Perdita di potere e deriva autoritaria dell’Occidente
di ROBERTO IANNUZZI
Dal rinnovato militarismo alla repressione delle proteste universitarie, ultimo presidio di democrazia, le élite occidentali si mostrano incapaci di leggere la mutata realtà globale.
Proteste a sostegno della Palestina alla Columbia University (SWinxy, CC BY-SA 4.0)
Con una spesa militare globale che continua a crescere, avendo toccato lo scorso anno la cifra record di 2,443 trilioni di dollari, la parte del leone continuano a farla i paesi occidentali e i loro alleati (dove risiede un sesto della popolazione mondiale), i quali contribuiscono a circa due terzi di essa.
Ciò non sembra rassicurare i nostri leader su nessuna delle due sponde dell’Atlantico, malgrado il pacchetto da 95 miliardi di dollari recentemente approvato dal Congresso USA per sostenere militarmente Ucraina, Israele e Taiwan.
Difendere l’egemonia occidentale
Da oltreoceano continuano a giungere appelli, debitamente rilanciati dai politici del vecchio continente, affinché l’Europa si riarmi per impedire una sempre più probabile vittoria russa in Ucraina, che potrebbe preludere nientemeno che a un attacco di Mosca alla NATO.
Ultimo a lanciare l’allarme, in ordine di tempo, è stato l’ex premier britannico Boris Johnson, il quale ha affermato che, se Kiev verrà sconfitta dai russi, “sarà una totale umiliazione” per i paesi occidentali, ed anche “un punto di svolta nella storia, il momento in cui l’Occidente perderà definitivamente la sua egemonia”.
I timori di Johnson non sono nulla di nuovo. I leader occidentali sono terrorizzati all’idea di perdere la supremazia mondiale.
Nel rapporto annuale dell’intelligence USA, pubblicato lo scorso febbraio, si legge che gli Stati Uniti devono “affrontare un ordine globale sempre più fragile, messo a dura prova dall’intensificarsi della concorrenza strategica tra le maggiori potenze, da sfide transnazionali più intense e imprevedibili, e da molteplici conflitti regionali con implicazioni di vasta portata”.
In questo quadro, “una Cina ambiziosa quanto ansiosa, una Russia conflittuale, alcune potenze regionali come l’Iran, e attori non statuali più capaci stanno sfidando le regole di vecchia data del sistema internazionale e il primato degli Stati Uniti al suo interno”.
Riduzione degli spazi democratici
Naturalmente, nulla si dice delle enormi responsabilità occidentali nella destabilizzazione di tale ordine, dalla devastazione del Medio Oriente, alla creazione delle premesse che hanno portato al conflitto ucraino, al processo di finanziarizzazione e deindustrializzazione che ha finito per avvantaggiare la Cina.
La tesi ufficiale di un Occidente “democratico” assediato dalle “autocrazie” non può essere messa in discussione, pena il crollo di una narrazione che chiede di riarmarsi contro le “aggressioni” esterne anche a costo di ennesimi sacrifici interni.
Né si può discutere del fallimento di un sistema economico fondato sulla deregolamentazione dei mercati, sullo smantellamento dello stato sociale, sulla precarizzazione del lavoro e sull’austerità.
Perciò, i governi occidentali sembrano sempre più preoccupati da qualunque forma di dissenso, e moltiplicano gli sforzi per monitorarlo e “regolamentarlo”, arrivando a definire una porzione crescente di manifestazioni contrarie alla narrazione ufficiale come “disinformazione” e “incitamento all’odio”.
Al punto che emergono “agenzie di rating” dell’informazione, come il britannico Global Disinformation Index, che danno pagelle di affidabilità ai media, influenzandone fortune e introiti pubblicitari.
Funzione non dissimile, ma su scala europea, ha il Digital Services Act per la “moderazione” e il controllo dei contenuti di internet e social media.
Un potere sordo agli appelli dal basso
Dove il contrasto fra il punto di vista delle élite e quello di almeno una parte dell’opinione pubblica è apparso più stridente, è nella reazione al brutale sterminio in corso a Gaza da ormai sette mesi.
