Il triste tramonto dell’eredità del movimento operaio in Italia e la crisi della sinistra politica (1a parte)
di MICRO MEGA (Stefano G. Azzarà)
1991-2016
Conclusa la Guerra Fredda, nel 1991 si concludeva anche la parabola settantennale del PCI, giunto allo scioglimento al termine del XX congresso. Grazie all’iniziativa di alcuni esponenti storici di quel partito – Libertini, Salvato, Serri, Garavini, gli ex PdUP Magri e Castellina e diversi altri – ma soprattutto grazie al tempestivo lavoro sotterraneo del leader storico della corrente “filosovietica” Armando Cossutta, nello stesso anno nasceva però il Movimento e poi il Partito della Rifondazione Comunista (PRC). Al primo nucleo dei fondatori, che nonostante la notevole diversità negli orientamenti faceva per lo più riferimento alla Casa Madre di via delle Botteghe Oscure, si sarebbe presto unita una piccola pattuglia proveniente da Democrazia Proletaria.
Non è il caso di ricostruire nei dettagli le vicende di questo partito. Ricordo però le prime riunioni semiclandestine e la concitata campagna per le elezioni regionali siciliane, dove fu per la prima volta presentato il simbolo e dove il PRC raccolse un sorprendente 6%. Ricordo inoltre come nei primi anni esso riuscisse a riscuotere il consenso di quella parte dell’elettorato ex PCI che non aveva condiviso il mutamento di nome e soprattutto la ricollocazione politica della tradizione comunista italiana, raggiungendo percentuali importanti in particolare nel Nord Italia industriale (con dati superiori al 10% in città come Milano e Torino). A dimostrazione del fatto che, a prescindere dalle nomenclature, esisteva ancora in quel momento tra i lavoratori salariati e nei ceti medi riflessivi uno spazio politico praticabile per una sinistra intenzionata a non allinearsi allo spirito dei tempi.
Dopo 25 anni, nel corso dei quali ha partecipato in via diretta o indiretta ai due governi di centrosinistra guidati da Romano Prodi e ha sostenuto un’infinità di coalizioni negli enti locali, il PRC è oggi sostanzialmente scomparso. Corresponsabile di scelte antipopolari – che dal famigerato Pacchetto Treu in avanti erano state motivate con la necessità di fermare un fantomatico “fascismo berlusconiano” ma che hanno clamorosamente aumentato il divario tra i ceti più forti e quelli più deboli -, ha perduto i propri militanti e simpatizzanti e non è più in grado di presentarsi alle elezioni in maniera autonoma con il proprio nome e simbolo. E almeno dal 2008 – da quando è stato estromesso dal Parlamento nazionale per il mancato superamento del quorum elettorale da parte del rassemblement della Sinistra Arcobaleno – ha esaurito ogni capacità propositiva ed è rimasto tagliato fuori dal dibattito politico e culturale del paese.
Ridotto a poco più di un logo, ovvero a un franchising di gruppuscoli locali che sopravvivono quasi soltanto sui social network (a parte poche realtà che resistono nel mondo reale con infiniti sforzi di volontarismo), esso sembra del tutto incapace di rigenerarsi, ostaggio di quella sorta di segretario a vita per mancanza di alternative che è il suo leader Paolo Ferrero. Il quale, dopo aver sempre sostenuto la linea delle alleanze con il PDS-DS-PD ed essere stato Ministro al Nulla dal 2006 al 2008, non può possedere certamente oggi, nell’epoca delle contrapposizioni frontali, la credibilità necessaria per parlare con i ceti popolari e per assicurare una ragion d’essere alla propria comunità politica.
Un contesto impossibile
Perché è avvenuto tutto questo? Come è stato possibile che in un tempo relativamente breve un intero capitale di idee, passioni e impegno militante, costruito con fatica e sacrifici da uomini e donne che avevano cercato di mantenere un filo di continuità politica con la storia del movimento operaio, sia stato dilapidato in maniera così ignominiosa e nell’indifferenza generale? Come è accaduto che un partito che in certi momenti ha avuto anche un ruolo significativo si sia frantumato in una decina di sigle, tutte altrettanto rissose, insignificanti e innocue, spalancando un’autostrada che ha consentito al Movimento 5 Stelle di sfondare anche a sinistra?
