L’Unione Europea serve ancora?
DA LA FIONDA (Di Enrico Grazzini)
È diventata impotente, quasi uno zombi, sempre sull’orlo della recessione. Nella crisi il populismo vince mentre la sinistra incollata al dogma europeista rischia di scomparire
Di fronte a nuove sfide epocali, come le guerre in Ucraina e in Israele e Palestina, il cambiamento climatico, l’immigrazione di milioni di persone, la sfida strategica tra America e Cina – l’Unione Europea, proprio quando ci sarebbe più bisogno di unità, è ormai diventata una zombi, il fantasma di un progetto fallito che continua a vivere solo perché prima era in vita e molti credono che lo sia ancora. Il problema è che oggi questo zombi non ha più una meta e vaga senza direzione, e può dissanguare o spingere nel baratro l’economia e la democrazia, dopo avere già annichilito la sinistra ammalata di europeismo ingenuo in Europa e in Italia. Ha fatto più male alla sinistra europea l’illusione e la collusione con questa Europa reale che la caduta del socialismo reale: la sinistra è rimasta distrutta dal sogno dell’Europa federale. Che ormai è diventato irrealizzabile (ma lo è sempre stato). Facciamo una riflessione dando per un attimo potere all’immaginazione: supponiamo che Francia, Germania, Italia Spagna, Olanda oggi siano fuori dall’euro. Se chiedessimo al presidente francese Emmanuel Macron, a Olaf Scholz, a Giorgia Meloni, a Pedro Sánchez e al premier olandese o austriaco se aderirebbero a questo euro e a questa UE quasi certamente ognuno risponderebbe “no grazie! prendiamo una pausa di riflessione e poi vedremo”. A nessuno sta bene questo euro e ognuno vorrebbe una unione monetaria e commerciale e politica molto diversa da quella attuale, anche se per differenti motivi. La UE doveva portare a una unione sempre più stretta: è piuttosto diventata una disunione.
La UE, e soprattutto l’euro, ci sono solamente perché ormai ci sono già, sono istituzioni consolidate e è molto pericoloso scioglierle. Quindi il sistema va avanti per forza di inerzia con gli stessi meccanismi concordati 30 anni fa a Maastricht, in una situazione economica e geopolitica completamente diversa da quella attuale. In particolare la moneta unica europea si è dimostrata fallimentare: nel 1990 USA e i paesi oggi della zona euro avevano un PIL analogo, pari a 10,1 trilioni, ovvero 10,1 migliaia di miliardi di dollari (dati World Bank, in dollari internazionali 2017 a Parità di Potere d’Acquisto); nel 2022 il PIL USA è diventato pari a 21 trilioni mentre quello dell’eurozona è solo di 16,5 trilioni. La forbice tra USA e Euro si è aperta invece di chiudersi, soprattutto a partire dallo shock finanziario del 2008. Nel frattempo la Cina ha superato tutti: è passata da un PIL di soli 1,6 trilioni nel 1990 ai 25,7 trilioni di dollari PPA del 2022. L’eurozona è sempre meno competitiva. E’ facile dimostrare che anche all’interno della zona euro si è allargata la forbice tra i paesi della moneta unica. E all’interno dei Paesi le diseguaglianze sono aumentate. In 30 anni i meccanismi dell’eurozona non sono cambiati: lo zombi europeo reclama ancora e sempre austerità e contrazione delle spese pubbliche: la conseguenza è che l’Europa, e la zona euro in particolare, se mai riuscirà ad evitare un’altra recessione, nei prossimi tre anni è destinata a crescere complessivamente se tutto va bene dell’1% all’anno, quando USA e Cina cresceranno invece del 2-4%.