L’amministrazione Biden e i leader europei hanno dato carta bianca a Israele, lasciando che il governo Netanyahu desse sfogo a una reazione militare di inaudita violenza. Anzi, essi hanno sostenuto attivamente tale operazione dal punto di vista logistico e attraverso l’invio di armi.
Le catastrofiche conseguenze che ne sono derivate, in primo luogo l’uccisione di oltre 34.000 palestinesi e la pressoché totale distruzione delle aree residenziali e delle infrastrutture civili della Striscia, hanno tuttavia suscitato l’indignazione crescente di porzioni sempre più ampie delle società occidentali.
Le proteste studentesche che hanno preso piede nelle università americane, ma anche europee, fanno parte di un diffuso movimento d’opinione che chiede la fine del sostegno occidentale alla guerra israeliana.
Ciò non ha impedito a Biden, che pure aveva definito “eccessivo” il bombardamento israeliano di Gaza, di approvare un pacchetto che include 17 miliardi di dollari in aiuti all’esercito di Tel Aviv, mentre la terribile crisi umanitaria nella Striscia rischia di essere ulteriormente aggravata dall’imminente assalto israeliano alla città di Rafah, che ospita quasi un milione e mezzo di profughi.
Il presidente americano non sembra farsi dissuadere nemmeno dal crescente dissenso all’interno della sua stessa amministrazione.
A febbraio, più di 800 dipendenti statali, negli USA e all’estero, avevano firmato una lettera aperta di opposizione all’appoggio del governo alla guerra a Gaza.
Le recenti dimissioni di Hala Rharrit, portavoce di lingua araba del Dipartimento di Stato, sono solo le ultime in ordine di tempo, dopo che diversi esponenti dell’amministrazione avevano deciso di lasciare il proprio incarico in segno di protesta contro le politiche da essa condotte nella Striscia.
Ed è di questi giorni un appello lanciato da decine di avvocati, almeno una ventina dei quali lavora nell’amministrazione, che invita il presidente a sospendere gli aiuti militari a Tel Aviv, affermando che le azioni dell’esercito israeliano a Gaza hanno violato la legge americana e il diritto umanitario internazionale.
Soffocare l’ultimo presidio di democrazia
Similmente, la protesta studentesca vuole che le università sospendano i rapporti di collaborazione con quelle imprese – e quelle università israeliane – che traggono profitto o sono direttamente coinvolte nello sforzo bellico di Tel Aviv.
La rapidità con cui queste proteste, eminentemente pacifiche, sono andate incontro alla repressione violenta della polizia negli Stati Uniti, e in parte anche in Europa, conferma quanto sia delicato questo tema politico per le élite al potere.
Sebbene Biden abbia assurdamente definito “antisemiti” i dimostranti, gli episodi di antisemitismo all’interno di queste manifestazioni sono stati estremamente minoritari, a fronte di una consistente partecipazione degli ebrei stessi alla protesta.
Tanto che 23 membri di facoltà ebrei del Barnard College e della Columbia University hanno inviato una lettera aperta alla presidente dell’università Nemat Shafik, condannando l’uso strumentale dell’antisemitismo come arma per screditare gli studenti, nel quadro di quello che hanno definito un “nuovo maccartismo”.
Al contrario, sono stati gli studenti ad essere spesso oggetto delle minacce e delle violenze di gruppi filo-israeliani, oltre ad aver subito più di 2.000 arresti, e innumerevoli sospensioni ed espulsioni dai campus. Perfino professori universitari, solidali con la protesta, sono stati violentemente arrestati e talvolta brutalmente percossi.
La repressione è culminata negli ultimi giorni con lo sgombero forzato del campus della Columbia University da parte della polizia in assetto antisommossa, che ha compiuto centinaia di arresti.
Nel frattempo, gruppi filoisraeliani mascherati e vestiti di nero hanno assaltato il campus dell’Università della California (UCLA), a Los Angeles, dando luogo a violenti scontri con gli studenti.
La polizia per lungo tempo non è intervenuta, salvo poi fare irruzione in assetto antisommossa nel campus per sgomberare le tende dei manifestanti.
