I guardiani della memoria e la crisi della democrazia
di GLI ASINI (Valentina Pisanty)
Da più di vent’anni la memoria della Shoah ha contribuito a riempire il vuoto lasciato dalla crisi delle grandi utopie rivoluzionarie del Novecento; utopie il cui schema narrativo si fondava sulla storia eroica dell’emancipazione degli Oppressi dagli Oppressori. Diventando egemonica, la narrazione “vittimo-centrica” dell’Olocausto (e di altri eventi traumatici che ricalcano quel modello narrativo) ha spinto ai margini il paradigma rivoluzionario e ha conquistato il cuore della coscienza occidentale, come racconto ammonitore delle catastrofi dalle cui ceneri è sorta l’Europa del dopoguerra. Ma che tipo di identità può ricavare i suoi valori democratici dalla promessa solenne “Mai Più”? Un’identità che nega il conflitto come uno dei rapporti umani primari e costitutivi. Non è peraltro chiaro a cosa si riferisca il “Mai Più”. Alla guerra in quanto tale? All’antisemitismo tout court o alla persecuzione di qualsiasi minoranza stigmatizzata? Allo sterminio su scala industriale o a qualsiasi altra forma di discriminazione?
Come che sia, l’equazione Per Non Dimenticare = Mai Più è talmente radicata nel senso comune che a pochi viene in mente di metterla in dubbio. Eppure le smentite non mancano. Violenze razziste in crescita esponenziale, parate di simboli fascisti, diffusione dell’odio on- e offline, partiti xenofobi al potere, e ora la guerra. Perché facciamo così fatica a prendere atto che qualcosa non ha funzionato? La riluttanza ad ammettere il fallimento delle politiche della memoria è sintomatica di un principio di autoritarismo che si è insinuato nelle pieghe della retorica e delle politiche della memoria, spesso a insaputa di chi le pratica.
Chi si identifica con il pensiero liberal-democratico è abituato ad associare lo stile autoritario ai partiti di estrema destra, dove è consueto l’appello a dogmi indiscutibili calati dall’alto. Ma una forma più sottile di dogmatismo si annida anche nelle politiche della memoria tramite le quali le odierne democrazie liberali si legittimano agli occhi dell’opinione pubblica. Il paradosso è che proprio la Memoria della Shoah, eletta a simbolo supremo dei valori democratici, venga promossa attraverso procedure che potremmo definire autoritarie. Esaminiamone quattro: 1) La feticizzazione della testimonianza come unico genere di discorso autorevole; 2) La privatizzazione della storia come patrimonio da spendere sulla scena pubblica; 3) L’appropriazione del lessico dell’Olocausto da parte di soggetti interessati ad ammantare di universalità le proprie ragioni di parte; 4) L’uso politico del diritto penale come barriera protettiva contro i teppisti della memoria.
Feticizzazione della testimonianza
Da quando alle vittime sopravvissute ai lager è stata attribuita un’inedita funzione esemplare da una cultura occidentale sempre più incline a riconoscere il ricordo della Shoah come proprio baricentro morale, i testimoni sopravvissuti alla Shoah (e ad altri grandi traumi storici del Novecento) si sono trovati a svolgere un compito che trascende il normale travaso di conoscenze di cui è fatta la continuità di ogni cultura. Lo rivelano con qualche imbarazzo gli storici che, trovandosi spesso a parlare accanto ai testimoni durante le commemorazioni ufficiali, sentono di non avere facoltà di correggerne in pubblico gli eventuali errori fattuali. Il testimone-sopravvissuto “ha sempre ragione”.
(Nota bene: salvo eccezioni, i testimoni si guardano bene dall’arrogarsi un tale privilegio. Solitamente sono attenti a sottolineare la soggettività, e dunque la parzialità e la potenziale fallibilità dei propri ricordi. Sono gli altri – le istituzioni, i media, noi – ad attribuire un valore quasi religioso alle loro parole, come se il fatto di essere stati “lì”, nei luoghi del trauma, li mettesse al riparo da qualsiasi tentativo di confutazione).