La malattia europea è congenita, è genetica e si chiama iperliberismo senza Stato, ovvero completa libertà e dominio dei mercati e della finanza sull’economia reale e sulla società senza contrappeso e timone pubblico: il benessere è sacrificato sull’altare del pareggio di bilancio pubblico che obbliga alla contrazione degli investimenti pubblici e del welfare. Ma il bilancio pubblico in pareggio è idiota e impossibile, a meno di rinunciare del tutto a uscire dalla recessione e a investire sul futuro. La Germania è in recessione, ma il governo tricolore di Olaf Scholz – socialisti, liberali, verdi (tutti e tre in caduta libera nei sondaggi) – ha tentato ugualmente e assurdamente di applicare già quest’anno la legge costituzionale del pareggio di bilancio (approvata nel 2009) dopo che nei tre anni precedenti era stato sospesa a causa del Covid e dell’emergenza energetica dovuta alla guerra in Ucraina. Il governo teutonico voleva fare bella figura e non fare comparire l’incremento del deficit pubblico: ma ha dovuto fare clamorosamente marcia indietro a causa di una sentenza della Corte Costituzionale che ha scoperto e proibito i trucchi contabili del ministro liberale dell’economia Christian Lindner. Infatti il ministro tedesco – che purtroppo dirige di fatto anche tutta l’economia dell’eurozona – secondo la Suprema Corte ha cercato di manipolare i conti pubblici del 2023 mobilitando decine di miliardi di fondi extrabilancio per nascondere l’incremento effettivo del deficit pubblico e potersi così vantare di riuscire a reintrodurre già da quest’anno la norma costituzionale sul pareggio di bilancio. Grazie alla sentenza della Corte, Lindner è invece stato costretto a riconoscere l’incremento del deficit e ha dovuto invocare ancora una volta una “situazione di emergenza” per giustificare la sospensione della legge costituzionale sul pareggio. Legge che però in un certo senso Lindner e Scholz vogliono imporre agli altri paesi europei.
A che serve l’Unione Europea se non c’è progresso? Mettiamo in fila i numeri e vediamo che le diseguaglianze aumentano, la maggiore parte degli europei e degli italiani diventano più poveri, e non ci sono in vista prospettive migliori. La sinistra tradizionale, e anche gli intellettuali della sinistra, non vogliono riconoscere che il problema del declino europeo ha origini strutturali: le regole dell’euro e della Banca Centrale Europea sono fondate sulla libertà assoluta dei capitali, della big finance e dei mercati e sulla compressione della spesa pubblica per finanziare la rendita finanziaria. In Cina e negli USA quando c’è rischio di recessione i governi spendono trilioni in stimoli fiscali e moltiplicano la spesa pubblica: nell’eurozona invece si stringe sempre la cinghia (a meno di trucchi contabili). Non tutti si rendono conto che nell’economia europea non comandano veramente né la Commissione UE né la Ursula von der Leyen né i governi né il Parlamento Europeo né tanto meno i Parlamenti nazionali: in Europa comandano soprattutto i mercati, in cui operano le grandi banche americane, inglesi e francesi, le grandi istituzioni finanziarie, come J.P Morgan, Blackrock e Vanguard (che gestiscono fondi per trilioni di dollari, più grandi del PIL tedesco o italiano), i fondi sovrani arabi o norvegesi, e le grandi multinazionali come quelle dell’energia. E’ la grande finanza la padrona della moneta e dell’economia. Gli operatori finanziari trasformano i debiti pubblici in profitti privati. Gli Stati fragili dell’euro diventano la fonte più redditizia di guadagno.
