Democrazia, ultimo atto?
DA LA FIONDA (Di Laura Bazzicalupo)
Il libro che qui si recensisce – Democrazia: ultimo atto? di Carlo Galli – è il libro di un maestro. Cioè di qualcuno capace di prendere la distanza dal coro dominate del pensiero unico, e indicare una rotta, un modo di pensare critico. Controcorrente rispetto al presentismo assoluto, statico e incapace di ragionare sulla complessità dei fatti, schiacciati su posizioni predefinite. Siano esse ciniche “è così e così deve andare”, o normative-astratte e moraliste: ineffettuali e, alla fin fine, funzionali allo status quo. Eppure l’urgenza è evidente: la democrazia sta morendo, forse è già morta e siamo al suo ultimo atto. Carlo Galli, certo, non poteva scegliere un titolo migliore per trasmettere il senso di urgenza, di fragilità e di chiamata all’impegno. Non c’è quasi più tempo: è l’ultima, più recente crisi della democrazia o è il suo tramonto, il finale del dramma?
Il metodo magistrale di Galli è storico-genealogico: dialettico, attiva anche la radicalità del pensiero negativo. Si fa carico totalmente della contingenza, focalizzando discontinuità e persistenze, sempre contestualizzate. Una storicità dunque non storicista, ma radicale e come tale inevitabilmente geostorica e geopolitica.
La storia non va di moda – al massimo la si evoca per farne un tribunale funzionale alla retorica, falsandola, dunque, e piegandola a piacimento.
Galli ci dice che è ora di riprenderla sul serio, assumendo quel pensiero non analitico e astratto ma dialettico che solo – mettendo in gioco tempi e spazi – rende tangibile appunto la contingenza della democrazia (dice Galli: non è un destino…), la sua fragilità, ma anche la sua modificabilità.
Nel libro, la democrazia, dramatis persona della rappresentazione, è un soggetto concreto e dei soggetti concreti ha le opacità, le contraddizioni, gli aggiustamenti compromissori che solo in funzione retorica – in un presente a-critico – possono essere negati. La democrazia è stata sempre, concretamente, un gioco di equilibrio, di volta per volta diverso, tra i tre principi libertà, uguaglianza e trasparenza che la sostanziano. Quest’ultima è intesa qui come l’esigenza della ragione umana di comprendere e controllare il mondo che costruisce.
Il primo guadagno dello sguardo geostorico è l’innesto della democrazia nella modernità. Della modernità, la democrazia ha l’energia volontaristica-umanistica, la progettualità emancipativa. Ma anche le aporie, che ineriscono al moderno e sono ineludibili. Ci torneremo. La democrazia non le risolve: è piuttosto impegno a gestirle più democraticamente possibile.
Specifico guadagno dell’ottica geopolitica è la – necessaria e urgentissima – spazializzazione del concetto: l’Occidente, parte minoritaria che si presume portatrice del Nomos universale del mondo intero.
Quella che oggi, nel nostro Occidente, chiamiamo democrazia tout court – la liberaldemocrazia, con il balance of powers, il costituzionalismo che limita il potere attraverso l’assoluta priorità dei diritti individuali – è una fattispecie storica, che si afferma in Europa, per importazione,nel 1945 con lo sbarco in Normandia. Si tratta evidentemente di un’affermazione un po’ brutale, drastica e dunque polemica, che volutamente mette in ombra il contributo della resistenza partigiana. Funzionale soprattutto a riconoscere la marginalità della vecchia Europa, ideologicamente, oltre che economicamente, politicamente e militarmente, dipendente dagli Usa. Il che, può dispiacere quanti si sentono ancora la culla della civiltà e della democrazia.
In realtà la crudezza realistica (che guarda alla conclusione atlantica piuttosto che al contributo resistenziale pur decisivo per il varo della costituzione, ma scarsamente pesante nell’ideologia liberal-democratica che forgia il consenso di massa al way of life americano) è, a mio avviso, funzionale alla possibilità di distanza critica e quindi di rivedibilità del modello importato. Realismo critico.
Il dono americano ha più di un prezzo: innanzitutto la dipendenza geopolitica sottrae alla dinamica democratica un pieno controllo dello spazio statale interno che pure sarebbe il suo spazio di effettività. E poi marca un limite originario a quello che da allora può essere legittimamente chiamato democrazia. NON sono democratiche le democrazie popolari e comuniste, (peraltro a loro volta oscurate da contraddizioni e derive autoritarie), le quali, tutte, vengono in modo semplificatorio, sussunte sotto l’etichetta del totalitarismo insieme al fascismo. E poiché quest’ultimo sembra sconfitto, diventano l’unico e residuale emblema del Male. Mentre il Bene, il Nomos che deve diffondersi e imporsi, con le buone o le cattive, ai rimanenti sei o sette miliardi di persone, è, ovviamente la liberaldemocrazia occidentale.