Ne deriva una graduale ma inesorabile delegittimazione del metodo scientifico-storico come principio di selezione delle ricostruzioni più adatte. Al suo posto si insedia un principio di autorità (“ci credo perché lo dice lui o lei”), tale da scoraggiare qualsiasi supplemento di indagine circa la attendibilità della testimonianza. I non-testimoni che desiderano assolvere il “dovere della memoria” sono tenuti a empatizzare con la sofferenza delle vittime fino a identificarsi totalmente con le loro rivendicazioni passate e presenti. Siamo tutti Anna Frank, o chiunque si trovi in quella posizione enunciativa. Una posizione discorsivamente desiderabile (sebbene storicamente molto indesiderabile: nessuno vorrebbe essere vittima per davvero), in quanto esenta chi la occupa dall’obbligo di argomentare la sua visione del mondo sulla scorta di evidenze e di criteri pubblicamente condivisi, e dunque contestabili.
Quali sono le conseguenze di questa trasformazione simbolica?
In un regime di verità prevalentemente narrativo, imperniato sul dogma dell’infallibilità del testimone, ognuno si fida ciecamente del narratore a cui ha delegato una sorta di capacità divinatoria di discriminare il vero dal falso. Alla lunga, la comunità disimpara a esercitare il giudizio perché le uniche storie degne di fiducia sono quelle che confermano le credenze già fissate a priori dalle proprie fonti di riferimento, mentre i racconti degli altri vanno ritenuti falsi a prescindere.
Di qui, la delega ai Guardiani della Memoria: persone, associazioni o istituzioni preposte a parlare a nome delle vittime e ad amministrare le pratiche commemorative idonee. È naturale che se ne avverta il bisogno in un contesto di competizione selvaggia tra narrazioni particolari che aspirano al riconoscimento universale, in assenza di un luogo altro e indipendente (per quanto ideale) a cui riferirsi per soppesare la credibilità relativa di ciascuna. L’autorità carismatica dei Guardiani sostituisce il progetto illuministico di una diffusa consapevolezza critica di cui il metodo della corretta argomentazione dovrebbe essere il principale garante. Non ci si sorprenda se a un certo punto il principio di autorità viene brandito da chi, con maggiore coerenza storica, lo impiega per promuovere i propri interessi costi quel che costi (whatever it takes): America first, l’Italia agli italiani, l’Ungheria agli ungheresi, l’Ucraina come la culla della Russia, eccetera.
Privatizzazione della storia
Le aporie della “memoria cosmopolita” si annidano nel contrasto tra la presunta universalità del nucleo narrativo e l’inevitabile specificità degli usi che se ne fanno. La memoria semplicemente non può essere universale. È sempre strumentale agli interessi e alla sensibilità di chi in quel momento ne controlla i formati. Uno dei tratti distintivi della memoria – sia individuale, sia collettiva – è il fatto di essere sempre di qualcuno che la considera come la propria emanazione e perciò ritiene di poterne fare l’uso che vuole. Ecco perché, perfino nel caso in cui qualcuno rammenti male un evento a cui ha partecipato in prima persona, nessuno potrà mai spossessarlo di quel ricordo, per imperfetto che sia.
Ora, se la piena titolarità del soggetto è incontestabile nel caso della memoria individuale, la faccenda si fa più complicata in rapporto alla memoria collettiva. Parlare della “nostra memoria” implica che tutti gli individui facenti capo al “noi” condividano le stesse tracce mnestiche riferite agli stessi eventi. Mettersi d’accordo sulla rappresentazione più adeguata degli eventi è di per sé un’impresa problematica. Chi decide quali episodi vanno inclusi o omessi, quali dettagli meritano di essere enfatizzati, quali rapporti di causa ed effetto vanno istituiti, quali interpretazioni sollecitate, quali punti di vista privilegiati…? A chi spetta l’ultima parola nel caso in cui le versioni non collimino?