Prendiamo il caso dell’Italia, strozzata dai debiti a causa degli interessi. Secondo il piano governativo 2024/2026, l’Italia nei prossimi anni dovrà pagare ai mercati circa 100 miliardi all’anno di soli interessi alla finanza nazionale ed estera. Circa 300 miliardi in tre anni. Il costo annuale degli interessi, giusto per dare un’idea dell’ordine di grandezza, è pari a circa il doppio della spesa pubblica totale per la scuola (52 miliardi) e circa quattro volte la manovra finanziaria di Giorgia Meloni (24 miliardi). Sono i contribuenti a pagare i 300 miliardi di interessi alle banche. Peraltro i cittadini italiani si dissangueranno inutilmente perché il livello di debito pubblico, pari al 140% del PIL, rimarrà sostanzialmente inalterato nei tre anni. La Banca Centrale Europea di Christine Lagarde ha alzato i tassi di interesse sui prestiti e gli azionisti delle banche brindano a champagne l’aumento favoloso dei loro utili mentre gli Stati sono costretti a pagare interessi più elevati, a tagliare le pensioni e la sanità e a alzare le tasse. L’austerità è tutta qui. Produzione, occupazione, welfare sono sacrificati a favore della finanza: le banche brindano e l’economia soffre. Così in Europa i fallimenti e i crash finanziari sono all’ordine del giorno: l’economia non corre molto né in Cina né negli USA ma in Europa è addirittura quasi ferma e è sempre a rischio recessione. Eppure (quasi) nessun politico e nessun economista vicino alla sinistra ufficiale osa denunciare le regole insensate dell’eurozona e propone cambiamenti radicali. Tutti (o quasi) a sinistra in fila dietro Bruxelles: come ha scritto Enrico Letta “Morire per Maastricht”[1]. Non mi pare che Elly Schlein abbia fatto cambiare linea al suo partito.
L’economia italiana (e europea) è prevista crescere, se tutto va bene, solo dell’1% circa all’anno nei prossimi tre anni. Tutto questo nonostante il piano del Next Generation UE di 200 miliardi che avrebbe dovuto ridare, in base agli entusiastici annunci, grande slancio e nuova vita all’economia del Bel Paese. Per avere i soldi della NGEU il governo italiano è sotto costante e pressante tutela e ricatto da parte della Commissione Europea. La verità è che, a forza di denigrare l’intervento pubblico, a forza di tagliare, lo Stato italiano non ha più nemmeno la capacità progettuale di spendere i soldi che l’Europa ci ha offerto per superare la crisi del Covid. L’intervento pubblico, secondo i principi liberisti di Maastricht, deve essere per quanto possibile evitato perché solo la competizione di mercato può portare allo sviluppo. Lo Stato viene considerato come un intralcio. Oggi che però lo Stato italiano con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza deve intervenire per salvare l’economia, è talmente indebolito sul piano delle competenze e dell’organizzazione da rischiare di non farcela. Se il PIL non crescerà, con un rapporto debito pubblico/PIL al 140%, l’Italia è sull’orlo del baratro: la Grecia era fallita e è stata commissariata dall’Europa con un debito del 125% su PIL. Lo scandalo dei 100 miliardi di interessi da pagare sul debito pubblico e quello del PNRR che fatica a partire – solo l’8% dei progetti previsti è completato – dovrebbe aprire i Tg e fare i titoli dei giornali, ma tutto tace nella chiesa dei media mainstream, e la Meloni può dire che tutto va bene, anzi va benissimo. Anche la sinistra è timida e silente: gli economisti di sinistra borbottano oppure suggeriscono riforme e riformine europee troppo moderate e comunque velleitarie per essere convincenti. La sinistra non ha denti e a Bruxelles nessuno l’ascolta. I difetti genetici non si curano con i cerotti. Sinistra spesso complice e sempre impotente.
Occorre qui ricordare alcune questioni di base: come qualsiasi politico o economista sa o dovrebbe sapere, uno Stato in crisi e con debiti in eccesso se è sovrano sulla sua moneta può facilmente cavarsela. Può lasciare che la sua moneta si svaluti sul mercato e così, pagando i creditori con valuta svalutata e rilanciando l’export, può guadagnare tempo prezioso per riorganizzare la sua economia e ripartire senza rimanere soffocato dai debiti. I creditori naturalmente non sono contenti della svalutazione, ma temono di più i fallimenti completi: inoltre il rischio fa parte del mestiere dei banchieri (e genera buona parte dei loro guadagni). Qualsiasi paese sovrano sulla sua moneta – come gli USA, il Giappone (che ha un debito pubblico stratosferico del 240% su PIL, ma certamente non fallisce), la Corea del sud, Israele, il Brasile o la Gran Bretagna – ricorre normalmente alla svalutazione in caso di crisi: ma l’Italia e gli altri paesi dell’euro questo non possono farlo perché ovviamente non dispongono più di una loro moneta. Un paese sovrano sulla sua moneta non può mai fallire sul debito pubblico perché può sempre ordinare alla sua banca centrale di stampare tutta la moneta necessaria a pagare i debiti. Un paese che invece ha ceduto sovranità monetaria assai più facilmente può non essere in grado di procurarsi abbastanza liquidità (in moneta straniera) per restituire i suoi debiti.
