Dal colonialismo sanitario ai barbari epistemici. La nuova Africa è l’Europa?
di GIUBBE ROSSE NEWS (Redazione)
Alla fine di febbraio 2024 un gruppo di scienziati africani riuniti sotto la sigla del “Pan-Africa Epidemic and Pandemic Working Group” ha diffuso un duro documento di critica del cosiddetto “Trattato Pandemico” dell’OMS, che viene definito apertamente uno strumento di ricolonizzazione: “Un approccio specifico per l’Africa dovrebbe sostituire l’approccio sempre più colonialista di coloro che ora controllano l’agenda dell’OMS. I governi africani devono rivendicare il diritto di scrutinare il ruolo degli organismi sanitari internazionali che hanno sede in Occidente.” Come spiega in questo suo recente saggio Domenico Fiormonte, nel contesto scientifico e accademico africano queste denunce non sono affatto nuove. E il processo di “colonizzazione sanitaria” subito dall’Africa negli ultimi trent’anni ha molti punti di contatto con quanto è accaduto in occidente durante la pandemia.
di Domenico Fiormonte, fonte: La Fionda
Perché scrivo questo libro? Perché condivido l’angoscia di Gramsci: “Il vecchio mondo è morto. Il nuovo è di là da venire ed è in questo chiaro-scuro che sorgono i mostri”. Il mostro fascista, nato dalle viscere della modernità occidentale. Da qui la mia domanda: che cosa offrire ai Bianchi in cambio del loro declino e delle guerre che questo annuncia? Una sola risposta: la pace. Un solo mezzo: l’amore rivoluzionario.
Houria Bouteldja
1. Colonialismo sanitario. L’Africa e il caso di Ebola
Tra il 2017 e il 2018 Helen Lauer, filosofa della scienza che lavora da trent’anni in Africa e docente all’Università di Dar es Salaam (Tanzania), ha pubblicato una serie di fondamentali ricerche che denunciano gli effetti dell’agenda sanitaria globalista sulla salute pubblica in Africa. In realtà nel cosiddetto Sud Globale si discute da anni di questi problemi, ma poco o nulla trapela all’interno dello sfinito mondo universitario europeo, per non parlare dei media mainstream. Dico subito che si tratta di studi che oggi, a due anni di distanza dalla pandemia COVID, probabilmente nessuna rivista accademica pubblicherebbe. E le ragioni appariranno chiare a breve. Le ricerche condotte da Lauer ci offrono un’efficace rappresentazione del cosiddetto colonialismo sanitario, fenomeno assai diffuso e che, come vedremo nella seconda parte, ha investito in pieno anche l’occidente. Fa da sfondo alla sua analisi il concetto di ingiustizia epistemica, cioè (molto in sintesi) quelle ingiustizie generate da un accesso diseguale ai mezzi di produzione, rappresentazione e diffusione della conoscenza. Cercherò qui di riassumere il contributo che si intitola The Importance of an African Social Epistemology to Improve Public Health and Increase Life Expectancy in Africa. Sebbene il lavoro sia stato pubblicato nel 2017, i temi che affronta sono attualissimi: modello emergenziale della salute pubblica, globalizzazione e privatizzazione della sanità (“un pianeta, una malattia, una cura”), effetti della ristrutturazione del debito sui servizi pubblici, ruolo ambiguo di ONG, fondazioni e donors vari, neocolonizzazione culturale (la scienza è solo quella fatta e gestita da occidentali), soluzionismo tecnologico (test PCR, vaccini, ecc.), manipolazione dei dati, negazione, svilimento e invisibilizzazione delle scelte sanitarie e delle soluzioni terapeutiche “locali”, ecc.