Chi riporta le rappresentazioni del passato sul piano esclusivo della Memoria in qualche misura disconosce il carattere pubblico della Storia. Il problema non è tanto stabilire come sono andate veramente le cose, e neppure in quanti modi diversi gli stessi eventi si prestano a essere raccontati, quanto rivendicare i diritti, la priorità del proprio punto di vista in rapporto a quegli eventi. C’è una prospettiva che prevale d’ufficio sulle altre. Il patrimonio da preservare è il ricordo inalienabile di un’esperienza che nessuna ricostruzione storica potrà mai svuotare dei suoi contenuti soggettivi.
Ecco il problema. Laddove il nocciolo di ogni discorso universale è Questo vale per tutti, il punto di ogni memoria è Questo l’ho vissuto solo io. Combinati insieme, i due concetti producono una strana dissonanza cognitiva: Questo l’ho vissuto solo io e quindi vale per tutti. Ovvero: proprio perché la mia esperienza (o quella del mio gruppo) è solo mia, proprio perché sono l’unica titolare della mia (della nostra) memoria, insindacabile da parte di voialtri che non c’eravate, le rivendicazioni particolari che avanzo sulla scorta di quell’esperienza e di quella memoria vanno riconosciute universalmente. Da questa contraddizione non si esce, come dimostrano le infinite dispute che si scatenano attorno alla titolarità e al controllo della memoria (ogni paese ha le sue).
Appropriazione del lessico dell’Olocausto
Oggi siamo abituati a considerare il ricordo dello sterminio come la pietra miliare della coscienza europea. Così abituati che rimaniamo stupiti quando qualcuno ci spiega che l’“europeizzazione dell’Olocausto” è in effetti una questione piuttosto recente. Il processo ebbe inizio negli anni novanta, poco dopo la caduta del Muro di Berlino, man mano che i paesi ex-comunisti entrarono nella sfera di influenza della NATO e fecero domanda per essere ammessi in Europa.
Il ragionamento era semplice – troppo semplice. Posto che, come hanno messo in luce psicologi e scienziati sociali, l’identità è un costrutto narrativo; e posto che anche le cosiddette identità nazionali sono frutto di pianificati processi di storytelling che selezionano, plasmano e ricombinano le memorie locali, perché non rompere il contenitore delle memorie nazionali e diffondere una narrazione generale e de-territorializzata, svuotata dei suoi contenuti storici più specifici, capace di aggregare i pezzi migliori di un’Europa in cerca di identità? Un’Europa paladina dei diritti umani che, sulla falsariga dell’American Dream, avrebbe dovuto essere multietnica, tollerante e accogliente.
In realtà, a ben vedere, la Memoria dell’Olocausto – e degli altri totalitarismi del XX secolo – è servita a un altro scopo: ha riempito il vuoto culturale lasciato dalla fine delle grandi ideologie rivoluzionarie – fascismo e comunismo – del Novecento. La pretesa, negli anni ‘90, di lasciarsi alle spalle ogni ideologia era però a sua volta ideologica. La Memoria dell’Olocausto è diventata la bandiera delle democrazie liberali e dell’idea che al liberalismo There Is No Alternative.
Ciò che non era stato previsto era l’estrema adattabilità dello schema olocaustico agli usi che i diversi paesi avrebbero scelto di farne in funzione delle proprie autonarrazioni specifiche: celebrare la nazione risorta dalle ceneri (Israele), chiamarsi fuori dalle fasi peggiori dello sterminio (Italia e Francia), esaltare il proprio ruolo di liberatori (USA e Gran Bretagna).
Con l’ingresso dei paesi ex comunisti nella sfera di influenza europea, la narrazione egemone ha subito ulteriori aggiustamenti. Il modello cosmopolita pensato per raccogliere l’Europa attorno a un’unica memoria antitotalitaria ha paradossalmente incoraggiato una moltiplicazione di memorie locali, ciascuna tesa a enfatizzare gli episodi in cui la vittimizzazione della specifica comunità commemorante risultava più evidente, pur mantenendo costante il calco dell’Olocausto come schema retorico-narrativo di riferimento.
