Consigli di classe. Scuola, democrazia e società, rubrica a cura di Mimmo Cangiano
“Immaginiamo un’aula dove alcuni studenti stanno lavorando alla progettazione delle piramidi con difficili calcoli che vengono dati in pasto a un’intelligenza artificiale per generare il progetto perfetto, altri dialogano con Dante al fine di farsi spiegare cosa c’è dietro agli aneddoti che vengono raccontanti nell’Inferno mentre un altro gruppo scrive un racconto collaborando con una chat intelligente. Sono scenari di utilizzo di strumenti di Intelligenza Artificiale Generativa (GenAI) che molti oggi stanno iniziando a immaginare, e, alcuni, a sperimentare.”
Le parole, tratte da un’intervista al sole 24 ore sul futuro dell’istruzione, sono di Cristina Pozzi, oggi Ceo & Co-Founder Edulia dal Sapere Treccani, qualche anno fa membro della task force per la scuola della ministra Azzolina: una manager visionaria, che ricordiamo già da allora per le sue ambiziose fantasie educative (vedi qui). L’immagine che le accompagna ritrae un’ideale scuola del futuro: aula dalle ampie vetrate, studenti di diverse età e nazionalità seduti attorno a tavoli di legno chiaro, tra tablet e artefatti digitali. Il blu è il colore dominante: sono vestiti di blu i due studenti al centro della scena, che danno le spalle a chi osserva, assorti su schermi bianchi e azzurri; blu sono i piccoli robot che camminano tra i gruppi di lavoro e blu è il grande robot-guida che campeggia sullo schermo alla parete. La scena è quasi evanescente: non c’è traccia di disordine, distrazioni, conflitti. Non c’è nemmeno traccia di insegnanti. L’immagine è quella di una comunità aperta, operosa e orizzontale, in cui le macchine collaborano con gli studenti in maniera quasi spontanea. Dunque, è questa la scuola del futuro? Sposteremo le risorse dai salari dei docenti alle Big Tech?
La Presidentessa Cristina Grieco dell’Istituto INDIRE, che insieme all’INVALSI rappresenta il fulcro del nostro Sistema Nazionale di Valutazione, ha espresso il suo punto di vista in un recente convegno sull’innovazione tecnologica:
“Bisogna sicuramente avere consapevolezza: il docente non sarà sostituito ma avrà un altro ruolo. Passerà da guardiano a coreografo dell’apprendimento”.
Il docente da guardiano a coreografo: demansionamento o promozione? A pensarci bene la metafora dell’INDIRE non è di grande originalità. Gli appellativi con cui i docenti sono stati esortati ad innovarsi, nel recente passato, non mancano: docente missionario, docente facilitatore, docente tutor. Nell’era dell’Intelligenza artificiale, ancora di più, l’insegnante è chiamato a superare qualsiasi traccia di staticità (guardiano) per acquisire pieno dinamismo e diventare organizzatore del movimento (coreografo). Il movimento è quello dell’attivismo didattico e della creatività permanente, contrapposti, nel discorso pubblico – e non da ora – alla presunta immobilità della trasmissione della conoscenza, in genere presentata come lezione frontale o nozionismo. Il profilo del docente-coreografo, quindi, non rompe con la retorica riformista dell’ultimo trentennio, ma la aggiorna. Oggi, l’enfasi sulle competenze digitali e STEM, la cui rilevanza è indiscutibilmente accettata, promossa e finanziata, impone al docente un preciso tipo di movimento: essere parte attiva del flusso ininterrotto di dati prodotti dall’organizzazione scolastica e dai suoi processi didattici. Il salto di qualità che si realizza con la scuola futura del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) risiede nel grado di efficienza e di automatizzazione con cui questi processi possono ora essere messi in atto a livello sistemico. Gli ambienti di apprendimento innovativi del PNRR, le aule immersive, i recenti next generation labs che tutte le scuole italiane stanno allestendo in questi mesi, vengono proposti infatti come “ecosistemi altamente efficienti di istruzione digitale”. Non siamo all’alba di un’evaporazione immateriale della figura docente, né di una sua sostituzione meccanica con futuribili agenti artificiali. Come sostiene il sociologo Antonio Casilli, per i robot ci sarà ancora da attendere (En attendants les robots). Più prosaicamente, siamo dinanzi ad una nuova fase di trasformazione del lavoro di insegnamento, esposto a nuove forme di intensificazione, parcellizzazione e controllo; con studenti destinati, a loro volta, a un’educazione sempre più datificata, frammentata, monitorata.
