Il nuovo piano pandemico: non basta lo spartito, serve anche un’orchestra con gli strumenti giusti
di SCIENZA IN RETE (Stefania Salmaso)
La bozza del Piano strategico operativo di preparazione e risposta a una pandemia da patogeni a trasmissione respiratoria a maggiore potenziale pandemico 2024-2028 ha il merito di enunciare molti principi su cosa fare per prepararsi e reagire a un evento pandemico. Ma non risponde ad alcune domande chiave: Cosa ci ha insegnato la pandemia di Covid-19? E cosa ha ostacolato una risposta efficace e tempestiva? Come possiamo rimuovere gli ostacoli? Se alle Regioni è richiesto di redigere piani operativi per salvaguardare la salute delle persone, dobbiamo anche metterle in grado di operare correttamente, in modo sinergico e valutabile.
Dopo la pandemia, una delle domande più frequenti che vengono poste agli esperti di turno è: «Che cosa ci ha insegnato la pandemia?». La risposta, al di là del dovuto riconoscimento dell’impegno individuale e spesso eroico dei nostri sanitari, è complessa, perché la pandemia ha esacerbato, aggiungendo l’emergenza come fattore di amplificazione, problemi del nostro sistema sanitario che hanno ostacolato una risposta efficace se non efficiente. Perciò l’insegnamento più importante in realtà non è sugli aspetti delle infezioni, ma sui molti punti critici del sistema sanitario.
Per questo, se qualcuno può pensare che un documento programmatico come la bozza di piano di risposta a una pandemia sia un affare settoriale di chi si occupa di malattie infettive, si sbaglia. I problemi che hanno dovuto affrontare gli operatori sanitari per contrastare la pandemia sono problemi sistemici, trasversali a tutte le aree della salute e come tali in un piano che si definisce strategico e operativo dovrebbero essere affrontati e risolti a livello centrale.
Fermo restando il sacrosanto problema delle risorse, già sollevato anche altrove, e che è tanto banale quanto importante, ci sono altri aspetti che necessitano da tempo di soluzioni e non saremo mai più bravi ad affrontare una prossima pandemia se non saranno risolti.
Un sistema informativo che non si parla
La mancanza di interoperabilità dei sistemi informativi, a livello sia locale che nazionale, è stata per esempio un enorme problema. Ogni azienda sanitaria ha moltissime informazioni sui propri assistiti, raccolte spesso per scopi amministrativi, ma preziose per orientare interventi di sanità pubblica. La variabilità dei modi in cui queste informazioni vengono registrate nei diversi settori della stessa azienda e le difficoltà di accesso ai dati, purtroppo, rendono le informazioni non utilizzabili in modo tempestivo e standardizzato. Anzi, addirittura non tutti gli operatori di una stessa azienda sono consapevoli della presenza di queste fonti di informazione e della loro potenziale utilità per scopi diversi da quelli per cui sono state costruite.
Durante la pandemia abbiamo assistito a un classico esempio di sindemia (termine che ora non sembra più in voga): sono più suscettibili all’infezione e alle sue peggiori conseguenze le persone che soffrono di malattie croniche importanti. Quando si è trattato quindi di offrire una prevenzione mirata, come specifiche raccomandazioni di comportamento o la vaccinazione, l’azienda sanitaria raramente è riuscita a utilizzare tutte le informazioni che aveva a disposizione per definire il bacino di utenza e i contesti maggiormente a rischio, le dimensioni della popolazione target e a prevedere le richieste di assistenza sanitaria che si sarebbero rese necessarie a vari livelli, nonché le risorse per rispondere adeguatamente. Questo perché i tanti e diversi sistemi disponibili non sono stati realizzati tenendo presenti caratteristiche comuni (standard), protocolli di gestione, tecnologie che permettono il passaggio automatico di informazioni da un sistema all’altro, per esempio tra la registrazione di disabilità o patologie croniche e un risultato di laboratorio di microbiologia o una notifica di infezione o una vaccinazione. Anche per attività messe in piedi ad hoc per la pandemia, come il rintracciamento dei contatti delle persone infette, ogni Regione, ma spesso ogni struttura sanitaria, ha realizzato, nell’urgenza, sistemi in proprio che non si sono rivelati quindi utilizzabili immediatamente da altri interlocutori e che spesso si sono basati sulle sole informazioni raccolte dal paziente e registrate in modi diversi. Sistemi che non hanno previsto la produzione di risultati analizzabili e che quindi rendono impossibile qualsiasi valutazione di effetto dell’attività.
