Il popolo al potere
di DOPPIOZERO (Annalisa Ambrosio)
Democrazia è una parola straniera per la maggior parte di coloro che la usano. Come milioni di altre parole è entrata nella nostra lingua, traslitterata in un calco fedele del greco, ma di fatto è una parola che viene da altrove, dai vicini di casa. Magari a causa del fatto che non è un anglicismo ci può sembrare nostrana. Invece, rappresenta un’importazione così remota che ora la usiamo come se fosse nostra, senza più sentire che dentro il suo cuore ci sono due atri distinti: il potere e il popolo. Ed entrambi devono muoversi per pompare il sangue. Che cosa cambierebbe se avessimo scelto un altro modo di importare la democrazia nel dizionario? Come sarebbe se aprissimo il suo guscio, dicendo ogni volta che la nominiamo che la nostra forma di governo è “il potere al popolo”? Certamente più scomodo, certamente più lungo, senza dubbio un sapore strano, ma forse necessario per vederci dentro, per rappresentare in maniera più chiara che cosa accade ogni volta che siamo in molti e che dobbiamo scegliere insieme. Iniziare a chiamare la democrazia così, col suo nome esteso, è quel che faremo di qui in avanti, perché rende improvvisamente più evidente qual è il pericolo della democrazia, ma anche che cosa la mette in pericolo.
Identificare il pericolo nascosto tra le pieghe del potere al popolo è semplice: il popolo è un nome collettivo. Del popolo facciamo parte io e anche tu, persone care e sconosciute, persone che godono di mezzi diversi, persone che si amano e persone che si odiano, persone che per motivi privati o pubblici non si possono capire, persone che la vedono diversamente perché non possono fare altrimenti: si trovano a latitudini distanti e così il paesaggio appare ai loro occhi incomparabile, hanno bisogni antitetici. Dare il potere al popolo significa fare una media, lasciare che le forze in campo, che pure tirano in direzioni opposte, organizzino alla fine la loro energia in un punto intermedio che, molto spesso, non accontenta né gli uni né gli altri. Alla fine, ci si affida ai numeri, per arrivare da qualche parte si decide che la maggioranza vince. Il pericolo nascosto tra le pieghe del potere al popolo è l’apparente inconcludenza della complessità: il pendolo, cinque anni a destra e cinque a sinistra, la tela di Penelope, fare per disfare, uomini e donne diversi che assumono il potere anche come uno sgarbo verso chi li ha preceduti o verso chi li seguirà.
L’espressione “crisi della democrazia” è piuttosto ricorrente, al punto che qualcuno (questo qualcuno si chiama Gustavo Zagrebelsky) ha diagnosticato che la crisi è la sua condizione naturale, uno dei tratti del suo viso, uno dei modi in cui accade nel mondo. Non sono i social, gli smartphone, gli influencer, il traffico, la velocità a fare la crisi della democrazia. Questa crisi non è altro che il risultato fisiologico e naturale che si ottiene quando si affida il potere a un popolo intero, cioè quando si affida il potere a milioni di persone. Che è sempre un concetto approssimativo, ma di fatto è ancora valido nelle nostre forme di poteri ai popoli.
A ben pensarci il moto a zig-zag del potere al popolo, il destino non lineare del suo passo, l’incertezza del suo risultato assomigliano incredibilmente al modo in cui si muove anche il cammino di tutto ciò che è organico: strade sbagliate, tentativi, aborti, un passo avanti e due passi indietro o di lato, fecondazioni a vuoto e rapsodici balzi in avanti. Il lavoro umano, il lavoro del popolo, non fa eccezione rispetto agli altri lavori dei viventi. Per funzionare, e quindi per produrre delle meraviglie, ha bisogno di incorporare una quota di disordine e caos. Di questo caos che gli si rimprovera immagino che non si possa fare a meno. In questo senso l’inconcludenza della complessità è apparente, perché una parte di vuoto, di dispersione, di spreco è funzionale al suo obiettivo, è ciò che la fa andare avanti tenendo conto di tutto. Tenendo conto di tutto e per questo incespicando, battendo in ritirata, solo dopo trionfando, come la lumaca sulla sua bava di fronte agli ostacoli, come il nostro umore in una giornata qualunque. Con lo stesso grado di incertezza informata dalla vita e quindi alla fine attiva e ostinata a risolversi in qualcosa attraverso la combinazione delle sue molecole.
E che cosa mette in pericolo il potere al popolo? In un libro, o meglio una memoria, che ha scritto anni prima che la guerra lo finisse, in una frase ben più articolata di questa, Carlo Rosselli lo dice in un modo che meglio non si può: “il trionfo della facilità”. È il “trionfo della facilità” che mette in pericolo il potere al popolo, e lo mette in pericolo semplicemente perché si tratta di due dimensioni incompatibili. Il saggio si intitola Socialismo liberale e la sua frase tiene insieme in una lunga subordinata un racconto possibile di com’è che Benito Mussolini abbia spostato la sensibilità del popolo italiano, portandola dalla sua parte. L’idea di Rosselli è semplice ed è che il fascismo sia una negazione continua della complessità in nome di un ideale di ordine. Allora “fascista” è un aggettivo di campo largo, descrittivo, significa non sopportare il disordine che si crea ogni volta che il potere va in mano al popolo. E dal momento che il potere al popolo è caotico, confuso, complicato, essere fascista significa fare di tutta l’erba un fascio: ridurre il potere del popolo al potere di uno solo.
