Fuori dalla Biblioteca Universitaria di Genova la fila è lunga: centinaia di persone aspettano l’incontro con lo storico israeliano Ilan Pappè, organizzato sabato scorso da Bds Genova, Assopace e Tamu edizioni. Settecento ci riescono, gli altri restano fuori. Un incontro atteso quello con uno dei massimi esponenti dell’accademia israeliana e di una contro-narrazione basata su ricerche storiche inappellabili.

«La storia insegna che la decolonizzazione non è un processo semplice per il colonizzatore – così Pappé chiude il lungo dibattito – Perde i suoi privilegi, deve ridare indietro le terre occupate, rinunciare all’idea di uno Stato-nazione mono-etnico. I pacifisti israeliani pensano di svegliarsi un giorno in un paese eguale e democratico. Non sarà così semplice, i processi di decolonizzazione sono dolorosi: la pace inizia quando il colonizzatore accetta di stravolgere le proprie istituzioni, la costituzione, le leggi, la distribuzione delle risorse. Il giorno in cui finirà la colonizzazione della Palestina, alcuni israeliani preferiranno andarsene, altri resteranno in un territorio libero in cui non sono più i carcerieri di nessuno. Prima gli israeliani lo capiranno e meno questo processo sarà sanguinoso. In ogni caso la storia è sempre dalla parte degli oppressi, ogni colonialismo è destinato è finire».

Ilan Pappé

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con il professor Pappé abbiamo discusso a margine dell’iniziativa.

Per anni si è parlato di “gazafication” della Cisgiordania, l’assedio di Gaza come modello di gestione delle isole palestinesi in cui Israele ha suddiviso la West Bank. Ora accadrà il contrario? Gaza come la Cisgiordania?

Credo che nemmeno Israele abbia ancora un piano. Ci sono varie opzioni. Una è la creazione a Gaza di una sorta di Area A- o B+: l’idea dei “moderati”, come Gantz e Gallant, è affidare un pezzo di Striscia all’Autorità nazionale palestinese e creare una zona cuscinetto di 5-7 chilometri. Un’idea ridicola: nella sua parte più ampia Gaza è larga appena 12 chilometri. L’altra opzione, quella dell’ultradestra al governo, è una pulizia etnica più ampia possibile, espellendo i palestinesi in Egitto o comunque nel sud di Gaza e riportando i coloni a nord. Cosa accadrà è presto per dirlo, come è presto per dire come reagirà il mondo, se ci sarà una guerra a nord con il Libano, se ciò provocherà un’Intifada in Cisgiordania.

Dopo aver negato la Nakba per 75 anni, oggi il governo israeliano la invoca, parla di Nakba 2023, di necessità storica di espulsione. Da cosa deriva la perdita di qualsiasi freno, anche verbale, nell’identificare la soluzione nella pulizia etnica?

A negare la Nakba erano il centro e la sinistra. La destra non l’ha mai negata, anzi ne andava fiera. Per cui non sorprende che usi questo termine. L’altra ragione è che Israele tratta il 7 ottobre come un evento che ha cambiato tutto, non ritiene di dover più essere prudente nel suo discorso razzista, nel parlare di genocidio e pulizia etnica. Percepisce il 7 ottobre come il via libera ad agire.

La crescita, graduale ma inesorabile negli ultimi 30 anni, dell’ultradestra israeliana porta a parlare di un’evoluzione del sionismo in chiave religiosa. Le dichiarazioni di esponenti del governo, a partire da Netanyahu, che si rifanno alla Torah per giustificare le barbarie e le politiche di Ben Gvir e Smotrich ne sono un esempio. Cos’è oggi il sionismo? È possibile individuare in tale evoluzione un processo di implosione?