È ovvio se che si usano sistemi che non riescono a parlare tra loro ci vorranno più tempo e più persone (ossia risorse) per mettere insieme le informazioni necessarie ad agire (cosa che nell’emergenza è critica); ma, soprattutto, nella gestione ordinaria della sanità manca la possibilità di ottenere informazioni di buona qualità provenienti da incroci e verifiche tra sistemi diversi. Indipendentemente dalla pandemia, alcune Regioni si sono attrezzate in autonomia per creare delle piattaforme su cui transitano i dati dei propri assistiti in modo standardizzato e in alcuni casi interoperabile, ma nella migliore delle ipotesi, in assenza di standard codificati a livello nazionale, ogni Regione ha realizzato le proprie piattaforme senza dare priorità (che nessuno ha richiesto) alla possibilità di interfacciarsi in modo automatico con altri sistemi.
Un piano di preparazione e risposta alla pandemia dovrebbe indicare quali fonti di dati utilizzare per caratterizzare la popolazione da raggiungere e come analizzarne gli aspetti rilevanti per la risposta, quali per esempio la distribuzione sul territorio e la prevalenza di condizioni di rischio, permettendo la costruzione nel periodo interpandemico di una mappa anche molto dettagliata delle situazioni su cui intervenire in modo prioritario quando opportuno.
Quei dati di mortalità…
Se il problema dell’interoperabilità dei sistemi in uno stesso ambito sanitario ci sembra scontato, è opportuno fare mente locale anche sulla necessità, per chi si occupa di salute della popolazione, di avere accesso tempestivo anche ad altre informazioni che invece viaggiano al di fuori del sistema sanitario. La più importante è certamente quella sui decessi, che sono registrati dai certificati di morte raccolti dalle anagrafi, e codificati secondo regole precise e per lo più automatiche, presso Istat. Questo significa che chi si occupa della salute di un gruppo di popolazione, non ha accesso tempestivo ai dati sullo stato in vita dei propri assistiti e alle cause di morte registrate. Con un impegno aggiuntivo rispetto all’ordinario, durante la passata emergenza si è realizzato un sistema ad hoc per intercettare questi dati, solamente riferiti ai pazienti con infezione diagnosticata e notificata. A quel punto qualcuno si è chiesto se il numero di decessi registrati e riportati quotidianamente descrivesse i decessi per Covid o i decessi con Covid… Il dibattito è stato abbastanza acceso, e addirittura uno studio dell’Istituto superiore di sanità ha cercato di dirimere la questione mettendosi a rivedere le cartelle cliniche di un campione di pazienti, anche se le conclusioni basate sulle singole storie cliniche non hanno alterato le codifiche dei certificati già redatti e quindi la casistica ufficiale. La discussione era alimentata certamente dal desiderio di collocare l’impatto di Covid come causa di morte in una giusta dimensione, ma per chiarire l’importanza relativa della pandemia come causa di morte è necessario disporre di tutta la mortalità in quel periodo e valutare le proporzioni delle singole cause registrate. L’esercizio non è stato possibile se non mesi dopo e tutto sommato c’è da chiedersi quanto rilevante sia stata la discussione, quando durante la pandemia il numero di decessi è aumentato tanto che la speranza di vita in Italia è calata di 1,2 anni. È difficile pensare che l’aumento di mortalità non sia attribuibile direttamente o indirettamente alla pandemia.