I paesi dell’eurozona hanno ceduto la loro sovranità monetaria alla Banca Centrale Europea: la moneta nella quale sono denominati i loro titoli di debito è gestita esclusivamente della BCE, la banca “indipendente” che fa capo a 19 diversi Stati. Una sola politica monetaria e di cambio per 19 paesi con diversi tassi di inflazione, differenti livelli tecnologici e di produttività, diversi mercati del lavoro e dei capitali non può mai essere efficiente per tutti e è molto facilmente inefficiente per tutti. Uno stesso tasso di interesse può essere troppo basso per la Germania ma troppo elevato per l’Italia. Ma il problema principale consiste anche fatto che il trattato di Maastricht impone che la BCE possa finanziare solo le banche commerciali e non i paesi dell’euro, e neppure la UE. Così i paesi dell’eurozona, Italia compresa, per procurarsi la moneta necessaria per sottoscrivere gli investimenti pubblici sono costretti a ricorrere al mercato finanziario come qualsiasi azienda privata, senza alcuna copertura della BCE. L’Italia emette i suoi titoli di debito in euro anche se ovviamente non controlla l’euro. L’euro sta insomma all’Italia un po’ come il dollaro sta all’Argentina. I mercati però sono pro-ciclici: se un paese è in difficoltà applicano costi del debito maggiori e così accentuano le difficoltà. La spirale pro-ciclica dei mercati può portare rapidamente alla crisi e al fallimento degli Stati, anche se i malanni dell’economia avrebbero potuto all’inizio essere facilmente curati grazie all’erogazione di prestiti a basso prezzo (per esempio da parte della banca centrale). La BCE cura la crisi delle banche ma non quelle degli Stati. In questa situazione per gli Stati dell’euro può diventare molto difficile finanziare il debito pubblico, anche quello necessario per lo sviluppo dell’economia privata, e quello buono per infrastrutture energetiche, ospedali, scuole, reti, ponti e ricerca. Lo sviluppo economico è incerto e instabile se viene finanziato con “moneta straniera”, e l’euro è per i 19 paesi dell’eurozona come una moneta straniera perché non ne controllano né il prezzo né la quantità emessa, e perché la BCE non può – a causa di Maastricht – garantire i loro debiti. Così i governi sono costretti a contrarre la spesa pubblica per limitare i deficit: in tale modo però contraggono tutta l’economia e svalutano anche il lavoro e il capitale produttivo. La compressione degli investimenti pubblici può portare al fallimento perché gli dello Stato investimenti sono indispensabili per uscire dalla spirale della crisi, aumentare la ricchezza nazionale e riuscire a pagare i debiti.