Obiettivo dichiarato dell’autrice è quello di interrogarsi sulla «legittimità della scienza sottesa alle strategie sanitarie globali» quando queste si applicano alle popolazioni africane. La filosofa afferma che lo stesso approccio estrattivista e neocoloniale può essere osservato in altri campi, come ad esempio nella promozione delle monocolture da parte delle multinazionali dell’agrobusiness sotto etichette come “rivoluzione verde africana” oppure nello sfruttamento delle risorse minerarie ed energetiche da parte delle industrie occidentali (e aggiungiamo noi, oggi anche cinesi e indiane). Tuttavia, nessuna critica, per quanto basata su fatti e informazioni solide e attendibili, è riuscita a scalfire la convinzione occidentale che l’Africa abbia bisogno di «più importazione di farmaci sperimentali a prezzi accessibili e più importazione di vaccini». Com’è noto la creazione di un mercato farmaceutico sostenibile nelle economie più fragili è sin dal 2015 una delle priorità in cima alla lista dei sustainable millennium development goals [obiettivi del millennio per lo sviluppo sostenibile n. d. r.] delle Nazioni Unite.
Il caso di studio affrontato da Lauer è la crisi in Africa del virus Ebola. Descritto sul sito dell’ISS come uno dei virus più aggressivi noti alla scienza, nell’immaginario occidentale un tale flagello non poteva che originare dal continente nero (come altre malattie oggi ovviamente veicolate dagli immigrati, virulenti ricettacoli di patogeni). Dunque, da sempre, per ridurre i rischi (nostri) è sembrato giusto, a OMS e Big Pharma (ma mi sto ripetendo), esercitarsi in questi territori così ricchi di morbi e così poveri di tutto il resto.
Lauer si domanda: come mai a livello globale non viene mai sollevata l’attendibilità e verificabilità dei dati epidemiologici raccolti nei paesi africani? Analizzando i dati sul numero dei casi settimanali di Ebola in Liberia forniti dall’OMS e dal Center for Diseases Control and Immunization degli Stati Uniti nell’ultimo quarto del 2014, la studiosa osserva:
“Ma nemmeno a distanza di tempo il CDC e l’OMS sono disposti a fornire dati su quanti di questi decessi fossero maschi, o di quanti fossero bambini sotto i dodici anni, o di quanti pazienti nelle stesse località e nello stesso periodo fossero morti di malaria o di tubercolosi o di shock diabetico, di polmonite, di gastroenterite o di malattie legate alla malnutrizione”.
Se aggiungiamo che i test sierologici non sono affidabili e che le diagnosi vengono collegate all’eventualità che il paziente sia venuto o meno in contatto con persone provenienti da Liberia, Sierra Leone o Guinea, si può concludere, afferma la ricercatrice, che “il numero di casi di Ebola in Africa Occidentale nel periodo 2014-2015 dipende principalmente da come e dove si inizia a contare.”
Lo scenario non migliora se consideriamo le metodologie diagnostiche (a iniziare da un vecchio conoscente, il test PCR): «potevano passare molti giorni prima che i risultati dei test venissero trasmessi dal laboratorio alle cliniche – ammesso che lo fossero. Ogni volta che un paziente è morto prima che venissero trasmessi i risultati dei test, il decesso è stato registrato come legato all’Ebola». L’autrice enumera una serie di casi di “incertezza diagnostica” (la normalità nelle regioni tropicali), fra cui quelli della Liberia, del Ghana e della Guinea:
“Un’ulteriore fonte di caos e sfiducia in Guinea è stata causata nell’ottobre 2014 da un’epidemia di setticemia acuta fulminante da meningococco, dovuta all’uso errato di fiale surriscaldate in una campagna di vaccinazione per la meningite organizzata dallo statunitense Centre for Diseases Control. Poiché il CDC non ha reso noto l’errore, i violenti sintomi sono stati ricondotti all’Ebola”.
Nell’ottobre 2014, subito prima dell’invio di truppe statunitensi in Liberia, l’OMS stimò che entro la fine del 2014 il numero dei nuovi casi di Ebola avrebbe raggiunto la quota di cinque o diecimila a settimana. Il CDC fece trapelare le sue stime attraverso Associated Press e Reuters indicando che per la metà di gennaio 2015 ci sarebbero stati quasi 1.4 milioni di casi in tutta l’Africa occidentale. Quando l’arbitrarietà e “assurdità” di queste stime divenne evidente, non ci fu nessuna ammissione da parte di queste organizzazioni, con conseguenze potenzialmente devastanti sulla popolazione.
