Il capitalismo è una rete globale di relazioni
di GABRIELE GERMANI (Pagina FB)
Il capitalismo è un sistema-globale che avvolge l’intero pianeta e che ne condiziona la massa vivente (umana e non), anche nelle più intime manifestazioni.
Per questo motivo, la teoria del sistema-mondo (che poi non è propriamente una teoria, sarebbe forse più corretto parlare di “approccio”, da cui a seguire possono nascere tante diramazioni teoriche) è quella più idonea la suo studio.
Il capitalismo è una rete globale di relazioni che col tempo ha visto affermarsi un centro e una periferia globali.
Semplificando molto: il continente favorito per questioni spaziali e climatiche fu l’Eurasiafrica (in finale favorita anche dal fatto che è stata la culla dell’umanità e che costituisce il continente per eccellenze, il resto, America inclusa, sono isole più o meno grandi). Qui l’Homo Sapiens continuò a comportarsi come un qualsiasi animale: adattandosi all’ambiente.
In Asia nacquero grandi conglomerazioni umane, fondate sulla collaborazione (stiamo chiaramente generalizzando molto, ma talvolta semplificare serve per capirsi; il trucco è sottintendere una serie di diversità, specificità e peculiarità su cui per comodità si sorvola). L’Europa rimase continente marginale per decine di millenni, solo alcuni cambiamenti climatici favorirono il lento spostarsi dell’asse mediterraneo dal Medio Oriente alle odierne Grecia, Italia e Tunisia e furono cambiamenti socio-culturali seguenti a far biforcare (triforcare?) la civiltà mediterranea in tre tronconi nel primo Medioevo.
La civiltà europea si identificava come cattolica occidentale, erede dei Romani, dei Germani e inconsapevolmente della cultura celtica. Questo ramo per motivi geografici (la frammentazione geografica dell’Europa occidentale), storici (le peculiari tradizioni ereditarie germaniche), culturali (la coesistenza di tre tronconi originari) e un po’ per caso, non riuscì mai a ricreare un’unità (cosa che la Cina riuscì ciclicamente sempre a ricreare). L’Europa tribale e litigiosa, partì alla conquista dei mari perché competitiva al suo interno e estremamente violenta.
La conquista europea dei mari e delle colonie fu solo l’esportazione della propria inter-bellicità al resto della popolazione mondiale.
Il capitalismo e la tecnica erano le risposte in diversi ambiti di questa competizione eterna tra poteri e autorità (non a caso gli europei hanno spesso interpretato la storia come una guerra, competizione, lotta tra opposti).
All’interno di questo abbiamo visto susseguirsi fasi economiche ordinate e caotiche e cicli egemonici (Spagna, Paesi Bassi, Regno Unito e USA).
Gli USA soppiantarono l’Europa a cavallo tra le due guerre mondiali, imponendosi come centro economico mondiale in virtù di più risorse e più popolazione e territorio (in sostanza più PIL in potenza). Inoltre, mentre Londra aveva sempre governato l’economia mondiale spingendo sempre più verso soluzioni di libero mercato, gli USA negli anni ’30 optarono rapidamente per il keynesismo e per un mercato controllato.
Il capitalismo keynesiano produsse ricchezza e coincise con il capitalismo industriale; al contempo, rimanevano ben salde le divisioni tra centro e periferia mondiali in termini egemonici ed economici.
Gli anni Settanta (sconfitta in Indocina, cacciata dello scià, eurocomunismo, fine fascismo in Portogallo e Spagna, socialismo in Angola e Mozambico, sandinisti in Nicaragua) furono il momento di biforcazione.
In quel momento le strade possibili erano due: continuare la guerra del capitale o passare dal keynesismo a una forma di socialismo che gradualmente avrebbe cancellato le differenze di classe nel centro e al contempo cancellato le diversità tra centro e periferia.
Gli USA (governati da Nixon) optarono per la strategia della guerra permanente: ritiro dal Vietnam, sganciamento dollaro dall’oro e imposizione nell’arco di pochi anni di una iper-finanziarizzazione dell’economia (che avrebbe garantito una crescita economica virtuale). Intanto avrebbero gonfiato l’industria cinese, garantendo la crescita di una rivale strategico dell’URSS in Asia.
A inizio anni Ottanta, il conto era pronto per avviare politiche liberiste e di compressione salariale, mettendo all’angolo l’altra grande potenza industriale: il Giappone.
Un disegno perfetto, perché l’URSS non resse l’urto, i paesi del Terzo Mondo finirono vittime di continue bolle speculative e prestiti capestro, la Cina cresceva tanto ma partiva da un range basso e nel centro, gli USA primeggiavano in ogni campo.
Tuttavia, il buon Marx non sbagliava: il capitalismo nutre le sue contraddizioni.
Così un paese a economia ordinata nel giro di trenta anni soppiantava la produzione industriale USA e diventava anzi il principale creditore della super-potenza, che intanto iniziava ad entrare affatticata anche in questo castello di debiti e contrazioni salariali.
Il resto è storia odierna: i paesi della periferia e gli sconfitti della Guerra Fredda si sono radunati attorno al paese a economia ordinata e ora sfidano il paese a economia disordinata (gli USA post-anni Settanta) e i suoi alleati e questi ultimi 1000 anni di storia ci fanno capire chiaramente che le possibilità di rimanere in sella sono esigue.
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