Già prima del 7 ottobre non avevamo più a che fare con il sionismo. Si è andati oltre, verso un giudaismo messianico. Queste persone, come i fanatici islamisti, credono di avere dio dietro di loro. È uno sviluppo ideologico che, superando il sionismo pragmatico e liberale, lo trascina via con sé. Oggi abbiamo di fronte un’ideologia ebraica messianica, razzista e fondamentalista che non solo ritiene che la Palestina appartenga solo al popolo ebraico (come ha fatto Netanyahu con la legge dello Stato-nazione del 2018), ma che pensa di avere la licenza morale di uccidere ed espellere tutti i palestinesi. È uno sviluppo ideologico pericolosissimo. Prima del 7 ottobre la società israeliana viveva già uno scontro aperto tra sionismo laico e sionismo religioso. Quello scontro riemergerà e dimostrerà che a tenere insieme gli israeliani è solo il rigetto dei palestinesi. Per il sionismo è l’inizio della sua fine che in termini storici significa un processo di 20 o 30 anni. Accadrà perché si tratta di un’ideologia colonialista in un mondo che ormai va in un’altra direzione. Se il sionismo fosse nato due o tre secoli fa probabilmente avrebbe ottenuto lo scopo di eliminare la popolazione indigena, come accaduto in Australia e negli Stati uniti. Ma è apparso quando ormai il mondo aveva già rigettato il concetto di colonialismo e i palestinesi avevano già maturato la propria identità nazionale.

A cosa è dovuto lo spostamento a destra della società israeliana dopo l’uccisione di Rabin e la spinta pacifista di un grande segmento della popolazione?

Essere sionisti liberali è sempre stato problematico. Devi mentire a te stesso di continuo, perché non puoi essere allo stesso tempo socialista e colonizzatore. La società si è stancata, ha capito che doveva scegliere tra essere democratica ed essere ebraica. Ha scelto la natura ebraica. Ha deciso che la priorità era affermare uno stato razzista piuttosto che condividerlo con i palestinesi. Era inevitabile, la logica conseguenza del progetto sionista. L’Israele di oggi è molto più autentico di quello degli anni Novanta.

Il 7 ottobre ha rappresentato una rottura traumatica per la società israeliana. La questione palestinese era stata rimossa, “gestita” come ha spesso detto Netanyahu. Da questo choc potrebbe nascere la consapevolezza della necessità di una soluzione politica?

Ci vorrà tempo. L’immediato futuro sarà segnato da odio e senso di vendetta. Sarà difficile parlare di soluzione che sia a due stati o a uno. Sul lungo periodo è invece possibile che Israele capisca che i palestinesi non se ne andranno da nessuna parte e non resteranno in silenzio, qualsiasi cosa Tel Aviv faccia. Molto dipenderà da Europa e Stati uniti: se continueranno a non fare pressioni, sarà difficile che le voci più ragionevoli in Israele siano ascoltate. Non basta la società civile, serve che i decisori politici cambino. Questo tipo di processi richiede tempo ma è possibile che da questa orrenda tragedia nasca qualcosa di positivo. Dipenderà anche dai palestinesi, se riusciranno a unirsi, se l’Olp rinascerà. Ci sono differenze anche tra di loro: chi vive in Cisgiordania vuole vedere la fine dell’occupazione e dell’oppressione, pensa di meno allo stato unico. Chi vive dentro Israele, invece, lo desidera, così come i rifugiati in diaspora per cui lo stato unico significherebbe il ritorno.

La durissima campagna contro Gaza e la dichiarata volontà di espulsione dei palestinesi ha provocato una reazione imponente delle piazze di tutto il mondo e dei paesi del sud globale, in contrasto con le posizioni degli stati occidentali. Assistiamo a un cambio di paradigma a livello globale che avrà effetti sul medio-lungo periodo?

Stiamo assistendo a un processo di globalizzazione della Palestina, una Palestina globale che è composta di società civili, cittadinanze, movimenti diversi come quelli indigeni, Black Lives Matter, i femminismi, ovvero tutti i movimenti anti-coloniali che magari conoscono poco della questione palestinese ma che sanno bene cosa significa oppressione. Questa Palestina globale deve sapersi opporre all’Israele globale, che invece è fatto di governi occidentali e industria militare. Come si fa? Collegando in una rete le lotte alle ingiustizie in giro per il mondo. Qui in Italia significa combattere il razzismo.

FONTE:https://ilmanifesto.it/ilan-pappe-deriva-messianica-il-sionismo-verso-la-sua-fine