Zuckerberg può davvero cancellare la politica da Facebook e Instagram?
DA LA FIONDA (Di Laurent Ferrante)
L’annuncio è stato lanciato con noncuranza sulla piazza pubblica, come se fosse roba da niente, una notizia tra le altre. Eppure si tratta di una novità che potrebbe avere conseguenze dirompenti sulla nostra società.
Instagram, Threads e Facebook limiteranno fortemente la diffusione di contenuti politici sulle proprie piattaforme. Molto più di quanto fatto sinora.
I post che trattano di politica non compariranno più nelle sezioni Esplora e Reels, non verranno più suggeriti nel Feed e gli account che se ne occupano non verranno più consigliati.
L’annuncio di Adam Mosseri su Threads – febbraio 2024
Il capo di Instagram, Adam Mosseri, ha tentato di gettare acqua sul fuoco assicurando che i post verranno comunque mostrati sul Feed degli utenti che già seguono la pagina, ma questo non è molto rassicurante.
Quel che Mosseri dimentica di dire, infatti, è che già oggi l’utente medio si perde il 70% dei contenuti del Feed, ovvero i contenuti pubblicati dagli account che segue. Ciò significa che una pagina politica probabilmente non riuscirà a raggiungere i propri follower neanche lì. Come si legge nelle linee guida di Instagram: “la maggior parte dei tuoi follower non vedrà ciò che condividi”. Considerato che l’algoritmo di Instagram cerca attivamente di distogliere gli utenti dal proprio Feed – suggerendo contenuti ad alto potenziale di distrazione cuciti sui nostri gusti personali – e che la maggior parte di queste “esche” sono Reel che portano dritti alla sezione interdetta alla politica, il quadro si fa decisamente tetro.
L’embargo sui contenuti politici sembra quindi totale e definitivo.
Meta ovviamente sostiene di farlo per il nostro bene, adducendo le solite motivazioni paternalistiche sull’empowerment e sulla “migliore esperienza utente”, ma la decisione sembra soprattutto riconducibile ad un’attualità politica che, tra Gaza ed elezioni americane in arrivo, sta diventando sempre più scivolosa per le piattaforme.
Dallo scorso ottobre Facebook e Instagram stanno fronteggiando una forte ondata di critiche da parte degli utenti per aver oscurato le discussioni su Gaza. Un comportamento che ha portato a un’indagine di Human Rights Watch e all’accusa di censura sistematica. Meta ha scaricato la responsabilità sugli algoritmi e sul combinato disposto di immagini cruente, linguaggio violento e riferimenti a gruppi terroristici da anni in blacklist. Molti però avanzano il sospetto di un’attività censoria intenzionale, diretta a silenziare i sostenitori della causa palestinese e teleguidata da agenzie governative statunitensi e israeliane – stando ai Twitter Files non sarebbe la prima volta.
Da dieci anni ormai le piattaforme social sono nell’occhio del ciclone per l’influenza diretta o indiretta sulla politica. Facebook in particolare ha dovuto affrontare processi mediatici – e non solo mediatici – riguardo alla profilazione degli utenti (Cambridge Analytica), agli algoritmi che avrebbero favorito la disinformazione, l’hate speech e le cosiddette filter bubbles (The Social Dilemma) e alla censura intenzionale dell’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump, bandito per due anni dalle piattaforme di Meta. Il bavaglio a Trump, in particolare, ha intensificato notevolmente le pressioni politiche su Zuckerberg e compagni, accusati di indebita ingerenza sui meccanismi democratici e chiamati a comparire davanti al Congresso ormai con una certa regolarità.
In mezzo a tutto ciò va inserito anche lo scontro con le testate giornalistiche, che da tempo pungolano le big tech per ottenere una compensazione per i contenuti giornalistici pubblicati sui social. Una battaglia politica e legale che ha prodotto urti piuttosto violenti in alcuni paesi come Australia (2021) e Canada (2023), dove Meta ha bloccato la distribuzione di notizie giornalistiche. Complessivamente si stima che per far fronte alle offensive legali degli editori Meta sia stata costretta a spendere almeno 1,5 miliardi di dollari in accordi privati e progetti di “sostegno al giornalismo”. Soldi che non sembra più essere disposta a spendere.
Insomma, troppi guai. Mosseri ha spiegato su Thread che, dal punto di vista dell’azienda, il gioco non vale più la candela. Per evitare altri problemi legali e reputazionali Meta sembra quindi aver optato per un taglio tout court della politica dalle sue piattaforme.
