Ogni volta che un infortunio…
di GLI ASINI (Franco Carnevale)
Con una periodicità ossessionante a fronte di infortuni sul lavoro riaffiorano, come fanno alcuni fiumi carsici, delle reazioni abbastanza stereotipate e allineate, specialmente se a essere coinvolti sono giovani donne, studenti di scuole professionali, padri di famiglia, lavoratori anziani; l’esecrazione è massima quando si tratta di infortuni multipli. L’occasione è inevitabile per il Presidente della Repubblica che pur in tutta sincerità proclama: “Dignità è azzerare le morti sul lavoro, che feriscono la società e la coscienza di ognuno di noi. Perché la sicurezza del lavoro, di ogni lavoratore, riguarda il valore che attribuiamo alla vita”; il Papa richiama il fatto che la sicurezza dei luoghi di lavoro “significa custodia delle risorse umane, che hanno valore inestimabile agli occhi di Dio e anche agli occhi del vero imprenditore”; Cgil-Cisl-Uil sostengono che “Non c’è più tempo, non siamo disponibili ad attendere oltre, continuando a contare lavoratori e studenti morti sul lavoro o durante un’esperienza formativa in azienda. Occorre intervenire subito con provvedimenti in grado di fermare la strage” e danno il via ad una serie di “iniziative”. Poi ci sono quelli che, non senza una punta di cinismo, certo involontario, si distinguono nel proclamare, vigente il capitalismo, che finché ci sarà il capitalismo gli infortuni non potranno essere evitati. Periodicamente e anche in occasione di infortuni considerati più clamorosi, l’ente assicurativo “sociale”, l’Inail, non manca di sfornare i suoi dati sempre difficili da interpretare: ora sono gli infortuni denunciati, ora quelli riconosciuti, con o senza quelli stradali, e che vogliono testimoniare uno “zoccolo duro” di infortuni e di morti che varia poco negli ultimi anni, allineato con quello degli altri paesi europei. Questo per dimostrare che si tratta di uno “zoccolo duro” che da una parte è di entità decisamente inferiore se confrontato con quello di qualche decennio addietro e quindi consolatorio, e dall’altra, vista la sua entità, è meritevole di essere tutelato e quindi meno male che l’assicurazione c’è. Alle volte a tutti fa eco il potere esecutivo, che vorrebbe rassicurare adottando un provvedimento che annuncia più vigilanza nei luoghi di lavoro. I media per qualche giorno enfatizzano il primato della vigilanza, assegnando al vigilante il ruolo di una sorta di angelo custode che nel momento critico invece che dal peccato ti salva dall’infortunio. Puntuale è la comparsa degli organi di vigilanza a infortunio avvenuto al fine di cercare di ricostruirne la causa e quindi la responsabilità personale di qualcuno ma, come risultata dai rari procedimenti giudiziari intentati, la colpa muore fanciulla. Infine, nonostante i tre morti quotidiani da lavoro e i circa 1.600 infortuni denunciati giornalmente, scatta il silenzio, in attesa di un nuovo evento capace di destare clamore e di sollecitare le considerazioni di sempre.
Le dinamiche prevalenti degli infortuni
È da notare che le dinamiche della grande maggioranza degli infortuni, e specialmente di quelli mortali, si ripetono tragicamente sempre uguali, in questo secolo come nel precedente: corpi straziati da organi di macchine in movimento, cadute da ponteggi, asfissia in ambienti confinati, ribaltamento di carichi stivati male, folgorazioni per contatti con linee elettriche in tensione, crolli di gru, schiacciamento e ribaltamento di mezzi motorizzati. Si tratta di dinamiche elementari prevedibili che perché diventino, come si dice, efficaci necessitano di uno o più fattori concomitanti e scatenanti altrettanto prevedibili e che hanno tutti costantemente a che fare con la ridotta capacità dei lavoratori di autotutelare la propria incolumità o con una organizzazione del lavoro patologica, criminosa, o quasi sempre con le due condizioni in combinazione. Queste condizioni ben conosciute sopravvivono nonostante paternalismi, azioni sindacali, normative protettive, progresso sociale e tecnico, misure economiche penalizzanti, indignazione del sentire comune. A contrastare l’apporto potenzialmente positivo di questi fenomeni ce ne sono infatti degli altri uguali e contrari che prendono il sopravvento: la sfrenata rincorsa al profitto, la banalizzazione delle norme protettive comprese quelle della formazione dei lavoratori, assolta burocraticamente, la mancanza di investimenti per il miglioramento tecnico delle fasi lavorative, l’aggravamento dei carichi e dei ritmi di lavoro e la scomparsa di un addestramento efficace: tutti favoriti da rapporti di lavoro legalizzati improntati alla precarietà che portano meccanicamente alla subordinazione e al ricatto del diretto interessato. Non ultimi a entrare in gioco sono alcuni provvedimenti governativi tendenti a favorire la ripresa economica come i “bonus” per le manutenzioni delle facciate e per gli interventi di coibentazione delle abitazioni private che hanno messo in fibrillazione il settore edile con imprese e lavoratori improvvisati.