La definizione di Rosselli è quasi commovente perché come ogni verità restituisce credito e dignità al suo oggetto. Non è questione di essere buoni o cattivi, il punto è che cosa privilegiare, come muoversi nel mondo. Se le persone del popolo non possono pensarla allo stesso modo, l’unica strada per ottenere l’ordine è ridurre tutta la complessità del mondo a un volere unico. Non c’è altra soluzione. Non c’è necessariamente odio verso il popolo. Ma di certo dietro al fascismo c’è un’idea utopica di mondo, come dice il proverbio la perfezione non è di questo mondo, e quindi per ottenerla occorre esercitare una grande forza per fondarne un altro. È vero il disordine può essere faticoso da sopportare e la complessità dolorosissima, ma sono piani ineliminabili della realtà, e anche quando li sfiliamo dal contesto non li possiamo eliminare da dentro di noi. Riposa forse in questo la componente di maggior vulnerabilità di ogni fascismo: la fatica che bisogna fare per non mollare, per non lasciare che nel nuovo universo ordinato entri la polvere. È faticoso zittire gli oppositori, incarcerare i giornalisti, delegittimare gli altri, è faticoso mostrarsi forti a ogni costo, raccontare una storia unica, è faticoso non potere ammettere i propri inevitabili errori, è faticoso tenere duro e resistere. Che bisogno c’è di farlo?
In ogni caso il potere al popolo è in pericolo ogni volta che qualcuno o qualcosa prende in antipatia il suo disordine costitutivo e cerca in maniere più o meno violente, più o meno repentine di farlo fuori. Dico qualcosa pensando a Étienne de La Boétie perché, a complicare le cose, pure il popolo ha una naturale propensione all’asservimento. Riposa in noi quella che lui per primo intorno al 1500 ha chiamato “servitù volontaria”, spaccandosi la testa per capire com’è che tante persone potessero farsi soggiogare da un uomo solo e misero in confronto a loro. La sua risposta è diventata qualche secolo dopo una categoria psicanalitica. Non è il potere del tiranno che è così forte, è la promessa di un ordine che spesso attrae noialtri in maniera irresistibile. Dentro ciascuno c’è un servo volontario che preferisce alla decisione la delega, a difendersi l’essere difeso, al dire la propria omologarsi al pensiero pensato da qualcun altro. In alcuni più che in altri c’è il desiderio di farsi vincolare da qualche leggera catena, di muoversi in un perimetro, di vedere che un recinto c’è, e che tutto e il contrario di tutto non si può fare. Non è per forza una forma di pigrizia, è una forma di intelligenza specifica, umana. Questa tendenza non esaurisce la nostra natura, ne rappresenta solo un versante, il versante più incline a farsi comandare nel nome di un ordine superiore, il versante più incline a illudersi veramente che se togliamo tutta la polvere dalla stanza poi non ne entrerà dell’altra, il versante che ama seguire e ripugna guidare.
Se c’è un grande vantaggio nell’età contemporanea è che siamo diventati molto più laici nel nostro stile di sguardo, che riguarda tutto, anche la politica: possiamo prescindere da categorie morali ereditate da un qualche ordine morale superiore, possiamo riconoscerci nella sinistra e a volte fare scelte di destra, o viceversa, senza sentirci in colpa, senza dover rendere conto a nessuno e senza essere buttati fuori. Il bello di avere uno sguardo intellettuale sulle cose dovrebbe consistere nel fatto che quasi non esistono fatti buoni o cattivi a priori, e che tutto dipende. Nel leggere da che parte il tutto pende possiamo essere sinceri con noi stessi. Sappiamo che l’ordine è confortevole ma a lungo andare è impossibile se non al prezzo di uno sforzo muscolare enorme.
E perché il disordine delle decisioni del popolo dovrebbe essere maggiore del disordine che una sola mente può contenere? Non c’è bisogno di citare ancora Walt Whitman per sapere che ciascuno di noi ospita più persone, visioni contrastanti, capricci multiformi. Nessun essere umano è garante dell’ordine perché ciascun essere umano è un pozzo di incoerenza e questo ha determinato molto spesso, in svariati modi, la fine del governo di uno solo.
Se poi la grandezza di ogni sistema sta anche nella sua capacità di accoglierne altri, il fascismo non è che un sottoinsieme del potere al popolo. Se il potere non fosse del popolo non potrebbe finire nelle mani di uno solo, mentre il contrario non è vero.
La crisi della democrazia fa paura se c’è qualcuno che la usa per fare finta che sia normale sedarla. Ma la normalità consiste invece nel vedere che insieme sbagliamo strada varie volte e alla fine spesso troviamo una via migliore di quella che avremmo trovato da soli. Sedare la crisi della democrazia non è normale: corrisponde sempre alla scelta precisa di soffocarla. Soffocarla per rifondare un mondo senza attrito e senza polvere, dove le mucche volano e non vola una mosca.
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