In conclusione, afferma Lauer, «si può presumere che la risposta internazionale a Ebola potrebbe aver causato molte più vittime di quelle che il virus stesso era in grado di infettare». Questo anche perché durante la crisi dichiarata di Ebola centinaia di migliaia di persone furono dissuase dal recarsi negli ospedali o nei centri sanitari: nel 2014, dopo che la Guinea fu dichiarata ad alto rischio Ebola, si stima che non poterono essere curati circa 74.000 casi di malaria.
La ricercatrice americana non esita a denunciare i meccanismi di funzionamento della filiera economica, politica, industriale, mediatica e scientifica che espropriano la salute degli africani. Una volta avviata la narrazione emergenziale nei media (questo è un punto chiave che verrà approfondito dall’autrice in un altro contributo) «i mega trasferimenti di capitale affluiscono rapidamente dalle casse pubbliche dei paesi ricchi ai consorzi delle multinazionali del farmaco; questi conglomerati commerciali miliardari sono quindi in grado di decidere quali prodotti utilizzare per inondare i mercati africani, dimostrandone l’efficacia nel mitigare la malattia e raccogliendo ingenti dividendi annuali nel lungo periodo». Da un lato, dunque, si tratta del classico schema della cosiddetta cooperazione internazionale, una partita di giro dove i finanziamenti ritornano nelle mani dei finanziatori attraverso l’imposizione di proprie tecnologie, risorse, prodotti e costi del personale occidentale; ma dall’altro tale processo consegna a Big Pharma non solo un mercato, ma un immenso (e gratuito) bacino umano di ricerca e sperimentazione.
La penultima sezione dello studio illustra le strategie attraverso cui la macchina sanitaria globale (composta da soggetti oramai in gran parte noti, fra cui un nutrito gruppo di rappresentanze militari di Stati Uniti, Regno Unito e Cina) delegittimi portatori di interessi e conoscenze locali, instaurando quella che l’autrice definisce un’egemonia ermeneutica. I soggetti locali, anche quando si tratta di medici e ricercatori esperti che operano sul proprio territorio, vengono sistematicamente ignorati o estromessi: d’altro canto sono gli stranieri e non gli africani ad avere il ruolo di interpretare i bisogni e le esigenze degli africani – ovviamente non solo nel settore della sanità – giacché sono loro a gestire i programmi di sviluppo. Infine, l’ultima sezione è dedicata a sottolineare l’importanza delle tradizioni scientifico-epistemologie africane e agli ovvi vantaggi di impiegare conoscenze e risorse locali nella comprensione, gestione e soluzione di problemi locali. A questo riguardo sarebbe interessante approfondire alcuni dei nodi teorici lasciati impliciti o solo accennati da Lauer, come per esempio il fatto che una convivenza fra epistemologie (o come molti amano dire oggi cosmovisioni) appare impossibile nel contesto attuale, poiché gran parte dell’epistemologia occidentale moderna è inscindibile dal colonialismo: quindi non si dà episteme senza violenza epistemica. Com’è noto alcune discipline scientifiche chiave, per esempio medicina e antropologia, come notava Foucault, hanno come atto fondativo un certificato di morte: l’una inizia con un cadavere, l’altra con la distruzione delle forme di vita che analizza. Ma questa intrinseca violenza inter-epistemologica, va sottolineato, storicamente non è una caratteristica soltanto dell’occidente bianco e cristiano.
Interrompo qui questa mia sommaria recensione dell’articolo di Helen Lauer: già da questo florilegio, tuttavia, è impossibile evitare la fortissima sensazione di dejà vu. Ciò che racconta la filosofa americana sembra il trailer, anzi il teaser di un film che nel 2017 era ancora in preparazione: come è noto abbiamo dovuto attendere il 2020 per vedere sugli schermi il kolossal completo.