La vigilanza nei luoghi di lavoro
La più che centenaria storia italiana della ispezione del lavoro per la salute e la sicurezza è zeppa di equivoci (per un periodo è stata affidata a organismi degli stessi vigilandi), reticenze, impotenze e insufficienze. Una regolarizzazione era stata fatta con la riforma sanitaria del 1978 puntando su un organismo decentrato, multidisciplinare, destinato a far crescere la cultura della prevenzione, pensando in particolare all’assistenza necessaria ai lavoratori e a un tessuto produttivo fatto di piccole fabbriche e di artigianato. Questo sistema, pur con delle eccezioni e alcuni errori di tipo tecnico, ha funzionato per più di un decennio tra gli anni ’80 e ’90 del Novecento consentendo di recuperare ritardi clamorosi accumulati in questa materia. L’introduzione della normativa europea della prevenzione a partire dal 1994 ha provocato anche formalmente una rivoluzione copernicana, fissando degli standard teorici di prevenzione e affidando alle stesse aziende e a un loro sistema organizzativo l’applicazione di questi standard, ma anche nella sostanza il controllo degli effetti ottenuti e la valutazione delle carenze e delle integrazioni necessarie. Si capisce allora che la vigilanza da parte dello Stato nelle sue articolazioni è diventa difficile da attuare: si può esplicare principalmente sugli atti, sui compiti scritti da o per il datore di lavoro, ma il rischio è quello di svolgere una attività burocratica di controllo sulla attività burocratica condotta dall’azienda. In più è necessario ammettere che non vi saranno mai abbastanza ispettori per vigilare nella miriade d’imprese e microimprese in continua evoluzione. Si può facilmente calcolare che il controllo della maggioranza delle aziende, anche prendendo in considerazione quelle selezionate in base a qualche indicatore come il maggior rischio per la salute e la sicurezza, si può realizzare nel corso di 15 o 20 anni.
Il Governo Draghi ha ritenuto di dover accogliere la richiesta più semplice, quella gridata a voce più alta, prevedendo un maggior numero di ispettori; nel contempo ha effettuato parziali modifiche istituzionali nel sistema di vigilanza capaci di introdurre elementi di confusione incappando in un errore ideologico gravido di conseguenze pratiche, quello di separare definitivamente la vigilanza dalla prevenzione. Con il decreto di recente convertito in legge si prevede l’assunzione di 1.024 ispettori a livello centrale nell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) e di 90 carabinieri ispettori, ma allo stesso tempo vengono assegnate all’Inl, oltre alle funzioni di contrasto delle irregolarità del lavoro e del caporalato, quelle di vigilanza in materia di sicurezza del lavoro. L’operazione non promette niente di buono: da una parte distoglie l’Inl dalle sue funzioni esclusive e decisive, quelle delle irregolarità del lavoro, e gliene assegna delle altre che richiedono competenze specialistiche che i suoi attuali operatori non hanno e che quelli che dovranno essere assunti non è previsto che abbiano considerando i curricula formativi sulla base dei quali verranno assunti. Dall’altra parte si stabilisce di ignorare il declino del sistema preventivo specializzato assegnato al sistema sanitario delle regioni: tra tagli alla sanità pubblica e distrazioni operate dalla maggioranza delle aziende sanitarie delle regioni (Asl) gli operatori addetti alla prevenzione sono passati 5.000 del 2008, ai 2.500 di oggi.
