Consigli di classe. Scuola, democrazia e società, rubrica a cura di Mimmo Cangiano
La lezione frontale.
Le metodologie didattiche poco attive e inclusive.
Il “classismo” dei licei.
Il primo biennio superiore comune.
Le “passerelle” morattiane mai attivate.
Il voto numerico.
Il canone delle humanae litterae bianco e maschiocentrico.
Conoscenze vs competenze.
La didattica orientativa.
Il latino e il greco.
L’innalzamento dell’obbligo a diciotto anni.
Questi sono, in ordine sparso, alcuni degli argomenti che spesso vengono menzionati nel dibattito sulla “scuola democratica”: pur essendo molto diversi tra loro, mi pare che abbiano due elementi in comune, strettamente connessi fra loro.
Primo: hanno la pretesa di agire quando molti dei gap socioculturali che penalizzano gli studenti e le studentesse più fragili sono ormai consolidati; non è un caso che la quasi totalità di essi si appunti su questioni metodologiche e guardi, in particolare, alle fasi più avanzate del percorso d’istruzione.
Possiamo anche scannarci sul voto numerico o sul maschilismo di Cicerone&co., ma, mentre lo facciamo, il divario tra chi è stato nutrito di una lingua viva corretta e fluente, di un immaginario vasto e vario derivato da narrazioni e letture ad alta voce, dalla visione di film e documentari, dal contatto con diverse forme espressive, e chi invece non ha avuto queste possibilità, si mostra in tutta la sua evidenza. Soprattutto chi insegna nelle classi del I ciclo si confronta ogni giorno con la grandissima eterogeneità dei retroterra socioculturali di bambini e bambine: non serve scomodare La réproduction di Bourdieu per sapere che chi proviene da famiglie con alto livello di istruzione e possibilità economiche di accedere alla cultura (libri, viaggi, mostre, sport, corsi di lingue…) ha la strada spianata verso il futuro. Inoltre, già da alcuni decenni, gli studi sullo sviluppo del linguaggio e sulle competenze di lettura affermano che l’ambiente familiare è fondamentale nelle costruzione di atteggiamenti e abilità di base e trasversali necessarie al successo scolastico; non solo ci dicono anche che la competenza fonologica e quella lessicale all’età di sei anni sono predittive della reading literacy nel percorso scolastico successivo:[1] ciò significa che, già all’ingresso della prima classe della scuola primaria, c’è chi comincia il proprio percorso intravedendo la linea del traguardo e chi non è ancora arrivato ai box di partenza.
Per questo è necessario intervenire prima che le differenze diventino baratri, che si possono certamente superare, ma solo a prezzo di grandi sforzi individuali[2] – magari con l’aiuto di docenti “straordinari” e “devoti alla missione”, quelli che “ti cambiano la vita”, nella narrazione dell’eccezionalità così comune oggi. Perché, allora, anziché dedicare tempo ed energie a discutere di riforma della scuola superiore (su cui tutti i governi, di qualunque colore, ambiscono a mettere il proprio timbro), innalzamento dell’obbligo, passerelle, debiti e recuperi, coloro che davvero credono che una delle funzioni costituzionali della scuola sia quella di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana», non si spendono – ad esempio – per rendere obbligatorio l’intero ciclo (o almeno gli ultimi due anni) della scuola dell’infanzia? Si favorirebbero così la socializzazione, l’esposizione precoce ad un uso corretto della lingua, il contatto con libri illustrati ed albi, l’abitudine all’ascolto, alla manipolazione, all’espressione di sé attraverso l’arte, l’educazione corporea; sarebbero possibili anche la diagnosi e l’intervento precoce in caso di situazioni di disagio o di difficoltà dell’apprendimento (e possiamo immaginare anche quale volano la creazione di un sistema statale di scuole dell’infanzia potrebbe costituire per l’occupazione femminile e la riduzione dei gap di genere nel mondo del lavoro).