In realtà questo modello è alla continua ricerca di un instabile equilibrio tra stato e società civile, politica ed economia, prevalenza di classe e diritto ugualitario. Anche se, al principio, diritto e politica non coincidono ancora del tutto con gli interessi e le istituzioni del mercato.
Il suo apice sono gli anni postbellici dello Stato sociale – (sempre, per Galli, sotto l’ombrello Usa che esonera i paesi della Nato da impegni militari)- fase ‘gloriosa’ di compromesso social-democratico, centripeto e statale. Riesce, infatti, a mediare l’ingresso delle masse a pieno titolo, attraverso il lavoro, organizzato sindacalmente, e il capitalismo fordista contrattato con l’interventismo materiale-amministrativo dello Stato: l’insieme è funzionale alla crescita collettiva e al vivace dibattito pubblico, con partiti che organizzano una partecipazione conflittuale e una cultura non omologata.
Questa democrazia entra in crisi con la fine degli accordi di Bretton Wood 1971 che ponevano la moneta sotto il controllo politico degli stati, rendendo possibili le politiche economiche. Ancora una volta dunque un evento geopolitico-geoeconomico irrompe in modo determinante nello spazio democratico facendo deragliare le coordinate che potevano controllarlo.
Da allora dilaga la deregulation finanziaria e si prepara una nuova forma – assai più problematica – di democrazia, quella liberista.Niente sembra cambiare, nell’assetto istituzionale – al solito, non c’è nessuna rivoluzione – ma la prevalenza del finanz- capitalismo piega lo stato alle sue dinamiche autoreferenziali.
L’evento simbolico questa volta è il 1989 la caduta del muro e poi nel 1991, dell’Urss. L’Occidente dilaga e si crede mondo. Il presunto e sbandierato spazio liscio della globalizzazione dovrebbe superare le opache contese della geopolitica, ma in realtà è attraversato dalla competizione economica macroregionale che vede arretrare il predominio degli Usa. Spazio disseminato di interventi preventivi, polizieschi, guerre umanitarie in nome della democrazia ma in realtà assolutamente imperiali. Un mondo, ci dice Galli, gerarchizzato tra chi possiede i capitali, chi le materie prime, chi le tecnologie, chi la mano d’opera.
Galli insiste giustamente sullo spegnersi delle voci critiche, sia per l’ambivalenza dell’ideologia neoliberale che esalta l’autonomia individuale orientandola però in senso proprietario, narcisistico, sia soprattutto per l’assunzione da parte della sinistra del core business del neoliberalismo. E’ il segnale dell’automatismo del pensiero unico, senza alternative. L’opposto dello scarto critico.
In questa rivoluzione passiva liberista, ormai postdemocratica, le contraddizioni non sono solo evidenti: sono legittimate! La disuguaglianza diventa un valore, la libertà è un individualismo anti-sociale, e la trasparenza è travolta da automatismi: le forze acefale della finanza e dei mercati trascendono il controllo e sono presentate come inevitabili, senza alternative
Quando, a partire dal 2008, esplode una sequenza incalzante di crisi – tutte planetarie e geopolitiche: finanziarie, sanitarie, militari e ecologiche – la post-democrazia liberista entra in crisi. E siamo ad oggi.
E’ il ritorno del politico, dello Stato, ma non sotto il segno della democrazia, piuttosto sotto quello fragoroso del populismo. Il populismo è certamente incluso nella fenomenologia democratica nella misura in cui popolo, stato e autonomia normativa, sono compatibili con i suoi principi.
Ma ha anime diverse: il politico dovrebbe essere l’eccedenza delle decisioni rispetto agli automatismi finanziari, al governo acefalo che si autoregola spontaneamente….
Quello di sinistra però spesso si blocca sul risentimento, quello di destra, dominante e sovranista, mette lo stato a servizio del liberismo anti-sociale e indirizza la rabbia, lo scontento, la paura, contro quelli che hanno identità diverse, più deboli. E’, dunque, infrasistemico, l’altra faccia del liberismo imperante.
Quali sono gli interrogativi che il libro stimola?