Questa naturalmente non è una lezione teorica e astratta. Nell’eurozona Grecia, Portogallo, Irlanda e Cipro e Spagna hanno già subito fallimenti, e anche il possibile default dell’Italia è una cosa di cui tutti gli economisti e i politici parlano normalmente da anni in Europa e nel mondo. Ma è proibito parlarne in Italia. La possibilità di fallire è evidente per un paese come l’Italia che, a causa del Covid e della guerra in Ucraina, nonostante tutti i sacrifici e le privatizzazioni, ha maturato un debito pubblico monstre del 140% su PIL. Prima del Covid, per circa 30 anni i cittadini italiani abbiano vissuto al di sotto delle loro possibilità e hanno pagato più tasse di quanto lo Stato abbia speso per i servizi pubblici: questo significa che centinaia di miliardi delle loro tasse sono andate solo per il pagamento degli interessi sul debito. Ma questo non è bastato: lo Stato ha dovuto fare altro deficit per servire il debito, e tuttavia questo è cresciuto invece di diminuire. In pratica i governi sono costretti a chiedere soldi ai mercati solo per pagare gli interessi sul debito, interessi che crescono più del PIL. E’ facile comprendere che questa dinamica è fallimentare e che o viene rovesciata grazie al successo del PNRR oppure i sacrifici per i cittadini e le imprese – cioè il surplus di bilancio primario – dovranno aumentare in maniera difficilmente sostenibile. Ci potrebbero essere rivolte e proteste sociali. Il rischio molto concreto è che prima o poi l’Italia non potrà più servire i debiti secondo le scadenze contrattuali e dovrà chiederne la ristrutturazione. Il MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità che la Meloni finora non ha voluto approvare, serve proprio a intervenire per trattare la ristrutturazione dei debiti pubblici in modo da imporre l’austerità e proteggere i creditori della finanza.
L’austerità è il marchio di fabbrica dell’eurozona. Quando c’era il centro-destra al governo c’era l’austerità, quando c’era il centro-sinistra c’era l’austerità, quando c’erano i governi tecnici c’era l’austerità; gli elettori allora hanno abbandonato i passati governi e per disperazione si sono rivolti ai “nuovi”politici che prima (in parte) non governavano, cioè alla destra più estrema: ma ora anche con il governo di Giorgia Meloni continuano austerità e privatizzazioni. In realtà nella gabbia dell’euro destra, centro o sinistra al governo non possono cambiare più di tanto le cose se non imprimono svolte radicali. Nell’eurozona sono i mercati a dettare legge.
In Europa si sta discutendo delle nuove regole che sostituiranno il vecchio e inapplicabile Fiscal Compact, sospeso dal Covid in poi: non si sa ancora se verrà trovato un compromesso tra la posizione della Commissione UE, appoggiata dai francesi, che prevede una riduzione graduale dei debiti pubblici sotto il controllo discrezionale della Commissione stessa; e la posizione tedesca, che prevede invece una misura automatica di diminuzione graduale dei debiti pubblici (meno 1% annuo). I tedeschi sono molto preoccupati del potere discrezionale della Commissione e preferiscono regolare le politiche fiscali dei paesi dell’euro con misure oggettive e sanzioni automatiche e non discrezionali. Qualsiasi progetto di compromesso venga adottato, esso esautorerà ancora di più le istituzioni democratiche, i parlamenti e i governi nazionali. Il potere decisionale, anche in campo fiscale, si sta spostando sempre di più verso le istituzioni intergovernative europee, mai elette e non soggette al controllo democratico dei popoli europei. La Commissione UE, composta da 27 personalità nominate dai rispettivi governi, e il Consiglio Europeo, composto dai capi di governo, decidono per tutti i 500 milioni di cittadini europei. I parlamentari europei (eletti però nazione per nazione dagli elettori locali) hanno il compito di ratificare le decisioni prese da Bruxelles e Francoforte e dai principali governi europei, da Berlino e Parigi. Alla faccia della democrazia!!! Anche la BCE è dichiaratamente e ufficialmente impermeabile a ogni sollecitazione politica. Prima della rivoluzione francese l’assemblea dei rappresentanti del Terzo Stato aveva probabilmente più potere di quanto ne abbiano oggi i 500 milioni di cittadini europei. Lo scandalo è che (quasi) nessuno a sinistra osa criticare l’assoluta mancanza di democrazia dentro la “democratica” Europa! In confronto la destra, per quanto ipocrita e demagogica è molto più critica e realista verso l’“Europa dei burocrati e della finanza”! La sinistra invece non ha mai avuto il coraggio di attaccare la la tecnocrazia europea né tanto meno la speculazione di banche e finanza. Di fronte al disastro europeo la sinistra, a differenza della destra, manca in generale di radicalità, di indignazione e di rabbia. E perde voti perché durante le crisi gli elettori si polarizzano e abbandonano il centro. La sinistra non lotta più contro lo sfruttamento nei posti di lavoro e non critica la finanza selvaggia che “sfrutta” gli Stati e i contribuenti. Sembra che si sia bene accomodata al sistema vigente e non abbia più avversari e nemici nell’economia e nella società (fatta eccezione per gli evasori fiscali e le organizzazioni mafiose o dichiaratamente fasciste): così però la gente che protesta per le nuove povertà, per la disoccupazione e per redditi di lavoro da fame, non può che seguire la demagogia della destra, che invece è sempre (apparentemente) molto aggressiva contro lo stato presente delle cose, i poteri costituiti e l’establishment.