2. La violenza coloniale ingloba i propri confini. Unione dei barbari epistemici?
Mentre scrivo stiamo assistendo alla disintegrazione di ciò che rimaneva dell’impero coloniale francese nell’Africa occidentale. Il Sud Africa denuncia Israele per genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia, guidando la protesta di molti paesi del Sud Globale contro la politica occidentale in Medio Oriente, mentre la Nigeria, una delle economie più importanti del continente, chiede di entrare nei BRICS e di vendere il proprio petrolio nella valuta nazionale. Sono eventi impensabili solo pochissimi anni fa: è evidente che l’apparato egemonico occidentale è in una crisi profonda che esplode nel continente martoriato da cinque secoli di violenze. Indubbiamente il processo di decolonizzazione dell’Africa è ancora lento e irto di ostacoli, ma non potrà essere arrestato. E qui arriviamo al punto che mi interessa di più. Alcuni giustamente hanno osservato che non potendo più colonizzare gli altri, l’impero occidentale sta colonizzando sé stesso. La terzomondializzazione, iniziata già molti anni fa, appare per il capitalismo occidentale, una scelta tanto disperata quanto obbligata. In questa seconda parte cercherò di argomentare come in occidente la violenza di tutti gli apparati di potere (governi, scienza, media, sanità, giustizia, ecc.) a partire dalla pandemia si presenti come una variante ferocemente aggiornata della violenza coloniale.
Per usare le parole di Frantz Fanon, il colonialismo non sarebbe stato sostenibile nel tempo attraverso la sola violenza militare: è solo quando i colonizzati accettano e interiorizzano la superiorità del colonizzatore, indossandone la maschera e provando vergogna per sé stessi e la propria cultura, che il processo si può dire effettivamente concluso. L’auto-svuotamento identitario e le riscritture della storia in favore dei vincitori (e culturalmente egemoni) tuttavia non hanno caratterizzato solo le colonie al di là del mare, ma anche i margini interni dei paesi cosiddetti egemoni. È il caso di tutti gli stati europei moderni sorti dopo la fluidità statuale medievale, Italia inclusa, dove il Risorgimento, ultimo fra i movimenti di uniformazione, come annotava Gramsci fu anche un processo di colonizzazione del Nord nei confronti del Sud.
Edward Said nel suo testo chiave, Orientalismo (1978), osservava che lo sguardo che l’occidente posa sull’oriente e il “sistema di rappresentazioni” che ne deriva è sempre un progetto politico. Per le stesse ragioni, ogni forma di rappresentazione creata, gestita e diffusa dai poteri egemoni è un atto politico di natura intrinsecamente coloniale e dunque violenta.
Dunque per comprendere l’attuale progetto politico delle élites globaliste (che include i conflitti in corso, dall’Ucraina alla Palestina) a mio parere è necessario tornare ai classici del pensiero post-coloniale e decoloniale. Prendiamo il celebre passaggio del Discorso sul colonialismo (1955) dove Aimé Césaire, scrittore, poeta e politico martinicano, propone il più scandaloso e inaccettabile dei paragoni: ciò che Hitler fece all’Europa non è diverso da ciò che l’Europa fece all’Africa. Per Césaire non si tratta di un semplice parallelismo. Hitler non è un caso isolato, un mostro, un unicum fuori dalla storia, ma è la conseguenza, e forse nemmeno la più grave, della decivilizzazione e dell’imbarbarimento del continente europeo:
“Bisognerebbe innanzitutto studiare in che modo la colonizzazione contribuisce a decivilizzare il colonizzatore, ad abbrutirlo nel vero senso della parola, a degradarlo, risvegliare in lui quegli istinti reconditi di cupidigia, di violenza, di odio razziale, di relativismo morale… (…). Sì, varrebbe proprio la pena di studiare, clinicamente, in dettaglio, tutti i passi di Hitler e dell’hitlerismo, per rivelare al borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo, che anch’egli porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso; ovvero, che Hitler abita in lui, che Hitler è il suo demone e che, pur biasimandolo, manca di coerenza, perché in fondo ciò che non perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, non è l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco, l’umiliazione dell’uomo bianco, il fatto di aver applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie dell’India e dei negri dell’Africa”.