E ciò ci conduce direttamente al secondo elemento: praticamente nessuna delle questioni che infiammano la discussione sulla scuola inclusiva parte dal presupposto che la il sistema d’istruzione non sia una monade autoreferenziale, ma sia immerso in un preciso contesto sociale, economico e politico, dunque pensare che esso possa essere democratico ed inclusivo quando tutto, intorno, tende ad acuire le differenze socioeconomiche e a ridurre la mobilità sociale è miope o velleitario. Ne è la dimostrazione, come ha già sottolineato Marco Maurizi su queste pagine, il fatto che la più importante riforma democratica della scuola italiana, ovvero quella della scuola media unica del 1962 (la sola riforma della scuola attuata per via di elaborazione parlamentare e non per decretazione, tra l’altro), è avvenuta in un momento storico in cui le richieste di maggiore partecipazione democratica interessavano tutti gli ambiti della vita pubblica, e non solo l’istruzione.
Oggi invece sembrano scomparse dal dibattito sulla scuola democratica le istanze che lo hanno caratterizzato fino alla fine degli anni ‘70: il tempo pieno per tutti i bambini e le bambine, i doposcuola, l’accesso gratuito a libri e al materiale didattico, il sovraffollamento e l’inadeguatezza delle strutture, le biblioteche scolastiche, la stabilizzazione dell’organico, i docenti di sostegno (e altre se ne potrebbero aggiungere, oggi, come la cronica insufficienza di mediatori linguistici e culturali e di figure psico-socio-educative).
Potrebbero sembrare battaglie ormai vinte, ma non è così. Proprio l’accelerazione del modello economico tardocapitalistico sta creando nuove ed inattese sacche di povertà ed emarginazione, che non riguardano solo – come molti potrebbero pensare – le famiglie che hanno alle spalle un vissuto migratorio, ma anche le famiglie monogenitoriali, quelle in cui sono presenti persone con disabilità, quelle di chi ha perso il lavoro o ne ha uno precario o sottopagato, quelle in cui si convive con il disagio psicologico o la patologia psichiatrica. Come ieri, chi oggi fa fatica a comprare un libro o a pagare la quota per partecipare ad un’uscita didattica è proprio chi ne avrebbe più bisogno, perché ha un background familiare che non è in grado di garantirne il soddisfacimento dei bisogni formativi e culturali. E come detto sopra, i gap di partenza spesso diventano gap di arrivo, in un inestricabile circolo vizioso.
La scuola democratica, insomma, non si ottiene magicamente smettendo di leggere Platone o Machiavelli, o licealizzando tutti i percorsi superiori, o eliminando la lezione frontale, o imponendo corsi e corsettini di formazione metodologica ai docenti, categoria (anch’essa impoverita, svalutata, burocratizzata) spesso ritenuta responsabile di tutti i mali che affliggono il nostro sistema d’istruzione e di tutte le forme di disagio che emergono sì, nelle classi, ma proprio perché la scuola è il primo contesto sociale formalizzato con cui ragazzi e ragazze si confrontano al di fuori della famiglia, ed è qui che esplodono, per prime, le contraddizioni della società stessa. La scuola democratica, insomma, non si ottiene a costo zero o con pseudoriforme di metodi e contenuti disciplinari, ma solo ritornando ad affrontare l’impoverimento culturale, l’emarginazione e l’esclusione alle loro radici, che sono e restano economiche e sociali.[3]
Note
[1]Si veda, ad esempio il Report Eurydice 2011, Insegnare a leggere in Europa: contesti, politiche e pratiche https://eurydice.indire.it/pubblicazioni/insegnare-a-leggere-in-europa-contesti-politiche-e-pratiche/ .
[2]Supra, p.27.
[3]È ciò che viene indicato anche dal Report Eurydice 2023 Promoting diversity and inclusion in schools in Europe https://eurydice.eacea.ec.europa.eu/publications/promoting-diversity-and-inclusion-schools-europe, che infatti elenca, in ordine di importanza, una serie di fattori: innanzitutto normativa non discriminatoria, accessibilità degli istituti scolastici, supporto economico, assistenza sociale, collaborazione con le famiglie (capitolo 4), e solo successivamente revisione dei curricoli (capitolo 5) e bisogni socioemotivi degli studenti (capitolo 6).
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