La povertà dilaga, i populisti e non la sinistra raccolgono la protesta e non a caso continuano ad avanzare. Hanno vinto in Italia con il governo della destra di Meloni, Salvini e Berlusconi. In Francia Marine Le Pen secondo i sondaggi è in pole position per diventare il nuovo futuro presidente della Republique; in Germania l’AFD, il partito di estrema destra antiUE e anche antiNato, arriva secondo nei sondaggi con il 20% circa dell’elettorato, davanti ai socialisti e ai verdi. Il primo partito è la CDU del rigore più estremo. In Olanda il Partito della Libertà di estrema destra di Geert Wilders vince le elezioni e si candida alla guida del paese. In questo contesto se le sinistre europee – il PD di Elly Schlein compreso – continueranno a rimanere agganciate all’Europa zombi senza proporre vie di uscita e misure radicali ed efficaci sul debito pubblico e sulle rendite finanziarie che ci strozzano, non avranno più scampo e dovranno lasciare l’intero posto di comando al populismo di destra estrema.
E’ penoso analizzare le politiche dell’Europa nei campi dell’immigrazione, dell’energia, della politica estera e della difesa. L’immigrazione viene respinta invece che controllata e organizzata, e decine di migliaia di innocenti muoiono nel Mediterraneo e alle frontiere dell’est Europa. La difesa europea è un sogno dell’industria militare francese. In realtà il governo tedesco sembra invece essere sempre più subordinato agli interessi del complesso militare-industriale statunitense. In campo energetico la Francia di Emmauel Macron punta tutto sul nucleare sicuro (?) mentre la Germania dismette completamente le centrali nucleari e in compenso usa il carbone. Manca un consistente fondo europeo per finanziare le centinaia di miliardi indispensabili per gli investimenti sulle energie alternative. La politica estera europea non esiste. “Fuck the Eu”, letteralmente “l’Unione europea si fotta“ è la frase sfuggita al massimo responsabile americano per le relazioni europee, la segretaria di Stato aggiunto, Victoria Nuland, una delle vice del capo della diplomazia Usa John Kerry. La battutaccia alla Nuland è scappata nel corso di una telefonata con l’ambasciatore americano a Kiev, Geoffrey Pyatt a proposito della politica in Ucraina. In politica estera Francia e Germania sono divisi su (quasi) tutto. Macron è vicino ai palestinesi mentre Olaf Scholz abbraccia la politica di Netanyahu; Macron è critico sulla politica di Zelensky che punta alla (impossibile) vittoria completa sulla Russia di Putin mentre la Germania sembra invece seguire l’amministrazione Biden nel confronto senza fine in Ucraina. Polonia, Ungheria e i paesi baltici seguono più Washington che Bruxelles. Del resto senza una forza militare che la supporti in maniera credibile, e senza neppure una politica alternativa di neutralità attiva, per esempio sul modello svizzero, l’Europa è una completa nullità nella politica estera e nelle vicende internazionali. Non ha neppure un seggio all’ONU.