Potremmo concentrarci sulle tre opacità – la tecnica, l’emergenza, la guerra – che Galli presenta – ed è cosa utilissima – come non eliminabili. Esse ineriscono al moderno fin dall’inizio. Incompatibili, in linea di principio, con la democrazia, nei fatti, la democrazia le ha concretamente gestite con maggiore o minore successo, cercando di non esserne sopraffatta.
Della tecnica, è innegabile riconoscere l’attuale, inedita pervasività, oggi. Ma la tecnica – al di là di esaltazioni e demonizzazioni – è la postura attiva dei viventi verso il mondo, che cresce ovviamente, nel moderno. Il nodo problematico è piuttosto l’apparente semovenza, automatica, auto-apprendente, che svuota il lavoro della sua dimensione umanistica di mediazione tra uomo e natura.
Se la politica fosse, come oggi si vuole, solo problem solving, la tecnica si accrediterebbe come soluzione: vedi il pilota automatico di Draghi citato da Galli.
Ma questa apoliticità è apparente: c’è sempre qualcuno che finanzia, organizza e utilizza la profilazione e le standardizzazioni basate su algoritmi, e questo qualcuno fa politica. E la fa proprio riducendo la complessità, oscurando l’eccedenza, che è esattamente lo scarto soggettivo su cui fa leva una politica critica. Ma come restituire consapevolezza di sé ad un soggetto passivizzato, come restituire l’autos, lo scarto soggettivo, all’automaton, standardizzato degli algoritmi? Sarebbe la classica funzione degli intellettuali critici. Ma, se ci fossero e fossero in numero adeguato, sembra difficile che riescano a far sentire la loro voce nell’ubriacatura mediatica, se la voce non è supportata da ‘partiti’, o organizzazioni che convoglino le proteste e le domande. E ci chiediamo: se – come auspica lo stesso Galli (pag 97), dobbiamo praticare una strategia di trasformazione sistemica – che tipo di domande sociali questi intellettuali devono stimolare: una domanda democratica o, usando la terminologia di Laclau, populista? Chiamo democratica la domanda che il sistema può gestire e populista quella non può essere soddisfatta e che mira in realtà a far emergere la insoddisfazione radicale verso il sistema.
A proposito dell’emergenza, la genealogia della tensione ordine/disordine, norma razionale/decisione arazionale evidenzia magistralmente il nodo interno aporetico del moderno, che resta ineludibile e, peraltro, richiama la centralità di un politico che non sia solo service des biens. Se, però, la politica, oggi, non è ripristinare un ordine, ma cavalcare l’emergenza che diventa il terreno stesso del governo, è possibile spezzare nella psiche collettiva, il nodo che la lega alla paura, autorizzando così il controllo repressivo?
Infine. Con lucidità, ma senza cinismo, il realismo critico di Galli si fa carico della guerra, questa ombra, la più fitta di tutte e oggi la più tragica: la possibilità che sempre si ripresenta con i suoi strascichi dolorosi e le sue non-soluzioni: guerre eternamente sospese, dove non c’è una chiara fine-conflitto.
La guerra è costante, ma non destinale: come invece sembra essere oggi nel suo inquietante dilagare come prassi risolutiva delle crisi planetarie.
Condivido pienamente la durissima critica al riduzionismo moralistico e retorico che rende manichei e incomponibili gli scontri, privandoli della complessità storica e realistica delle interdipendenze geopolitiche che permetterebbero negoziazioni pragmatiche. Mi chiedo anche se, nella inevitabile piega identitaria dell’attuale effervescenza bellica e delle stesse democrazie, non ci sia stata una troppo precipitosa e superficiale liquidazione liberista-economica dell’identitario: la svalutazione tipicamente occidentale e pseudo illuminata dell’elemento mitico e comunitario, enfatizzata a parole dalla destra (e tradita peraltro dalla sua faccia neoliberista) ma fantasma della versione proceduralista (e illuminista) della stessa egaliberté?
Dopo il percorso nel quale Galli ci ha guidato e dunque dopo aver assodato la strutturale interdipendenza geopolitica della democrazia oggi, non possiamo non essere consapevoli sia della fallimentare (oltre che abusiva) pretesa di democratizzare il mondo, sia della necessità di spazi almeno relativamente circoscritti per costruire una democrazia come autogoverno e gestione del conflitto tra le parti entro regole e principi costituzionali. Ci chiediamo, allora, che senso possa avere ribadire la nostra appartenenza a schieramenti autodefiniti democratici quando pochi giorni fa gli Usa bloccano la delibera sul cessate il fuoco a Gaza? Non dovremmo immaginare fronti trasversali per una democrazia politica?
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