Il capitalismo occidentale, vieppiù nella sua attuale versione digitale e autoritaria, sembra condannato a ripetere, su una scala sempre più granulare, la violenza coloniale. Colonizzare, come abbiamo visto, non vuol dire solo schiavizzare e sterminare l’indigeno, ma in generale violentare la diversità, trasformandola in un elemento trascurabile prima, indesiderabile poi. Poiché l’obiettivo di tutti i colonialismi, intrinseci ed estrinseci, è sempre lo stesso: la distruzione delle diversità culturali e biologiche e l’introduzione di standard e modelli universalizzanti in campo politico, economico, alimentare, sanitario, sessuale, educativo, mediatico, ecc. Non importa quale forma assuma la diversità, perché ogni alternativa epistemica per il potere (lo abbiamo visto con Said) è potenzialmente eversiva. Per evitare che la conoscenza evolva in pericolosa coscienza politica il sistema mette in campo i propri enti certificatori delle verità accettabili. Foucault usava il termine “regimi di verità” (régimes de véridiction), perché secondo il filosofo francese non è tanto importante stabilire cosa sia vero e cosa sia falso (scienza, anti-scienza, ecc.), ma possedere il tavolo su cui vero e falso fingono di giocare la loro partita (il croupier vince sempre). L’importante è avere il saldo controllo della filiera della veridizione che è composta principalmente da tre livelli: accademie e centri di ricerca, apparati educativi di ogni ordine e grado e organi dell’informazione. Oggi questi tre livelli sono tenuti insieme dal processo di piattaformizzazione, cioè dalla progressiva trasformazione degli ex capisaldi della società moderna in servizi online. Si tratta di uno slittamento complesso che implica anche un rimescolamento dei poteri, ma non dobbiamo farci illusioni sull’esito di questi scontri. Come dimostra l’evoluzione delle tecnologie di comunicazione, dal telegrafo alla rete, è attraverso la creazione e imposizione di standard che gli imperi costruiscono e consolidano i loro poteri. La piattaformizzazione (e le cosiddette intelligenze artificiali che animeranno i loro servizi) è l’ennesima e forse la più pericolosa incarnazione dell’idea d’impero coloniale, universale e monoculturale.
Gli ultimi vent’anni di autocolonialismo e militarizzazione di ogni interstizio, insieme al rafforzamento di standard anglofoni globali, che vanno dalla NATO all’OMS, dal Fondo Monetario al WTO, da GAFAM agli oligopoli dell’editoria scientifica, hanno visto la parallela creazione di due categorie di umani residuali o indesiderabili (a volte sovrapponibili): gli schiavi digitali e i dissonanti. In coerenza con il processo di auto-colonizzazione vengono introdotte e legittimate nuove forme di asservimento e autoasservimento, che vanno dal “lavoro” inconsapevole che svolgiamo ogni secondo con il nostro smartphone (che viene monetizzato dalle applicazioni), a forme esplicite di sfruttamento della forza lavoro, come le click farm e la vasta galassia dei gig worker. Ma la caratteristica forse più evidente della schiavizzazione sono gli ossessivi e capillari meccanismi di controllo dei lavoratori oggi resi ancora più distopici dall’uso dell’intelligenza artificiale. Non si tratta solo di gestione algoritmica dei rapporti di lavoro, con tutti i rischi che comporta, ma della raccolta e analisi sistematica, totale e h24, di tutte le interazioni dei lavoratori sulle piattaforme delle aziende. Alla ricerca forse dello psicoreato, le aziende americane che usano tali software di IA (fra cui Walmart, Chevron, Starbucks e AstraZeneca: si parla dei dati di tre milioni di lavoratori) sprofondano in una dimensione sconosciuta dello sfruttamento, dove i legislatori sono impotenti, giacché tali attività avvengono nella completa oscurità.