Un piano di preparazione e risposta alla pandemia dovrebbe prevedere come accedere rapidamente a dati rilevanti gestiti al di fuori del servizio sanitario, come la mortalità, per valutare immediatamente gli ambiti in cui l’assistenza sanitaria può salvare vite.
Come conciliare privacy e salute?
Ma il nodo da sciogliere più grande di tutti è quello dei vincoli (veri o falsi) posti dalle norme sulla confidenzialità dei dati, GPDR, il regolamento generale sulla protezione dei dati personali. La norma è europea e tra le intenzioni dichiarate alla sua origine c’era non solo la protezione dei dati personali, ma anche la definizione di standard per la libera circolazione di dati all’interno dell’Unione Europea. La legge con cui la norma è stata recepita in Italia viene attualmente chiamata in causa come fattore principale per ostacolare la connessione, l’incrocio tra diverse fonti di dati e per la definizione di profili individuali di rischio sanitario, attività fondamentali per la preparazione e risposta a un evento pandemico.
Un piano strategico e operativo di risposta alla pandemia dovrebbe chiarire quale azione sia legittima o no, indicando punti critici e soluzioni che le Regioni e le aziende sanitarie possono adottare.
Quale ruolo per l’epidemiologia?
Durante la pandemia l’epidemiologia si è dimostrata una disciplina fondamentale per costruire scenari di diffusione dell’infezione, di impatto sulle strutture sanitarie, di indagine sui fattori di rischio individuali e sulle condizioni ambientali e lavorative con maggiore probabilità di trasmissione. L’epidemiologia ha fornito strumenti di indagine anche sul campo (per esempio su focolai epidemici) e indicazioni da utilizzare per le decisioni di sanità pubblica. Eppure le competenze epidemiologiche non sono riconosciute come essenziali per l’attività di prevenzione e controllo anche di eventi pandemici, né si cerca di promuovere il riconoscimento e la definizione di “livelli essenziali di epidemiologia” in ogni struttura sanitaria.
Tra le principali funzioni epidemiologiche che dovrebbero essere disponibili in ogni azienda sanitaria citiamo la capacità di sorvegliare lo stato di salute della popolazione ( e quindi identificare precocemente situazioni fuori dall’ordinario all’inizio di quella che potrebbe essere una pandemia), la capacità di indagare episodi e focolai epidemici, la stima dei bisogni di assistenza, la valutazione della distribuzione dei determinanti individuali e collettivi della salute, la capacità di ragionare sul ruolo di determinate esposizioni e sui fattori che confondono l’analisi ma concorrono alla variazione dello stato di salute, la valutazione di efficacia degli interventi sanitari e dei modelli organizzativi di erogazione.
Un piano di preparazione e risposta alla pandemia dovrebbe indicare quali competenze sono irrinunciabili per la gestione efficace di un evento pandemico e quali livelli essenziali di epidemiologia debbano essere rispettati nelle singole aziende sanitarie e Regioni.
La bozza di “Piano strategico operativo di preparazione e risposta a una pandemia da patogeni a trasmissione respiratoria a maggiore potenziale pandemico 2024-2028” è un corposo documento di (226 pagine) che ha il merito di enunciare molti principi e avere menzionato i molti documenti nazionali e internazionali riguardo a cosa si dovrebbe fare per prepararsi e reagire a un evento pandemico, ma non risponde alla domanda iniziale su che cosa abbiamo imparato e su cosa ha ostacolato una risposta efficace e tempestiva, né delinea una strategia con cui questi ostacoli debbano essere rimossi. Se alle Regioni viene richiesto di redigere piani operativi per salvaguardare la salute dei propri assistiti, è anche da riconoscere come sia importante metterle in grado di operare correttamente, in modo sinergico e valutabile.
Un piano pandemico è come uno spartito per un’orchestra in cui ogni musicista ha il proprio spartito, ma deve poter contare anche sullo strumento da suonare per poter concorrere in modo armonico al risultato finale.
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