Per Meta gli svantaggi superano i benefici spiegava Adam Mosseri su Threads a luglio 2023
Quel che non è chiaro però – e non è un dettaglio di poco conto – è che cosa intendono Zuckerberg e Mosseri per “politica”.
Se la sorte di partiti e politici di professione sembra segnata, come probabilmente anche quello dei giornali – Mosseri ha fatto riferimento alle hard news, ossia politica, esteri ed economia – il destino degli attivisti e delle associazioni rimane avvolto nella nebbia. Che ne sarà dei collettivi per il clima, per la casa, per i diritti umani, per i diritti delle donne? Che fine faranno non-profit come Oxfam, Greenpeace, Amnesty International? OMS, FMI, UNICEF, BCE e altri organismi internazionali rientreranno nella definizione di “politica” o verranno risparmiati? E come valutare poi le contaminazioni tra intrattenimento e politica? La satira e i meme, ad esempio. L’appello di Ghali contro il genocidio e le prese di posizione di Fedez e Ferragni; la fascia arcobaleno del capitano della nazionale tedesca Manuel Neuer ai mondiali di calcio; o ancora le bandiere dell’Ucraina che campeggiano un po’ ovunque sui campi sportivi da due anni a questa parte. La lista è lunga.
Non è chiaro poi se verranno bersagliati i singoli contenuti o gli account. E se ci sia una soglia massima di contenuti “politici” tollerati prima di censurare un intero profilo.
Mosseri ha cercato goffamente di rispondere a questi dubbi riuscendo, se possibile, a creare ancora più confusione.
Alcune risposte di Mosseri alle domande degli utenti su Threads – febbraio 2024
Eppure davanti ad iniziative così drastiche – e così politiche! – che sostanzialmente decidono quali informazioni possono o non possono arrivare agli occhi degli utenti, ci si aspetterebbe quantomeno un po’ di chiarezza.
Pur essendo piattaforme private, i social network hanno oggi assunto un ruolo pubblico di primo piano nella dieta informativa delle persone: per il 42% degli italiani i social sono la fonte primaria di informazione, davanti ai siti di news (28%) e alla carta stampata (16%). Anche se a vincere rimane sempre la Tv col 69%.
In particolare, tra i social network, Facebook e Instagram risultano le due fonti di informazioni preferite dagli italiani, rispettivamente per il 44% e il 20% degli utenti.
Questi dati da soli danno la misura dell’importanza di Meta nella formazione dell’opinione pubblica e del consenso politico e dovrebbero scoraggiare ogni tentativo di minimizzare la portata del mutamento in atto.
Una trasformazione che rischia di azzoppare anche tutti quei movimenti di protesta che non ottengono spazio sui media tradizionali e che fino ad oggi hanno trovato sui social l’unica opportunità di farsi sentire e portare le proprie istanze all’attenzione di un pubblico più vasto. Istanze che di solito vengono raccolte da stampa e televisione solo in un secondo momento, proprio in virtù dell’attenzione generata sui social. Penso a Fleximan o alla protesta delle tende contro il caro affitti, solo per citare alcuni dei casi più recenti, ma si potrebbero anche richiamare il movimento per il voto ai fuorisede o la campagna “All eyes on Rafah”, che non sarebbe potuta nascere altrove che sui social network.
I social non sono solo una porta di accesso all’informazione ma un luogo in cui i movimenti di opinione si formano, crescono e tentano di raggiungere la massa critica. Uno spazio che senz’altro non è mai stato completamente libero ma che offriva ancora notevoli opportunità di aggregazione e costruzione del consenso dal basso. Un’opportunità vitale per tutti i movimenti militanti e contro-culturali che tentano di sfidare il pensiero unico dominante, come anche per i piccoli partiti ignorati dalla stampa.
Prevedere gli effetti sulla società non è compito facile, ma possiamo provare ad immaginare alcuni scenari possibili.