La seconda categoria rappresenta il riflesso condizionato generato dalle imposizioni del potere, quindi il rifiuto, l’opposizione, la dissidenza; sono i “no-qualcosa”: no Nato, no global, no euro, no tav, no sbarchi, no ponte, no 5G e naturalmente no vax e no pass. Nella vasta galassia del “no”, vagano complottisti, negazionisti, ecc., ma spesso anche movimenti trasversali antisistema come i gilet gialli e recentemente gli agricoltori di tutta Europa. L’abbrutimento, la regressione democratica e la decivilizzazione di cui parlava Césaire hanno raggiunto il culmine durante la pandemia, dove qualsiasi barriera, qualsiasi filtro fra gli obiettivi del potere e le pulsioni delle masse è crollato. In particolare, nei ceti medio-alti d’Europa e dei paesi CANZUS (Canada, Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti) si è arrivati a una pressocché totale identificazione fra governi e governati (con tratti di schizofrenia nelle fasce ex “antisistema” e progressiste). I meccanismi che hanno prodotto questa saldatura fra l’opinione pubblica mainstream e la violenza governativa sono stati analizzati in molteplici studi che non è possibile qui riassumere, ma a ogni modo il passaggio dalla pseudo-tolleranza alla criminalizzazione è stato frettoloso e inesorabile. (Mi sia permesso un inciso: il vero antenato del green pass non furono le tessere nazi-fasciste o i vari marchi impressi sui corpi dei reietti di ogni epoca, ma le impronte digitali. Come ricorda lo storico Carlo Ginzburg, l’impronta digitale fu la perversa appropriazione indebita da parte dei colonizzatori britannici di pratiche indigene di origine probabilmente rituale. Lì dove l’indigeno percepisce il sacro, l’uomo bianco vede il dominio.)
Grazie a strumenti legalizzati di sorveglianza di massa come Chat control e Digital Service Act oggi chi dissente nel migliore dei casi può essere silenziato o censurato, nel peggiore può essere accusato di una serie di reati: questi sono gli esiti politici della violenza epistemica. Come ricordavamo, il meccanismo coloniale non si può fermare finché non ha distrutto o assorbito completamente il rappresentante di una conoscenza illegittima e pericolosa: potremmo definire questo individuo un barbaro epistemico, il quale viene assunto a simbolo di una alterità incomprensibile e ripugnante. In questo furore fagocitante persino il “vecchio” capitalismo, ancora basato sulla lotta fra classi di esseri umani, può divenire un ostacolo al processo di de-civilizzazione autocoloniale (e digitale).
Ma, arrivati sin qui, per coerenza rispetto al ragionamento fatto, occorre anche affermare che così come il colonialismo storico provocò movimenti di liberazione epocali, la colonizzazione o auto-colonizzazione dell’occidente può rivelarsi, specialmente per l’Europa, una formidabile occasione per fare i conti una volta per tutte con la propria storia. Arrivo così al bellissimo testo citato in esergo: I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario di Houria Bouteldja, francese di origine algerina (dunque donna e musulmana, due categorie che in occidente siamo abituati a scindere). Un libro brillante, controverso e indigesto sia ai monopoli del consenso sia a quelli del dissenso. Fondatrice in Francia del Parti des Indigènes de la Republique (sciolto nel 2020) e leader del movimento decoloniale, negli ultimi anni Bouteldja ha sviluppato una riflessione politica basata sul concetto di “stato razziale” e sulla ricerca di alternative pacifiche «a una società occidentale in declino». Oggi Bouteldja legge la crisi delle classi popolari bianche francesi come una opportunità per saldare la protesta antirazzista dei “barbari” delle banlieue con quella dei “bifolchi” (beaufs), i petit blancs schiacciati dalle feroci politiche neoliberiste dell’Unione Europea. «La barbarie che arriva», scrive, «non ci risparmierà, ma non risparmierà nemmeno voi». È necessario allora un luogo d’incontro «all’incrocio dei nostri interessi comuni – la paura della guerra civile e del caos – là dove si possano annullare le razze e dove sia prevista la nostra uguale dignità».