1) Automatizzare i processi in campo educativo: predizioni e dispersione scolastica
Nel Regno Unito l’uso di algoritmi predittivi per classificare gli studenti ha sollevato di recente proteste e dibattiti. In Australia gli studenti possono essere affiancati da tutor virtuali, mentre gli insegnanti li utilizzano per proporre contenuti alla classe o studiare le curve di apprendimento di ciascun allievo. Negli USA, un numero crescente di università e college stima algoritmicamente i profili di rischio degli studenti. Risale a tre anni fa lo scandalo sollevato dalla rivista TheMarkUp sull’utilizzo di un indicatore legato alla razza per prevedere il successo accademico tramite l’algoritmo di intelligenza artificiale Navigate, della società EAB, diffuso anche al di fuori degli Stati Uniti. In Texas modelli simili a ChatGPT valutano le correttezza delle risposte fornite dagli studenti nei test; alcune scuole americane si avvalgono di sistemi di tutoraggio digitale personalizzato (Khanmigo) o di apprendimento adattivo (Pearson, IBM). Nello stato del Nevada l’allocazione di risorse alle scuole con studenti a rischio avviene sulla base di algoritmi basati sull’Intelligenza artificiale.
In Italia le cose procedono lentamente nella stessa direzione: poca la consapevolezza diffusa e scarso il dibattito pubblico. Tra le parole chiave, politicamente trasversali, delle riforme scolastiche degli ultimi decenni, troviamo personalizzazione, attenzione ai bisogni del singolo, miglioramento dei processi di apprendimento. Si tratta di alcune tra le più comuni locuzioni che in ambito educativo rappresentano principi e obiettivi ritenuti universalmente desiderabili. Tutti, in maniera più o meno completa, possono essere agevolmente automatizzati, grazie all’impiego di dati e piattaforme digitali. L’esternalizzazione di particolari funzioni a sistemi informatizzati avviene su diverse scale: dalle scelte didattiche dei singoli insegnanti in classe, alimentate dalle imponenti campagne di formazione dei poli per la transizione digitale, alla politica scolastica su scala nazionale. Attività di insegnamento innovative possono prevedere prove adattive computerizzate, in grado di fornire riscontri immediati individuali, valutazioni o dialoghi con chat bot, ambienti virtuali di insegnamento (VLE, virtual learning environments) per progettare attività di assessment formativo, learning analytics a supporto di bisogni educativi speciali, programmi di tutoraggio digitale (significativo il progetto TOP di Fondazione Cariplo).
Premesse comuni a ciascuna di queste attività, in genere dichiarate in ogni abstract di progetto, sono il raggiungimento del successo formativo o l’inclusione, le azioni di contrasto alla dispersione o alla povertà educativa[1].