Nel primo i cambiamenti dell’algoritmo non riescono a modificare i comportamenti degli utenti che, ormai disabituati a cercare attivamente informazioni e approfondimento, continueranno ad attendere passivamente che queste gli vengano servite dalla piattaforma. Non venendo distribuite notizie gli utenti tenderanno ad informarsi di meno e dedicare maggiore tempo all’intrattenimento. La politica però è pervasiva ed è quindi molto probabile che in qualche modo si arrivi a parlarne comunque, solo che a farlo non potranno più essere politici, giornalisti e attivisti – esiliati ai margini della piattaforma – ma solo quegli influencer che solitamente si occupano di intrattenimento. Il risultato è che l’unica fonte di informazione e dibattito politico saranno i Fedez e le Ferragni, le Charli D’Amelio e le Taylor Swift.
Il secondo scenario offre qualche motivo di speranza in più. La messa al bando dell’informazione politica dai social spinge gli utenti a tornare ad informarsi sui siti di news e promuove involontariamente nuovi comportamenti informativi. Senza la concorrenza dell’informazione gratuita sui social, i siti internet tornano ad accumulare visite, aumentano i ricavi pubblicitari e il numero di abbonamenti, il settore dell’editoria torna (un filo) più sostenibile economicamente e (un po’) più indipendente dal traffico social. Tutto questo porta ad una diversificazione delle fonti di informazione, a comportamenti più intenzionali da parte dei lettori e, in ultima analisi, al miglioramento del giornalismo.
Oppure, terzo scenario, emerge una nuova piattaforma social dedicata proprio all’informazione. Notizie ed approfondimenti non devono più competere con gattini, balletti e foto degli amici per accaparrarsi l’attenzione degli utenti, la scelta di informarsi diventa intenzionale e migliora anche la qualità del tempo dedicato a questa attività.
Quel che è certo è che, a meno di clamorosi e improbabili ripensamenti, l’iniziativa di Meta darà uno scossone considerevole ad uno dei pilastri della nostra già malmessa vita democratica, ossia la libera circolazione delle informazioni e delle opinioni. A differenza del passato non si tratta di un urto provocato da un’innovazione tecnologica, come furono la radio, internet e, appunto, i social network, ma di una decisione essenzialmente politica.
Dietro la maschera bonaria che presenta al pubblico Meta sta infatti compiendo un’operazione che non potrebbe essere più politica, ossia decidere sulle parole e sugli argomenti, decidere cosa è politico e cosa non lo è, ciò che si può dire e ciò che non si può dire, chi ha diritto di parlare di un tema e chi invece no. Il tutto, ovviamente, da quella prospettiva tecnocratica – e quindi falsamente neutrale – che tanto bene abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni.
Certo, Zuckerberg e Mosseri avranno buon gioco a dire che a nessuno viene impedito di pubblicare nulla, ma questo è vero solo perché la censura non si abbatte sul messaggio quanto sulla sua distribuzione. Su Facebook e Instagram potrai sempre dire ciò che vuoi, purché nessuno ti senta. Esattamente come fanno le prefetture quando autorizzano i cortei, ma li confinano in periferia, lontano dagli occhi.
C’è anche un quarto scenario, che non abbiamo ancora considerato. Non è detto, infatti, che il nostro ruolo debba necessariamente ridursi a quello di inermi spettatori delle decisioni di Zuckerberg e sodali. Se è vero che in linea teorica si tratta di aziende private che possono legittimamente decidere a quali contenuti dare priorità è altresì vero che oggi una manciata di attori privati controlla le vie di accesso alle informazioni online, esercitando un potere di influenza su diritti fondamentali quali la libertà di espressione e di informazione. Questa situazione è stata finalmente riconosciuta dall’Unione Europea con l’approvazione (2022) e l’applicazione (2024) di due regolamenti, il Digital Services Act e il Digital Markets Act, che inquadrano le responsabilità pubbliche delle piattaforme online. Meta, Google, Apple, TikTok, Microsoft e Amazon, sono stati riconosciuti come gatekeeper, ovvero “custodi delle chiavi” delle attività online, e come tali sono stati costretti ad assicurare una serie di servizi-diritti ai propri utenti, tra cui “il diritto alla libertà di espressione e di informazione”.
All’interno di questo quadro giuridico, ma soprattutto concettuale, non è impensabile immaginare un intervento degli Stati o delle istituzioni europee per impedire ai gatekeeper di comprimere la “libertà di espressione e di informazione e la libertà dei media e il loro pluralismo”. Inoltre, i partiti potrebbero non accettare di buon grado la sottrazione di uno spazio prezioso per la propria propaganda. E quanto a noi cittadini, divulgatori, militanti? Staremo a guardare o ci faremo sentire?
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