Dove va l’Argentina di Milei. Il governo dell’economista ultraliberista
di GLI ASINI (Federico Nastasi)
Passata l’estate australe con temperature oltre i 44 gradi e un’invasione di zanzare, gli argentini hanno tirato un sospiro di sollievo. Non solo per il clima, ma anche per qualche buona notizia in ambito economico: l’inflazione, la più alta del mondo nel 2023, dall’inizio di quest’anno e per il terzo mese consecutivo, cresce meno che in passato.
Da diversi mesi il paese è guidato da un outsider della politica, l’economista Javier Milei, 53 anni, ex consulente finanziario, opinionista televisivo, un mandato da parlamentare, fondatore del partito ultraliberista La Libertad Avanza. Milei ha vinto contro i pronostici le elezioni presidenziali di novembre 2023, catalizzando il malcontento contro il governo uscente, guidato dal peronista Alberto Fernández, e lasciando fuori dal ballottaggio il centrodestra storico, poi recuperato nella composizione di Governo. Il nuovo presidente ha annunciato una riduzione della spesa pubblica del 5% del PIL, con l’obiettivo a lungo termine di un taglio del 18% del PIL, circa 80 miliardi di dollari. Abbiamo provato a tracciare un primo bilancio del suo governo attraverso alcune interviste, a partire da una domanda che si pongono molti cittadini argentini: può Javier Milei con il suo programma lacrime e sangue salvare l’economia argentina?
«I problemi segnalati da Milei sono giusti, non necessariamente le soluzioni» spiega a Gli Asini Martin Kalos, economista della Universidad de Buenos Aires. «Abbiamo un problema fiscale e uno inflazionario: da dodici anni siamo in deficit fiscale, questa spesa è finanziata con emissione di moneta dal Banco Central, il che ha spinto l’aumento dei prezzi. Questi due problemi non sono stati risolti né dai governi peronisti (2003-2015 e 2019-2023) né dal governo di centrodestra di Macri (2015-2019), che ha contratto il più grande debito della storia argentina con il Fondo Monetario Internazionale. Il paese è in trattativa permanente con i creditori internazionali» aggiunge l’economista.
«Il programma di ristrutturazione economica ricade sulle spalle della classe lavoratrice, su coloro che ricevevano qualche forma di sussidio sociale, sui pensionati. I salari si sono ridotti in confronto all’aumento di alcuni prezzi, molti dei quali erano tenuti bassi artificialmente dal precedente governo peronista. Una incognita rimane sul processo di dollarizzazione (una delle promesse elettorali di Milei che durante i comizi sventolava I biglietti verdi, nda). In Argentina tutti pensano sia meglio risparmiare in dollari, ma non è facile ottenerli, per controlli sul sistema di cambio, dollaro parallelo e regolamenti bancari, il cosiddetto cepo cambiario» spiega Kalos. Milei ha promesso di mettere fine a queste difficoltà; all’inizio diceva di poterlo fare entro metà 2024, ma adesso sembra non avere molta fretta. È una delle misure più attese, il risultato può spingere in alto il consenso per il governo o farlo crollare.
Consenso e potere
Attualmente, secondo un sondaggio dell’Universidad San Andres, il 51% della popolazione da’ un giudizio positivo al Presidente: un tasso più alto tra i più poveri e minore nel 10% più ricco della popolazione. Un paradosso visto il feroce piano di tagli alla spesa pubblica che ha aumentato la povertà, arrivata poco sotto il 60%, secondo i dati Observatorio de la Deuda Social de la Universidad Católica Argentina, il dato più alto dalla crisi dei Tango Bond del 2001. Ci sono già state manifestazioni di piazza contro il governo – una costante nella politica argentina – ma Milei ha una debolezza strutturale: «il suo partito ha appena il 10%, la sua coalizione non è maggioranza al Congresso e non ha nemmeno un governatore a livello provinciale» spiega il politologo Juan Cruz Olmeda, del Colegio de México. A febbraio, il Congresso ha affondato il pacchetto di riforme onnicomprensivo, Ley de Bases, che puntava a riforma il codice del lavoro, avviare privatizzazioni, ottenere maggiori poteri per il Governo. Un colpo duro che ha obbligato Milei ad aprire trattative con quella che definiva la “casta ladrona dei politici tradizionali”.
«Siamo in una situazione in cui ogni voto conta, per questo Milei sta trattando con i governatori provinciali per influenzare il voto dei parlamentari delle varie province, una negoziazione con molti colpi bassi, che prevede minacce di tagli ai finanziamenti statali alle province» afferma Cruz Olmeda.
Usare i finanziamenti statali alle province come mezzo di scambio politico, pronunciare il discorso di insediamento non nel Congresso – come da prassi – ma dandogli le spalle e parlando alla piazza, infiammare i militanti digitali con annunci quotidiani, come la lista con nome e foto dei “deputati traditori” che hanno votato contro la Ley Bases, sul proprio profilo X. Dopo pochi mesi di governo, Milei ha fugato ogni dubbio di provenire da una cultura liberale di destra: «Non è un liberale. Come tutti i fenomeni populisti, anche quello peronista e kirchnerista tende a formare l’immagine del suo avversario; tanto il peronismo è stato radicale nel concentrare tutti i poteri, e nell’ imporre un’ideologia unica al paese, tanto la risposta si è rivelata altrettanto radicale e populista» ha spiegato Loris Zanatta, già docente di Storia dell’America Latina all’Università di Bologna, per un’intervista a Bet Magazine – Mosaico.