Così, per esempio, a partire dagli anni ottanta la memoria della grande carestia abbattutasi in Ucraina tra il 1929 e il 1933 è stata inquadrata sotto il profilo dei crimini contro l’umanità in ragione del ruolo giocato dall’Unione Sovietica nel provocare le condizioni che condussero alla morte per fame di milioni di persone. Tuttavia, la richiesta di riconoscimento si accompagna talvolta a una assai più discutibile interpretazione cospirazionista riguardo alle ragioni dell’indifferenza mondiale per la catastrofe ucraina.
Dal consueto meccanismo della competizione vittimaria (perché gli ebrei sì e noi no?) riemergono antichi e mai sopiti pregiudizi antiebraici. Lo stesso retroterra che aveva animato i numerosi pogrom ucraini (il più sanguinoso a Kiev nel 1919) e la collaborazione con gli Einsatzgruppen nazisti tra il 1941 e il 1944. E che, nel gennaio 2019, ha portato il parlamento di Kiev a istituire una giornata commemorativa per celebrare le imprese di Stepan Bandera. La propaganda nazionalista degli anni ottanta non solo negava o minimizzava le violenze storiche perpetrate in Ucraina a danno delle comunità ebraiche, ma in alcuni casi riesumava i peggiori stereotipi antisemiti per imputare agli “ebrei sionisti” – identificati con i bolscevichi – sia la carestia del 1932-33, sia la sua colpevole cancellazione dalla memoria collettiva.
Siamo così passati a un altro tipo di appropriazione: lo sfruttamento dell’Olocausto come forma narrativa vuota nella quale qualunque attore sociale – perfino gli antisemiti – si può insediare per rappresentarsi nel ruolo di vittima, come tale meritevole di indennizzi e immunità speciali. Non si tratta solo di rivendicare i torti storici subiti come motivo di orgoglio identitario e, come è già successo in passato, considerare la memoria come uno strumento utile al perseguimento di obiettivi politici di per sé legittimi (la sopravvivenza di uno stato, la rigenerazione di una comunità, l’emancipazione di un gruppo oppresso…). In alcuni casi il ricorso alla memoria delle vittime serve ad ammantare progetti di autoaffermazione, soppressione del dissenso ed egemonia aggressiva.
Uso politico del diritto penale come barriera protettiva contro i teppisti della memoria
A proposito di soppressione del dissenso, l’aspetto in cui sono più evidenti le derive autoritarie delle politiche della memoria è quello relativo alle leggi anti-negazioniste (in vigore in Italia dal 2016). È da anni che la maggior parte degli storici si oppone a questa ingerenza della politica in campi che non le dovrebbero competere. Questo non ha impedito la promulgazione della legge quadro europea del 2008 che raccomanda a tutti gli stati membri dell’Unione di munirsi di leggi che criminalizzino la negazione e la grossolana minimizzazione dei crimini nazifascisti (e, per estensione, di quelli comunisti).
Non solo le leggi antinegazioniste sono antidemocratiche (in quanto conflittuali col principio della libertà di espressione), ma oltretutto producono effetti opposti a quelli sperati. È dimostrato che ogni volta che queste leggi sono state applicate, il negazionismo ha subito un’impennata di visibilità. Fin dal caso Faurisson del 1978-79, i negazionisti si sono sempre avvalsi della censura come strumento di proselitismo. Le leggi anti-negazioniste sono una minaccia di gran lunga superiore a quella che pretendono di combattere, ma che invece contribuiscono ad alimentare. Perché, allora, ci sono molte persone che tuttora insistono sulla loro necessità? Al di là degli scopi dichiarati, viene da pensare che la criminalizzazione del negazionismo persegua anche ulteriori obiettivi latenti, funzionali a un’agenda diversa rispetto a quella solitamente evocata.
In uno studio comparativo sul reato di negazionismo in Europa (Memory and Punishment, Asser Press, 2017), Emanuela Fronza inquadra le leggi della memoria in una tendenza sempre più diffusa a limitare la libertà di espressione, ovvero a moltiplicare i reati di opinione, in nome di altri valori (dichiarati democratici) come la sicurezza, la pace pubblica o la tutela delle identità collettive.