Esistevano tutte le indicazioni per procedere a una riforma sostanziale del sistema prendendo in considerazione un’Agenzia nazionale con delle diramazioni regionali in grado di recuperare e aggiornare la cultura di prevenzione multidisciplinare, tecnica e sanitaria, che ha saputo esprimere la migliore esperienza dei Servizi di prevenzione e medicina del lavoro delle Asl, e allocando più razionalmente le risorse messe in campo oggi. Al contrario, è stato intrapreso un percorso approssimativo e sgangherato che oltre a non affrontare nessuno dei problemi pur evidenti ne aprirà degli altri relativi ai compiti da assolvere come istituzioni pubbliche. Si potrebbero ottenere ambienti di lavoro più sani e sicuri attuando indagini di comparto, di cicli lavorativi precisamente riferite alle vigenti condizioni e organizzazioni del lavoro: anche questa, oltre alla semplice vigilanza sull’applicazione delle norme scritte, è una peculiare e indispensabile attività delle istituzioni pubbliche, da portare alla attenzione delle aziende e dei lavoratori in un confronto partecipato e costruttivo. In pratica, l’ispettorato del lavoro voluto dalla legge di recente approvata eviterà di svolgere tale attività.
Gli studenti e il lavoro
“La vita di Lorenzo è stata spezzata dalla fame di profitto di aziende senza cultura della sicurezza, dalla scuola e dallo stato che hanno imposto che le studentesse e gli studenti debbono sperimentare sfruttamento e lavoro gratuito e rischiare la propria vita durante i percorsi formativi. Tutto questo legittimando un mercato del lavoro in cui le aziende competono al ribasso su sicurezza, salari, lavoro precario e interinale. Viene insegnato che è normale lavorare gratis, senza diritti, sicurezza e la possibilità di organizzarsi nel sindacato”. Questa, in poche righe, la diagnosi pronunciata dall’Unione degli studenti a Roma in occasione delle manifestazioni, incredibilmente represse, per la morte di Lorenzo, studente al quarto anno del Centro di formazione professionale dell’Istituto salesiano Bearzi di Udine, all’ultimo giorno di stage in una azienda metalmeccanica. La diagnosi è indubbiamente completa, condivisibile in termini generali, formulata a proposito di una patologia con fattori diversi favorenti e determinanti. Se si vuole che tale patologia non rimanga endemica e inguaribile, o che tale diagnosi non rimanga un semplice atto speculativo, sono necessarie terapie lunghe e costose e prognosi periodiche capaci di saggiare il processo se non di guarigione, di miglioramento o forse, purtroppo, di cronicizzazione, situazione questa ultima considerata, da una parte sociale, accettabile.
Tuttavia i percorsi di istruzione tecnica e professionale non è pensabile che vengano contestati nella loro essenza: comprendono le scuole dedicate alla refezione e al settore alberghiero che grande successo hanno avuto negli ultimi anni, ma anche quelli più tradizionali di formazione professionale per attività artigianali e anche manifatturiere. In questi casi la scuola deve prevedere ambienti, strumenti e organizzazione del lavoro dedicati e appropriati dove la formazione alla sicurezza proceda unitamente all’addestramento professionale. Stesse caratteristiche devono essere previste per gli ambienti di lavoro esterni alla scuola frequentati dagli studenti: se i sistemi di sicurezza sono pensati per gli studenti, da considerare come più fragili e creditori di maggior tutela, ne trarranno vantaggio anche i lavoratori di norma residenti in quel luogo; gli ambienti di lavoro dovrebbero essere approntati come se da un momento all’altro dovesse entrare uno studente. Molto diversa è la situazione che vede dei liceali frequentare dei luoghi di lavoro ordinari. È pensabile che debba essere compito specifico della scuola quello di inserire il lavoro e la cultura collegata con i lavori, compresa quella della salute e della sicurezza, nei percorsi didattici delle varie epoche storiche: un buon approccio trasversale con i lavoratori come filo conduttore risulterebbe più utile di alcune ore trascorse forse passivamente in una banca, in tribunale o in un museo. Agli insegnati di buona volontà, non si può non segnalare un’opera da adottare con grande vantaggio proprio e quindi dei discenti: Lidia Bellina, Sauro Garzi, Il Capolavoro. Un percorso storico-letterario sul lavoro per il triennio della scuola secondaria di secondo grado, 3 volumi, Edizioni Conoscenza, Roma, 2021. Si tratta di uno strumento pensato per stabilire dei collegamenti tra le varie materie evidenziando il ruolo centrale del lavoro nella storia della cultura vista come storia del lavoro.
FONTE:https://gliasinirivista.org/ogni-volta-che-un-infortunio/
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