Proteste universitarie, talvolta represse dalla polizia, si sono registrate anche in Francia, Gran Bretagna, Italia, Canada e Australia.
Autoritarismo tedesco
La Germania è divenuta un caso emblematico per la frattura tra l’opinione pubblica e la politica governativa di appoggio incondizionato all’operazione israeliana a Gaza.
Sebbene il 69% dei tedeschi consideri ingiustificata l’azione militare di Tel Aviv, nel paese si respira un crescente clima di intolleranza da parte delle istituzioni nei confronti di chiunque critichi la politica ufficiale di sostegno a Israele.
Questo clima repressivo è culminato, lo scorso 12 aprile, nell’intervento della polizia per impedire lo svolgimento di una conferenza su Gaza organizzata da palestinesi, ebrei e gruppi internazionali, che tra l’altro intendeva criticare il governo di Berlino per il suo appoggio alla campagna militare israeliana.
L’episodio è stato preceduto da una campagna diffamatoria e intimidatoria nei confronti dei partecipanti all’evento. I media tedeschi l’hanno definito un “congresso di odiatori di Israele” e una conferenza di “apologhi del terrorismo”.
Il giorno della conferenza, le autorità hanno schierato 2.500 poliziotti. Poco dopo l’inizio dell’evento, decine di essi hanno fatto irruzione nell’edificio bloccandone i lavori.
Tra coloro a cui è stato impedito di prendere parte alla conferenza, spiccano i nomi di Ghassan Abu Sittah, medico anglo-palestinese noto per aver lavorato a Gaza (fermato all’aeroporto di Berlino, interrogato per tre ore e mezza, e poi rimandato in Gran Bretagna), e Yanis Varoufakis, ex ministro delle finanze greco.
Plasmare la Germania filo-atlantica
Una frattura non dissimile tra l’opinione pubblica da un lato, e le élite governative e la stampa di grande diffusione dall’altro, si registra sul conflitto ucraino.
Fin dal bombardamento NATO della Serbia nel 1999, la stampa tedesca ha avuto un approccio eminentemente militarista. Essa ha appoggiato sia quella campagna che il successivo intervento occidentale in Afghanistan, ed è sempre stata favorevole all’invio di armi pesanti a Kiev, a differenza della popolazione la cui maggioranza predilige un approccio negoziale con Mosca.
Uwe Krüger, ricercatore presso l’Università di Lipsia, nel 2013 mostrò che i principali giornalisti tedeschi sono affiliati a think tank transatlantici come l’Atlantik-Brücke, la Trilateral Commission e l’Aspen Institute, sebbene tale affiliazione non appaia nei giornali su cui scrivono.
L’analisi di Krüger ha messo in evidenza come gli articoli di questi giornalisti riflettano fedelmente le posizioni filo-USA e filo-NATO di tali organizzazioni. Lo stesso Bernd Ulrich, vicecaporedattore di Die Zeit, ha ammesso che queste istituzioni transatlantiche rappresentano una “cinghia di trasmissione della linea di pensiero americana in politica estera”.
A tali think tank, tuttavia, sono affiliati non solo giornalisti ma anche politici di primo piano, come il ministro degli esteri Annalena Baerbock, attualmente membro dell’ Atlantik-Brücke dopo aver fatto parte del German Marshall Fund, altro think tank transatlantico.
Il problema dello schiacciamento della stampa su posizioni governative e invariabilmente filo-atlantiche è ulteriormente aggravato dalla crescente concentrazione del mercato dell’informazione nelle mani di pochi.
Nel settore dei quotidiani tedeschi, il 57% del mercato è controllato dai 10 principali gruppi dell’informazione. Nel caso dei giornali non disponibili in abbonamento ma solo in libera vendita, come ad esempio i tabloid, tale concentrazione supera il 98%.
Questo fenomeno è comune ad altri stati europei, e raggiunge forme estreme in Gran Bretagna e negli USA.