Proprio la riduzione dell’abbandono scolastico, divenuto centrale nel discorso pubblico, segna la nuova stagione di politiche educative del PNRR[2], che ha previsto per la prima volta anche nel nostro paese l’allocazione di risorse – vincolate al raggiungimento di traguardi misurabili – sulla base di indicatori standardizzati prodotti dall’istituto di valutazione INVALSI. Si tratta di un’inedita forma di automatizzazione di un processo di scelta politica, che delega a organismi e mezzi di tipo tecnico la responsabilità della distribuzione di finanziamenti in maniera apparentemente oggettiva e misurabile, ma in realtà assai problematica perché basata sull’impiego di costrutti statistici opachi e non controllabili. Tali costrutti, lungi dall’essere neutri e privi di assunzioni implicite, condizionano profondamente la didattica e l’organizzazione scolastica[3], oltre a stigmatizzare gli studenti. A partire dal 2022, le scuole in difficoltà vengono infatti individuate come destinatarie di fondi sulla base del nuovo indicatore di “fragilità” INVALSI, attribuito algoritmicamente[4]; un indicatore standardizzato di rischio individuale che ha suscitato diffuse preoccupazioni in termini di trasparenza, replicabilità e revisione, fino al recente reclamo al Garante per la Protezione dei Dati Personali. Dall’archivio INVALSI, i profili pseudonimizzati degli studenti etichettati con fragilità – e quindi ritenuti a rischio dispersione – passano nelle scuole, le quali progettano e organizzano attività personalizzate, dunque indirizzate a studenti ben identificabili, sulla base di alcuni vincoli imposti. Le azioni sono monitorate attraverso una piattaforma online (DM 361/2021) “per le attività di mentoring e tutoraggio”, su cui le scuole hanno l’obbligo di rendicontare il raggiungimento del “target” assegnato, in base al numero di accessi degli studenti raggiunti.
Oltre a queste azioni di tipo strutturale, cioè riguardanti le scuole considerate in difficoltà in funzione della percentuale di studenti fragili, non mancano sperimentazioni locali sulla base di protocolli di intesa, come quello recentemente siglato tra Fondazione Per la Scuola, Compagnia di San Paolo e Ministero dell’istruzione e del merito (la versione integrale, qui), che promette di “individuare precocemente gli studenti a rischio dispersione implicita ed esplicita”, grazie a “un uso intelligente dei dati”.
L’analisi predittiva del percorso scolastico degli studenti è anche alla base di un recente lavoro condotto proprio dall’INVALSI e intitolato “A predictive model of school failure” , che propone infatti:
“un approccio algoritmico basato sul machine learning supervisionato per identificare gli studenti a rischio di fallimento scolastico”[5].
Per farlo, si attinge all’immensa mole di dati che l’Istituto “naturalmente” possiede, anno dopo anno, essendo contemporaneamente Ente di ricerca pubblico e agenzia preposta alla certificazione delle competenze individuali dei nostri studenti.
Per predire l’insuccesso scolastico, l’Istituto qui prende in esame:
“dati di tre coorti, quella in uscita nel 2019, 2021 e 2022; poiché si tratta di studenti in uscita dal grado 13 [ultimo anno scuola secondaria secondo grado] l’intera carriera degli studenti è considerata a ritroso. Per ogni studente sono stati recuperati i punteggi precedenti e tutte le informazioni di contesto familiare, geografico e scolastico disponibili nel tempo in modo da avere un dataset quanto più completo possibile.”
L’INVALSI assicura che l’algoritmo di machine learning messo a punto “consente con buon livello di accuratezza di prevedere il rischio di insuccesso scolastico”.
L’uso dell’intelligenza artificiale non è una novità per l’Istituto di valutazione. Algoritmi di machine learning supervisionato sono già al lavoro per codificare le risposte aperte nei test INVALSI di tutti gli studenti italiani. Automatizzare il processo di correzione riduce efficacemente le ore/lavoro. Ci sarebbe da chiedersi qual è il grado di accuratezza e replicabilità delle operazioni di codifica, visto che sono proprio gli esiti dei test a classificare gli studenti come fragili, adeguati o eccellenti. La mancanza di spiegabilità rappresenta un enorme problema di trasparenza.