Non esistono responsabilità univoche. Perché la situazione oggettiva di quella fase, che era determinata da una sconfitta storica delle classi subalterne al termine di un lungo conflitto nel quale la dimensione internazionale si era intrecciata alle vicende nazionali, era così disperata che la sfida della ricostruzione di un partito comunista alla fine del XX secolo sarebbe stata troppo ambiziosa anche per le posizioni soggettive migliori, anche – per paradosso – per un Togliatti redivivo. Una sfida impossibile, dunque. Tanto che la domanda giusta da porre è semmai proprio quella opposta: come è stato possibile, cioè, che una forza che non ha mai prodotto innovazioni significative e che non è mai stata all’altezza della sfida contenuta nel proprio nome (“Rifondazione”) abbia potuto vivere di rendita ancora per vent’anni dopo la fine del comunismo storico?
La realtà è che la tradizione comunista era così radicata in Italia che anche questo mezzo miracolo e stato possibile. Tanto che per certi aspetti in questo paese solo oggi viviamo fino in fondo le conseguenze della caduta del Muro di Berlino.
C’è poi un altra questione oggettiva di cui tener conto. I processi di concentrazione del potere in favore degli esecutivi e a detrimento dei parlamenti e della rappresentanza, processi che dalla fine degli anni Settanta riguardano tutto il continente europeo e che dopo la caduta del Muro avrebbero assunto le forme di un inedito neobonapartismo mediatico e spettacolare, non sono attecchiti in Italia con la stagione del “decisionismo” guidata dal leader del PSI, Bettino Craxi, ma contro costui e con l’introduzione del sistema elettorale maggioritario uninominale nel 1991. E cioè con la cancellazione del sistema proporzionale puro che aveva orientato il campo politico italiano dalla fine della Seconda guerra mondiale e per gravissima responsabilità del PDS, il partito nato dalle ceneri del PCI. Il quale, vedendovi una scorciatoia tecnica che avrebbe aggirato il moderatismo strutturale del paese costringendo i partiti di centro ad allearsi e a portare al governo gli ex comunisti, aveva avallato un referendum completamente sbagliato. Un referendum del quale paghiamo ancora oggi le conseguenze e che, lungi dal preparare una modernizzazione del sistema politico, rientrava semmai nella lunga tradizione del sovversivismo delle classi dirigenti italiane.
Questa circostanza ha fatto sì che, ancor prima di definire un proprio programma, Rifondazione Comunista diventasse in maniera consustanziale l’ala sinistra del centrosinistra. Una forza destinata per ragioni sistemiche a coprire sempre e comunque il fianco “radicale” dell’alleanza con la sinistra moderata e le sue politiche di neoliberalismo temperato, e dunque destinata a rimanere priva di sostanziale autonomia oppure a perire. Tanto che, puntualmente, questo partito è evaporato nel momento esatto in cui, con la nascita del PD, Walter Veltroni ha posto fine alla stagione delle larghe alleanze di centrosinistra su scala nazionale.
Un profondo deficit culturale
Seppur necessarie, però, queste considerazioni non sono sufficienti. E finirebbero per essere persino fuorvianti e consolatorie se ci portassero a chiudere gli occhi sulla parallela dimensione soggettiva di questa storia. E cioè sul fatto che, a prescindere dal contesto storico e politico, sin dalla nascita il profilo del PRC è stato drammaticamente fragile sul piano culturale e morale e perciò completamente privo di fondamenta e prospettiva.
Erano confluiti al suo interno anzitutto gli eredi più ideologizzati del PCI, un partito che aveva una storia gloriosa alle spalle perché aveva edificato la democrazia moderna in Italia con il sangue dei propri partigiani durante la guerra di liberazione e con la geniale sapienza politica di Togliatti a guerra terminata. Un partito, però, che da diverso tempo non poteva che essere comunista soltanto di nome. E che in molte sue componenti aveva sposato l’idea migliorista secondo la quale il progresso sociale si riduceva unicamente alla modernizzazione del capitalismo autoctono, un capitalismo che andava salvato dalla sua stessa natura stracciona e parassitaria.