Una narrazione a senso unico
Nei paesi occidentali, dunque, controllati da governi che rappresentano élite sempre più ristrette, la narrazione degli eventi, sia in politica estera che sul fronte interno, viene sempre più imposta dall’alto attraverso una stampa compiacente e fondamentalmente affiliata al potere.
Più che cercare il consenso popolare, tali governi cercano di plasmarlo sia attraverso l’imposizione di una narrazione precostituita sia attraverso l’emarginazione e la demonizzazione del dissenso.
Questa dinamica di polarizzazione è particolarmente evidente nel panorama dell’informazione legato al conflitto ucraino e a quello in corso a Gaza.
Così, ad esempio, non solo giornalisti americani popolari e di orientamento diverso come Glenn Greenwald e Tucker Carlson, ma anche figure fino a poco tempo fa ampiamente rispettate, come l’economista Jeffrey Sachs e il politologo John Mearsheimer, vengono additati come esponenti di una “rete di propaganda russa” da mezzi di informazione ucraini in realtà finanziati con denaro statunitense.
L’imposizione di una narrazione a senso unico è tuttavia un’operazione dall’esito non scontato, a giudicare dall’ascesa delle cosiddette forze “populiste” tanto temute dalle élite dominanti, ma anche dall’emergere di fenomeni di protesta come quello degli studenti universitari sulla scottante questione di Gaza.
Perdita di credibilità dell’Occidente
Se per le élite occidentali non è facile preservare il monopolio della narrazione sul fronte interno, lo è ancor meno a livello internazionale, in particolare sul conflitto ucraino e sullo sterminio di Gaza.
Tali questioni, messe a confronto, hanno fatto emergere in maniera imbarazzante il “doppio standard” che i paesi occidentali applicano negli affari internazionali. Come ho scritto in un precedente articolo,
le immagini dello sterminio in corso a Gaza resteranno indelebilmente scolpite nella mente di milioni di persone al di fuori dell’Occidente. Il resto del mondo ha ormai i propri giornalisti e i propri media, che propongono agli spettatori immagini molto più crude di quelle che filtrano sulle TV occidentali, su ciò che avviene nella Striscia. Il monopolio occidentale sulla narrazione ormai è finito.
C’è da chiedersi quale credibilità avranno ancora i leader politici di USA ed Europa allorché parleranno ancora di diritti umani, giustizia, legalità internazionale e democrazia a un’audience non occidentale, dopo aver sostenuto l’annientamento della popolazione civile di Gaza.
Appena 47 giorni dopo l’inizio della guerra in Ucraina, Biden accusò la Russia di commettere un genocidio. Nessuna critica paragonabile è giunta da Washington, o da Bruxelles, all’indirizzo di Tel Aviv di fronte ad un’operazione militare che, per la sua violenza, ha invece spinto esperti occidentali a parlare apertamente del rischio di una pulizia etnica, e addirittura della possibilità di un genocidio nell’enclave palestinese.
E’ anche per questa ragione, che la maggior parte dei paesi del Sud del mondo si rifiuta di applicare le sanzioni imposte dall’Occidente nei confronti della Russia, o che i paesi dell’Africa e dell’America Latina chiedono con sempre maggiore insistenza un rapporto da pari a pari negli affari che USA ed Europa intrattengono con essi.
Di fronte a questa perdita di potere e di prestigio internazionale, la reazione delle élite occidentali è stata duplice: 1) ricorrere sempre più apertamente a metodi coercitivi, come le suddette sanzioni (malgrado il loro effetto palesemente controproducente), o a minacce di natura esplicitamente militare; 2) ridurre sempre più gli spazi di libertà nei propri rispettivi paesi, in quella che appare come una crescente deriva autoritaria sul fronte interno.
Così facendo, esse si dimostrano chiaramente incapaci di leggere la mutata realtà globale, così come di dare risposte adeguate ai crescenti problemi che pesano sulle proprie rispettive popolazioni, lasciando quindi presagire che l’Occidente sia destinato ad avvitarsi in una crisi sempre più grave.
FONTE: https://robertoiannuzzi.substack.com/p/perdita-di-potere-e-deriva-autoritaria
Commenti recenti