Il nuovo Parlamento europeo che verrà eletto a giugno sarà prevedibilmente spostato a destra e il partito conservatore europeo guidato da Giorgia Meloni diventerà prevedibilmente per la prima volta determinante per formare la maggioranza dell’assemblea di Bruxelles, finora composta da popolari, socialisti e liberali. Le destre nazionaliste impediranno qualsiasi trasferimento di risorse ai paesi più in difficoltà e a alto debito come l’Italia. Insomma, non c’è luce in fondo al tunnel. Quando l’Europa si allargherà all’Ucraina e con i Paesi balcanici e passerà da 27 a 35 membri, confusione e contrasti aumenteranno ancora, anche perché il bilancio europeo verrà diviso tra un numero più grande di attori e le fette saranno più piccole. Le spinte verso la disintegrazione saranno prevedibilmente ancora più forti.
In tutto il mondo capitalista – come spiego nel mio libro sul “Fallimento della Moneta”[2]– sono le banche commerciali e non gli Stati a creare la quasi totalità della moneta e ad avere il potere sulla moneta. La moneta viene creata dal nulla quando una banca concede un prestito: quindi la moneta entra sempre e esclusivamente nell’economia sotto forma di debito. La moneta bancaria è moneta-debito e per sua natura alimenta cumuli di debiti che non possono essere ripagati. Dagli anni 80 in poi, con le politiche reaganiane e thatcheriane, è stata promossa anche la libera circolazione internazionale dei capitali. La moneta è stata completamente privatizzata e gli Stati non hanno più potuto creare moneta per l’economia nazionale, ovvero non hanno più potuto ordinare alle loro banche centrali di “monetizzare” i debiti indispensabili per gli investimenti pubblici. Gli Stati democratici non possono più gestire la moneta per lo sviluppo, come invece avevano fatto nei trenta anni successivi al secondo dopoguerra. Non a caso dal 1945 al 1975 si sono verificati uno sviluppo capitalistico impetuoso, la diffusione del benessere di massa, un’alta produttività e la quasi piena occupazione. Nei cosiddetti Trenta Gloriosi si sono creati servizi pubblici universali e c’è stata una tendenziale riduzione delle diseguaglianze mentre le crisi bancarie erano rare e limitate. Dagli anni 80 è stata proibita la monetizzazione dei debiti nazionali e la sovranità monetaria è passata al settore privato e alla finanza internazionale. Sono partite la deregolamentazione e la globalizzazione dei mercati finanziari. La ricerca spasmodica del profitto a breve termine da parte del sistema bancario e finanziario ha portato inevitabilmente alla speculazione, alle bolle e poi ai crack. Dal 1975 in poi ci sono state 147 crisi bancarie, 218 crisi valutarie e 66 crisi di finanziamento di un paese[3], e le più gravi hanno raggiunto perfino la ricca eurozona. In pratica i mercati sono diventati i padroni esclusivi della moneta, e questo soprattutto nell’eurozona, in cui – come abbiamo visto – alla BCE è impedito esplicitamente e formalmente di monetizzare i debiti pubblici dei paesi membri. Nell’eurozona i capitali possono speculare liberamente sui diversi rendimenti dei titoli di debito dei diversi paesi condannando i paesi più deboli e premiando quelli più forti. La fuga dei capitali è diventata virtù. Insomma: nell’area euro, più ancora che in qualsiasi altra area del mondo avanzato, viene lasciata mano libera alla finanza e al signoraggio bancario. Se poi si pensa che proprio dentro l’eurozona ci sono paradisi fiscali come il Lussemburgo, l’Olanda, l’Irlanda, Malta, Cipro, al danno si aggiunge anche la beffa.
Le democrazie per fare ingoiare l’austerità alla popolazione si trasformano in regimi autoritari. La cosa assurda è che perfino Mario Draghi afferma che “bisogna mettere mano ai trattati” perché così com’è il calabrone dell’euro – dice lui – non potrà continuare a volare. Mentre la sinistra si illude ancora della riformabilità dell’euro. Finché non si risveglierà dal sonno ipnotico dell’Europa federale, degli Stati Uniti d’Europa, della moneta unica fondata sulla libertà dei capitali e sulla competizione senza regole, la sinistra sprofonderà ancora di più.