Il malinteso senso di responsabilità nazionale che faceva passare questa modernizzazione attraverso i sacrifici delle classi subalterne e la moderazione salariale – una falsa coscienza egemone presso i quadri del partito come in quelli del sindacato CGIL – si saldava facilmente poi alla filosofia della storia implicita dei militanti medi di quell’area politica. Convinti, come nell’Ottocento o nella prima metà del Novecento, di essere sempre e comunque dalla parte della ragione e che una necessità immanente avrebbe prima o poi condotto a una società più giusta ed eguale. Quali che fossero, le scelte contingenti del partito-Chiesa erano perciò giuste per definizione. Cosa rappresentavano del resto i sacrifici di oggi, soprattutto in presenza di rapporti di forza momentaneamente sfavorevoli, di fronte a questo orizzonte luminoso pressoché certo per il domani?
Si può dire, in questo senso, che chi proveniva dalla storia del PCI avesse assorbito con il latte materno una mentalità orientata alla riduzione del danno. Una mentalità che conduceva sempre al perseguimento del presunto “male minore” nella paura che tutte le alternative fossero peggiori, rimandando il “bene maggiore” all’orizzonte vago e indefinito delle prediche ai militanti durante i comizi della domenica. Era un realismo che oltre una certa soglia diventava letteralmente surrealismo. E che sul piano della cultura politica sanciva la vittoria postuma di Benedetto Croce su Gramsci, ovvero la rivincita del materialismo storico inteso come mero realismo politico, tattica e opportunismo sull’idea del marxismo come visione del mondo organica e autonoma.
Agli ex PCI facevano poi da contraltare gli eredi “libertari” della Nuova Sinistra, non meglio attrezzati dei primi di fronte al nuovo scenario della globalizzazione incipiente. Erano i figli politici del ciclo 1968-77. E cioè di quella grande modernizzazione della società italiana che era avvenuta dopo gli anni del boom economico. Una modernizzazione che era passata per la contestazione delle rigide gerarchie familiari e sociali dell’Italia agricola e patriarcale e per il salto da una morale austera e inadatta al consumo a una morale liberale di massa adeguata all’epoca della produzione di massa. Una modernizzazione, soprattutto, che si era a lungo mascherata con le vesti di una rivoluzione ultraradicale, la quale contestava la natura “borghese” del comunismo filosovietico – il PCI in primis – in nome di un ideale egualitario che si ispirava a volte al maoismo ma che era del tutto immaginario. L’idea di rivoluzione coincideva infatti per quella sensibilità anzitutto con l’emancipazione integrale della soggettività individuale. E dunque con la sostituzione dell’idea moderna di una libertà da perseguire e praticare in maniera consapevole, collettiva e organizzata sul piano politico con l’idea postmoderna di una libertà che si esprime pressoché esclusivamente nella rivendicazione dei diritti civili e nella scelta arbitraria degli stili di vita e soprattutto di consumo. In una dimensione, cioè, prevalentemente privata.
Era una componente assai vicina a quella che un tempo Ernst Bloch aveva chiamato «corrente calda» del marxismo, con una spiccata inclinazione alla poesia e all’immaginazione fantastica di “nuovi soggetti” e nuove “moltitudini” (una componente assai attenta, non a caso, alla lezione di Toni Negri). E con una propensione tipicamente movimentista a inseguire tutto ciò che si muove e respira nella società civile, senza bisogno di analisi materialistica né programmi. Una componente assai presuntuosa sul piano culturale ma dotata in realtà di scarsi strumenti concettuali. A partire dal suo ottuso rifiuto marcusiano del marxismo, denunciato come ideologia dogmatica, economicista e ostile alle nuove istanze della società (femminismo, questione giovanile, ecologia…) e sostituito non con una nuova solida teoria ma con un sincretismo dilettantesco che veniva spacciato per raffinata “contaminazione pluralistica”, “ibridazione” o “nomadismo foucaultiano”.
Da queste premesse derivava un palinsesto idealistico nel quale il compito costitutivo della difesa del lavoro e delle parti più deboli della società veniva di volta in volta sostituito dalle bizzarrie più improbabili, in nome del desiderio e della libertà individuale assoluta. E che definiva il carattere di una sinistra sincretistica sul piano culturale e disimpegnata su quello politico, ma non per questo meno disponibile al compromesso opportunistico. Tanto che spesso, in ossequio alle compatibilità di governo, il Prc avrebbe grottescamente trasfigurato in chiave “rivoluzionaria” anche le più grevi manifestazioni della restaurazione neoliberale che dilagava in quegli anni (un esempio per tutti: lo smantellamento del Welfare e la parallela diffusione del Terzo Settore veniva interpretato in molti documenti di partito come una forma di estinzione dello Stato che accompagnava una crescente autonomia della società civile…).
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