La scrittrice franco-algerina si scaglia poi contro alcuni dei totem progressisti delle moderne società occidentali che considera tuttavia inscindibili dal “crimine coloniale”: diritti dell’uomo, universalismo, umanesimo, femminismo, terzomondismo, marxismo. A proposito del rapporto fra colonialismo e Rivoluzione francese, scrive: «ciò che voglio dire, sorelle, è che le società europee erano orrendamente ingiuste verso le donne (…) ma che queste, grazie all’espansione capitalista e coloniale, hanno ampiamente migliorato la propria condizione a detrimento dei popoli colonizzati». È nella pagina successiva, citando lo scrittore e poeta afroamericano James Baldwin, figura di spicco del movimento per i diritti civili, che si arriva al cuore politico della questione:
“A Baldwin che le rimproverava [a Audre Lord] di imputare troppo agli uomini neri, la femminista afroamericana risponde: «Io non biasimo gli uomini neri. Ciò che dico è che bisogna che noi rivediamo il nostro modo di combattere la nostra oppressione comune, perché se non lo facciamo ci autodistruggeremo [we’re gonna be blowing each other up].» (…) Baldwin replica: «Ma questo significa che dobbiamo ridefinire i termini dell’Occidente»”.
L’affermazione di Lord sulla possibilità di un conflitto “mortale” fra oppressi, senza negarne la problematicità e specificità, suona come una profezia in linea con un’altra profezia, fatta da un personaggio che certo poco aveva a che vedere con le Pantere Nere, ma molto con la disobbedienza civile e la lotta al colonialismo: Gandhi. Non mi sembra un caso che nelle utopiche conclusioni di I bianchi, gli ebrei e noi, appaia una lunga citazione di Ashis Nandy, un importante studioso del pensiero gandhiano. In Hind Swaraj, l’incendiario atto di accusa nei confronti della modernità occidentale, Gandhi scrisse che un incontro fra Occidente e Oriente sarebbe stato possibile solo se l’Occidente avesse rinunciato alla civiltà moderna basata sulla violenza. Se questo non fosse accaduto, non solo non si sarebbe avuto un incontro, ma l’Oriente avrebbe fatalmente seguito l’Occidente, divenendo un suo doppio, fino alla collisione finale fra i due mondi. Esattamente ciò che sta avvenendo.
Osservare la violenza di cui siamo soggetto-oggetto, allora, è forse l’unico modo per uscire dal secolare inganno che contrappone i “sacrificati” d’Europa a quelli dell’ex terzo mondo. Il movimento più radicalmente e genuinamente rivoluzionario che ci attende è quello di iniziare a considerarci non come popoli perdenti o vincitori su una scacchiera geopolitica manipolata da vecchi e nuovi imperi, ma come popoli diversamente oppressi. Non sono così ingenuo o idealista da non vedere che esistono vari gradi di oppressione, diseguaglianze e discriminazione. Il capitalismo ha trionfato creando l’illusione dei privilegi di casta: all’esterno la favola “qui è la democrazia e il benessere, di là sanguinose dittature e miseria”; all’interno la contrapposizione fra diseredati, nelle combinazioni più varie a seconda di convenienze e stagioni. Ma oltre al fatto che queste illusioni stanno svanendo velocemente, come suggerisce Bouteldja, forse noi stessi, in quanto bianchi ed europei (certamente lo è chi scrive), siamo un’“invenzione”, una delle tante categorie di comodo – stili di vita, strutture di pensiero, codici, epistemologie – create dalle élite per perpetuare il loro dominio. Non diversamente da chi è stato storicamente oppresso in nome di un benessere che non c’è più, siamo personaggi subalterni; oggi confinati nella bolla afona dei social, domani tutti, bianchi e neri, neo o auto-colonizzati, dispositivi gestiti da remoto. Da questo punto di vista, l’esperimento coloniale definitivo, quello dove è più evidente la trasformazione violenta della società, abita nel cuore dell’Europa. E il vero processo di decolonizzazione non può che iniziare all’interno dei nostri confini e delle nostre coscienze. Prendendo atto che l’Africa e tutto il Sud del mondo hanno molto da insegnarci.
Domenico Fiormonte (docente di Sociologia della Comunicazione presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Roma Tre)
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