Milei è passato con velocità meteoritica da opinionista televisivo selvaggio che attraverso una medium, parla di politica con il suo cane morto – con proposte come la vendita di bambini e organi, l’eliminazione dell’educazione obbligatoria e comizi brandendo una motosega – a Presidente di uno dei più importanti paesi latinoamericani.
Continuerà il corso della meteora e ne vedremo presto la scia in lontananza? O durerà, magari moderando le proprie posizioni? «Non credo sarà un ciclo politico veloce» spiega Alfredo Somoza, analista latinoamericanista, per questa intervista agli Asini. «Ci sono almeno due Milei: quello con problemi di salute mentale, che follemente mette a rischio le relazioni con paesi vicini per polemiche ideologiche; c’è poi il Milei che ha portato in pareggio il bilancio dello Stato, ha stoppato l’emissione di moneta, accumulato riserve nella Banca centrale, ridotto l’inflazione. Certo, la situazione sociale è terrificante, ma la povertà al 40% l’ha lasciata il governo peronista. Dietro Milei, avanzano altre forze, come la Ministra degli Interni che vuole imporre un modello di sicurezza senza Stato di diritto, o la Vicepresidente che prova a riscrivere la memoria storica dei tempi della dittatura. L’opposizione peronista è in imbarazzo, travolta dagli scandali di corruzione del governo uscente. Tra un anno si rinnovano le Camere, il risultato di Milei dipenderà dall’andamento dell’economia e della lotta alla corruzione» ragiona Somoza.
Non temo Milei in sé, ma Milei in me
Milei, così come Bolsonaro in Brasile o Kast in Cile, è parte della trasformazione genetica delle destre latinoamericane: perdono peso – politico e culturale – i gruppi liberal-conservatori tradizionali, vincono gli estremisti secondo i quali del presente non c’è nulla da conservare. Un presente del quale la sinistra è indicata come rappresentante delle élite contrapposte alla gente comune, difensore dello status quo, di un ordine ingiusto, immorale. Queste destre si organizzano dentro e fuori dai palazzi, con partiti e militanti digitali, e portano la battaglia politica sul piano culturale, mettono in discussione concetti che si consideravano trasversali: i poveri – spiega Milei senza vergogna – sono tali per ordine naturale, il welfare è un furto dello Stato ai danni dei cittadini per bene.
A febbraio, negli Stati Uniti, a una conferenza dei conservatori, insieme a Trump, sono intervenuti il presidente de El Salvador, Bukele e quello argentino. Trump si è fatto fotografare assieme a Milei assicurando che si può fare “Argentina great again” alzando i pollici in segno di OK!
Questa destra latinoamericana ha un piano d’azione globale, comuni battaglie, riferimenti culturali, sta costruendo un’identità che definisce come occidentale. Un’identità da contrapporre a quella della Patria Grande, che valorizza le origini indigene e meticce, adottata dalla sinistra latinoamericana che promuove l’integrazione regionale.
Ma l’Occidente al quale pensa questa destra – basta leggere il discorso di Milei a Davos – è Trump, non gli Stati Uniti in generale; è Le Pen, non la Francia con il suo stato di diritto che riconosce l’aborto in Costituzione; è Netanyahu, non gli israeliani che chiedono una soluzione diplomatica al conflitto. La bandiera israeliana è diventata una presenza fissa che sventola nelle manifestazioni bolsonariste a San Paolo o pro Milei in Argentina. Gerusalemme capitale d’Israele, lo spostamento delle ambasciate da Tel Aviv alla città santa di Gerusalemme è una battaglia identitaria che unisce queste destre estreme latinoamericane che si dicono occidentali. E dialogano stabilmente con le destre europee e statunitensi: Trump, Abascal, Meloni, Orban tutti hanno salutato la vittoria di Milei come una conquista per la loro famiglia politica.
Un paradosso vedere quanto poco l’Occidente della cultura liberale, democratica, affezionato al primato della ragione, dialoghi con l’America Latina.
E poiché l’identità si definisce, si deforma, anche in funzione della percezione degli altri, c’è un po’ da preoccuparsi nel vedere il rafforzarsi di questa internazionale di destra occidentale, tra nuovo e vecchio continente. Soprattutto se negli Stati Uniti dovesse vincere Trump, il dialogo euro-latinoamericano si potrebbe rafforzare su un terreno politico massimalista e l’Occidente potrebbe assomigliare sempre di più a quello che immaginano le destre estreme latinoamericane.
E Milei – un fenomeno fino a pochi mesi considerato comico, le cui proposte economiche erano viste come la versione punk dei Chicago Boys, scapigliate e certamente non realizzabili – potrebbe essere ben più di una meteora.
FONTE:https://gliasinirivista.org/dove-va-largentina-di-milei-il-governo-delleconomista-ultraliberista/
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