La sinistra vorrebbe riformare l’Europa per arrivare a costruire uno Stato federale, i mitici Stati Uniti d’Europa. Ma questa è una prospettiva impossibile oltre che sbagliata. Nessun grande paese, né la Germania né la Francia, condividerà mai le sue finanze e il suo potere politico con i paesi più fragili. Nessuno condividerà e alleggerirà i debiti dei paesi più fragili. L’Europa è finita in un cul de sac. Il problema è che è impossibile rimettere il dentifricio dentro il tubetto. L’uscita unilaterale dall’euro non verrebbe approvata da larga parte dell’opinione pubblica e scatenerebbe una crisi gravissima e difficilissima da controllare. Ma questo non giustifica la passività: anzi la sinistra di fronte a una situazione ormai drammatica dovrebbe diventare più radicale nelle sue proposte e nelle sue azioni. Occorre cominciare a pensare idee nuove e originali e riforme radicali. David Sassoli, il passato bravo presidente del Parlamento Europeo, aveva proposto per esempio la cancellazione dei debiti pubblici in pancia alla BCE (un terzo/quarto circa dei pubblici dell’euro). Una proposta molto efficace: ma Christine Lagarde rifiutò e perfino il PD di Sassoli, guidato da Enrico Letta, respinse quasi con disgusto questa giusta sollecitazione. Se la BCE non può e non vuole finanziare i singoli Stati, dovrebbe almeno finanziare direttamente e pesantemente gli investimenti comuni a livello europeo sull’energia, sulle energie alternative, sulle infrastrutture di base, sulla ristrutturazione energetica degli edifici e dei trasporti, sulla ricerca e la sicurezza. La BCE dovrebbe finalmente decidere che il livello ottimale di incremento annuo dell’inflazione da perseguire per promuovere lo sviluppo dell’economia reale non è l’attuale misero 2% ma il 3-4%. I tassi di interesse dovrebbero essere ridotti in modo da alimentare il credito e gli investimenti privati e pubblici. I governi di fronte alla crisi potrebbero attuare progetti ancora più radicali: se l’euro diventasse una “moneta scarsa”, gli Stati dovrebbero cominciare a immettere monete complementari, aggiuntive ma non alternative all’euro[4]. Monete fiduciarie da distribuire a famiglie e imprese senza passare per i mercati al fine di difendere i redditi delle famiglie, l’incremento dell’occupazione nelle industrie, l’accesso ai servizi sociali, la salvaguardia dell’ambiente e le trasformazioni energetiche. Bisognerebbe finanziare non solo redditi minimi garantiti per tutti ma soprattutto il lavoro: lo Stato dovrebbe diventare il datore di lavoro di ultima istanza per i disoccupati e anche per gli immigrati in cerca di una vita e di una occupazione degna. Per contrastare l’inflazione, rilanciare i consumi e gli investimenti la sinistra potrebbe e dovrebbe proporre una semplice e giusta misura: l’aumento automatico dei salari rispetto ai prezzi[5]. La sinistra dovrebbe lasciare gli zombi al loro destino e fare rinascere la cooperazione europea su basi completamente nuove, e non fondate sulla libertà dei capitali e sui mercati finanziari. Compito ovviamente difficilissimo, ma se non si inizia non si arriverà mai alla meta.
[1] Enrico Letta “Euro sì. Morire per Maastricht” Laterza, 1997
[2] Enrico Grazzini “Il fallimento della moneta. Banche, debito e crisi. Perché bisogna emettere una moneta pubblica libera dal debito” Editore Fazi, 2023
[3] IMF Working Paper : “Systemic Banking Crises Database: An Update” Luc Laeven and Fabián Valencia , June 2013
[4] Enrico Grazzini Social Europe “Stiglitz Advocates A Dual Currency System In Italy But Why Not For The Whole Eurozone?” 25th July 2018;
[5] Micromega Plus, Enrico Grazzini “Extraprofitti e speculazione stanno strozzando i lavoratori: serve una nuova scala mobile” Novembre 9, 2023
FONTE: https://www.lafionda.org/2023/12/01/lunione-europea-serve-ancora/
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