Sotto questo profilo le leggi antinegazioniste sono paragonabili a quelle antiterroristiche: per esempio la legge sulla sorveglianza informatica varata in Francia nel 2014, o il primo emendamento sulle offese terroristiche introdotto nel codice penale spagnolo per reprimere l’apologia del terrorismo, oltre che l’atto terroristico in sé. Sempre più inclini a sfumare i confini tra le condotte violente (già punite per legge) e la loro propaganda, i provvedimenti penali introdotti per contrastare i discorsi d’odio equiparano il fare al dire, la cosa alla parola, la violenza genocida alla sua giustificazione.
Può darsi che i negazionisti, potendo, si trasformerebbero in picchiatori e torturatori di ebrei in carne e ossa. Ma nel perimetro del sistema che consideriamo democratico un crimine virtuale deve manifestare altri segni di voler diventare reale prima che lo stato sia autorizzato a intervenire per stroncarlo sul nascere. Altrimenti ci si avvicina pericolosamente al mondo di Minority Report, metafora di ogni totalitarismo (più ancora di 1984)
Le leggi punitive della memoria rivelano i loro risvolti più oscuri. Più che come un mezzo per raggiungere l’obiettivo dichiarato di combattere il razzismo e l’antisemitismo, forse queste leggi vanno intese come uno strumento educativo funzionale al mantenimento del consenso. Plasmare e rafforzare identità collettive; sottolineare una coesione interna anche dove non c’è; spostare il conflitto interno verso l’esterno. Cos’hanno in comune terroristi e negazionisti se non il fatto di essere gli altri irrecuperabili, coloro con cui per principio non si parla? Forse lo scopo non dichiarato delle leggi della memoria è aprire il varco per la criminalizzazione di altre forme di dissenso.
Che le leggi della memoria si prestino a derive autoritarie è dimostrato dagli usi che ne vengono fatti in paesi dove il reato di negazionismo non solo si estende a un ventaglio sempre più ampio di genocidi e altri crimini storici, ma investe anche il modo in cui quegli eventi vanno classificati, interpretati e raccontati. Ricordiamo: la legge ceca del 2009 include la messa in dubbio dei crimini nazisti e comunisti tra gli atteggiamenti pubblici perseguibili penalmente; la legge lituana del 2010 punisce la negazione e la banalizzazione dei crimini gravi commessi dai sovietici durante la lotta per l’indipendenza del 1990-1991; la legge slovena del 2011 estende le sanzioni alla derisione di una gamma indefinita di genocidi, crimini contro l’umanità e altri crimini di guerra e di aggressione; la legge polacca del 2018 colpisce chiunque accusi la Polonia di complicità con i crimini nazisti.
Fin dove potrà spingersi la tendenza a sottrarre una tesi, per quanto autorevole, allo spazio della dialettica? Il reato di negazionismo potrebbe un giorno applicarsi anche alla negazione o alla messa in dubbio di altre verità scientifiche, come per esempio l’efficacia dei vaccini, l’esistenza del Covid, il riscaldamento globale? Una volta creato il precedente, il reato di negazionismo potrebbe servire i più disparati interessi (non necessariamente in linea con la scienza), purché sostenuti da un consenso politico in quel momento maggioritario. Col risultato di indebolire proprio quelle tesi che, avvalorate dalla legge, danno l’impressione di essere troppo fragili per cavarsela da sole nell’agone del dibattito scientifico e politico.
Si profila un’ipotesi sconcertante. L’insorgenza dei nuovi razzismi non si è verificata a dispetto dello scudo della memoria. L’insistenza martellante sul dovere della memoria (con tutti i suoi corollari, comprese le leggi) ha partecipato dello stesso clima culturale – e forse lo ha involontariamente incoraggiato – da cui scaturiscono le nuove ondate di xenofobia. Il capovolgimento era insito nelle premesse, e cioè nella pretesa di sancire i valori ultimi della democrazia attraverso metodi autoritari.
FONTE:https://gliasinirivista.org/i-guardiani-della-memoria-e-la-crisi-della-democrazia/
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