2) Dati, profili, utopia delle regole
La trasformazione delle scuole in infrastrutture datificate in maniera intensiva ha subito un’accelerazione senza precedenti nell’ultimo decennio. Se proviamo a pensare alla complessa architettura di dati che oggi si intrecciano nel nostro sistema scolastico, troviamo[6]:
1) a partire da quest’anno, i dati di tutti gli studenti registrati nella nuova piattaforma centralizzata UNICA. Ogni allievo possiede un profilo personale e costruisce il suo e-portfolio, evidenziando eventuali eccellenze (vedi “il capolavoro” introdotto dalla riforma dell’orientamento) e segnalando il proprio vantaggio scolastico ed extrascolastico (crediti o certificati di varia natura). I nuovi docenti tutor facilitano e supportano questa attività;
2) i dati degli studenti classificati appunto come “fragili” dall’INVALSI, cui hanno accesso dirigente, docenti preposti alla riduzione della dispersione scolastica o interi consigli di classe, a seconda delle scelte di istituto. Tra questi profili si selezionano gli allievi da potenziare e ri-motivare. I loro accessi alla piattaforma di mentoring e tutoraggio sono monitorati;
3) i dati di accesso di tutti gli studenti alla piattaforma utilizzata dall’INVALSI da quanto i test non sono più cartacei. L’Istituto, con i questionari studenti, acquisisce anche informazioni familiari, di contesto o relative a tratti personali;
4) i dati delle competenze individuali di tutti gli studenti a fine II ciclo, certificate dallo stesso istituto INVALSI, e accessibili tramite ulteriore piattaforma Bestr, del consorzio Cineca;
5) i dati della piattaforma Scuola in Chiaro, in cui sono contenuti i documenti istituzionali di valutazione e rendicontazione di tutti gli istituti (RAV, PdM, Bilancio Sociale), accessibili alle famiglie, le cui scelte possono essere indirizzate e guidate dagli indicatori che le scuole selezionano per garantirsi la maggiore visibilità;
6) non dimentichiamo i dati dei registri elettronici, cui accede quotidianamente ciascun docente, segnalando attività, presenze, uscite, ritardi, valutazioni, annotazioni. Il monitoraggio delle attività studentesche è, in linea di principio, totale. I genitori possono conoscere tutto ciò che accade in classe, ora dopo ora, ancor prima di venirlo a sapere dai propri figli.
7) In particolari sezioni dei registri è possibile visualizzare le attività di Alternanza Scuola Lavoro (PCTO) svolte dagli studenti coinvolti in progetti con aziende, società, enti pubblici o privati. I docenti referenti monitorano comportamenti e risultati dei singoli progetti.
E ancora:
8) per ciascun docente esiste un profilo digitale e un portfolio individuale nella piattaforma SOFIA, che registra il grado di partecipazione ai progetti di formazione professionale continua, ambito in cui molte novità ci attendono dalla riforma della formazione dei docenti (sempre PNRR). Restiamo infatti in attesa delle deliberazioni della nascente SAFI, Scuola di Alta Formazione Insegnanti, il cui Presidente, Pof. Giuseppe Bertagna, e Comitato di Indirizzo sono stati da poco nominati. Il Presidente dell’INVALSI, Roberto Ricci, e la Presidentessa dell’INDIRE, Cristina Greco, la cui metafora del docente-coreografo ha dato avvio a questa riflessione, ne sono membri.
