer, tiktoker, cantanti… Soprattutto questi ultimi, mi viene da dire, dato che l’adolescente medio ha sempre gli earpods nelle orecchie.
Spiace allora che, in queste ore, si parli poco della musica che essi ascoltano, e che ha un genere di eccellenza: il trap, che è la colonna sonora di queste generazioni che sembrano uscite con lo stampino da un’ipotetica serie di Netflix sulle banlieue, e non si capisce più se sia la fiction che imita la realtà o viceversa.
Vogliamo dunque, come società, cominciare a prendere posizione circa quello che ascoltano i nostri giovani? Perché con la scusa della “rabbia” e della sempreverde “ribellione al sistema” è stato dato il via libera (anche linguistico) a tutto ciò che di più basso alberga nell’animo umano. E dunque ragazzini e ragazzine dall’età delle elementari si sparano ogni giorno nelle orecchie brani infarciti di volgarità, bestemmie, inneggiamenti alla droga, all’alcool, al fumo, all’omicidio. E se andiamo a vedere come in essi viene ritratta la donna, scopriamo che mai si sono viste punte di oggettificazione e deprezzamento come nei brani trap, dove la donna è “la mia bitch”, vale a dire “la mia puttana”, sintagma in cui a ben guardare è racchiuso tutto il problema alla base dei cosiddetti femminicidi: la donna considerata come dispensatrice di godimento sessuale, e di proprietà del maschio. Questo imparano, a un livello di (in)coscienza che varia con l’età, i nostri ragazzi. E noi adulti, intanto, a indignarci retrospettivamente per i film con la Fenech!
E poi c’è tutto l’universo mediatico di contorno, dove la donna non è certo apprezzata per le sue qualità intellettuali: dai concorsi di bellezza (a cui pure, però, le donne si prestano: e dunque, se è vero che, come si dice da ogni parte, vanno educati i maschi, è pur vero che una certa educazione andrebbe impartita pure alle femmine) a tutte quelle iniziative che mettono in vetrina il corpo femminile. È stato molto emblematico, in questo senso, il Tg2 delle 13:00 di domenica 19 novembre 2023, in gran parte dedicato al femminicidio di Giulia. Peccato che, subito dopo, la rubrica Tg2 Motori mostrava una serie di donne avvenenti che si strusciavano su moto e auto esposte in una delle tante fiere a tema d’Italia.
Insomma, i nostri governanti non sembrano vedere che ciò che sta fuori dalla scuola ha una valenza educativa molto più forte di ciò che sta dentro. Che, insomma, il contesto esterno decostruisce ormai puntualmente quanto di buono gli insegnanti cercano di costruire, e non si vede perché un simile meccanismo dovrebbe arrestarsi con la creazione della disciplina Educazione all’affettività o come si chiamerà.
Anzi, aggiungo questo: più una cosa viene istituzionalizzata e inserita nel mondo della scuola, più sono alte le chances che si ingeneri nei ragazzi un moto di rigetto: ci sono insomma buone probabilità che tale educazione all’affettività, una volta divenuta materia di trattazione (e dunque di studio e valutazione) vada in odio agli studenti, ottenendo così l’effetto diametralmente opposto a quello che si voleva: più intolleranza, e forse ancora più odio. Che, detto en passant, è proprio quello che sta accadendo con il politically correct propinato in tutte le salse e in qualsiasi ora del giorno e della notte.
Per chiudere, occorre ribadire che questo ragionare (e legiferare) sulla base dell’emotività suscitata da fatti di cronaca di indubbia efferatezza non ha solo un che di puerile, ma è anche l’ennesimo sintomo di una classe dirigente che di dirigente – nel senso di lucidità razionale necessaria per governare una nazione – non ha ormai che il nome. Ma tant’è.
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