Come tutti i sistemi socio-tecnici[7], anche l’infrastruttura dei dati educativi non è un semplice sistema di archiviazione o rendicontazione amministrativa. Gli insegnanti e gli studenti sono soggetti coinvolti attivamente, influenzati dalla produzione di dati e dalla loro aggregazione. Le piattaforme e i database digitali guidano le loro scelte, attraverso la leggibilità automatica delle informazioni; comunicano stili di pensiero; rendono visibili alcuni aspetti e ne opacizzano altri, in maniera spesso non flessibile; decontestualizzano, forniscono istantanee statiche di processi e risultati a partire dai quali prende forma una nuova mentalità educativa orientata alla previsione e all’ottimizzazione. Gli archivi digitali non sono sistemi neutrali, ma meccanismi di registrazione che acquisiscono valore normativo e dinamico, introducendo schemi e regole, contribuendo a dar forma alle aspirazioni degli allievi e trasformando la professionalità docente. Sebbene si tenti di rendere affascinante per gli insegnanti tali trasformazioni con metafore sempre nuove (il coreografo) e narrazioni orientate al bene comune, la realtà è che ciascun docente, quotidianamente, fa ancora i conti con gli stessi spazi di sempre, seppur rinnovati negli arredi e nelle dotazioni tecnologiche; con tempi sempre più contratti e frammentati per la programmazione didattica; con attriti e conflitti relazionali, con nuove forme di subordinazione e di solitudine, oltre che con lo stesso salario e la stessa precarietà. L’insegnante coreografo resta il travet di cui la scuola del capitale umano ha bisogno, ciclicamente formato all’uso di macchine di ultima generazione, ma progressivamente espropriato di autonomia progettuale, immaginazione e capacità esprimere giudizi fondati sull’esperienza. Il paradigma della misurabilità totale e la “fissazione per le metriche”, coniugati alle enormi disponibilità di dati e strumenti informatici, danno vita nel mondo della scuola a una nuova forma di “utopia delle regole”, di cui ha scritto David Graeber: un misto tra ottusità, incantamento tecnologico e sottile fascino per l’ordine burocratico. La cultura della valutazione e le tecnologie digitali si intrecciano. Siamo in grado di seguire i profili degli studenti fin dall’infanzia; di attribuire valore, significato sociale e fare previsioni a partire dalle informazioni che essi contengono. Possiamo utilizzare le scie di dati prodotti dalle interazioni didattiche con strumenti e piattaforme digitali per personalizzare l’apprendimento e misurarne in tempo reale i progressi: i dati ci indicano le traiettorie dei destini individuali. Le Big Tech e la politica ci dicono che grazie alle loro correlazioni potremo prevenire problemi come la dispersione o l’abbandono scolastico. Dinanzi all’incessante retorica dell’innovazione digitale e delle sue presunte capacità di migliorare scuola e società, abbiamo il dovere di prendere tempo. Fermarci a ragionare su rischi e danni potenziali e probabili, sui costi sociali e ambientali; cercare di capire i meccanismi di funzionamento, resistere all’adozione frettolosa, alla paura di esser tagliati fuori, di perdere i finanziamenti e subire pressioni gerarchiche. Più ci affidiamo ai dati per prendere decisioni e attribuire valore, e più diventa importante poter comprendere e contestare quei dati; riflettere su cosa stiamo trascurando e a quali forme di conoscenza e di valore più profondi stiamo rinunciando.
Note
[1] Si tratta di altre locuzioni onnipresenti quando si parla di scuola, presentate come fini non discutibili, generalmente senza troppa attenzione ai mezzi con cui perseguirli.
[2] La “lotta alla dispersione scolastica” è uno dei traguardi e degli obiettivi centrali dal PNRR, nell’ambito della cosiddetta missione per la riduzione dei divari territoriali, con un finanziamento di 1,5 miliardi fino al 2026.
[3] Rimandiamo ad alcuni approfondimenti:
https://www.roars.it/fondi-alle-scuole-sulla-base-di-inattendibili-indicatori-invalsi-la-tecnocrazia-compassionevole/ ; https://www.roars.it/schedatura-di-stato-invalsi-nomi-e-cognomi-degli-studenti-disagiati-e-adesso/
[4] Sull’attribuzione algoritmica degli esiti dei test INVALSi rimandiamo a: https://www.roars.it/1-il-tuo-futuro-e-scritto-nei-test-invalsi-le-preoccupazioni-del-garante-della-privacy/
[5] Traduzione dal pdf allegato al link.
[6] Qui non prendiamo in considerazione i dati prodotti dalle pratiche didattiche degli insegnanti in classe, a cui abbiamo accennato nel paragrafo precedente, che possono coinvolgere l’uso di piattaforme commerciali come GSuite o Microsoft Teams, ormai diffuse in tutte le scuole. Un’inchiesta interessante su dati e piattaforme proprietarie è stata recentemente condotta da Stefano Zoja per Altreconomia: https://altreconomia.it/la-scuola-italiana-al-mercato-dei-dati/
[7] Teresa Numerico “Big Data e algoritmi digitali. Prospettive critiche”, Carocci Editore, 2022, in particolare capitolo 3.
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