Dispensatori di Bignami
di FERDINANDO PASTORE (Pagina FB)
Desta stupore notare come all’interno del variegato mondo del radicalismo di sinistra, dove convivono una spruzzata di libertarismo da Campus nordamericano, un granello di post-operaismo della moltitudine, un pizzico di anarchismo individualista, polveri di marxismo freudiano, del situazionismo artistico, il tutto miscelato con una dose di vaporosità new age e dal sacerdozio contrito ispirato a Michela Murgia, si diano ancora patenti di ortodossia marxista, con lezioncine sulla distinzione tra struttura e sovrastruttura, come se il tempo si fosse fermato alla morte di Marx.
Difficile dire come la percezione della realtà sia mutata da fine ’800 e come, per esempio negli anni definiti “gloriosi”, il consumo di massa abbia inciso in profondità nella mentalità degli esseri umani e come l’accesso illimitato al desiderio di consumare abbia prodotto un immaginario del tutto compatibile con il discorso capitalista. Vero, in quegli anni, il capitalismo concedeva contropartite di sicurezza: un posto fisso, un salario certo, una pensione, un’abitazione e qualche comodità rispetto al primo modello familistico. Ma nonostante queste concessioni, restava ancora aperta la questione politica del conflitto che non si era ancora spenta nella nebbia dell’indifferenza.
Quindi, quando ascolto, con ammirazione, i compagni più leziosi e briosi, sostenere che la critica si dovrebbe concentrare sulla struttura e basta, e quindi esclusivamente sui rapporti economici tra le classi, a loro sarebbe interessante chiedere: come mai negli ultimi decenni quel conflitto si è disperso nella spoliticizzazione assoluta? Come avrebbe fatto a trionfare il capitalismo, nella sua versione neo-liberale, nonostante abbia consegnato alle classi subalterne una realtà ben peggiore di quella precedente? Perché queste, private di tutte quelle sicurezze, non insorgono a dovere?
A questo punto immagino, forse, che si è capito poco della rivoluzione neoliberale. In pochi continuano a comprendere che per operare indisturbato sulla struttura, il capitalismo e i capitalisti, prendendo in prestito gli slogan più onirici e impolitici della contestazione giovanile, hanno iniziato a operare in primo luogo sulla sovrastruttura, per poi arrivare a congegnare le controriforme economiche. Hanno confezionato, sin dalla metà dei ’70 un’ideologia di liberazione per l’essere umano che si è dimostrata allettante anche per le classi popolari che hanno interiorizzato la democraticità dell’azienda de-gerarchizzata.
Certo lo Stato neoliberale, lungi dal somigliare al vecchio Stato minimo vittoriano, costruisce sì una Costituzione economica ma contemporaneamente agisce pedagogicamente sull’individuo, per invitarlo a librarsi in volo attraverso le proprie forze e la propria volontà; tutto questo abbattendo tabù, convenzioni sociali, stretti divieti comportamentali. Promuovendo un’etica rigorosamente laicista capace di sprigionare un essere umano che evolve nelle dinamiche di mercato e che ricerca emancipazione nel diritto a chiedere diritti sempre più particolareggiati, sempre più personali, così da poter affrontare la tortura cannibalesca della concorrenza libero da altri fardelli etici (il socialismo, la famiglia, i precetti religiosi, il partito e il sindacato).
Il postulato dell’impresa di sé, così strettamente connesso all’idea di merito, ha rappresentato il chiavistello perché il neoliberalismo si sia fortificato sul consenso generale della popolazione. Per questo i liberali, di destra e di sinistra, sono così attenti nel proporre, ipocritamente, pari condizioni di partenza perché la concorrenza sia considerata sana. E per questo il capitalismo è così attento alle politiche di inclusione, inclusione nel mercato ovviamente. Sotto questo aspetto l’ideologia del tardo capitalismo non è, e non può essere bigotta, con buona pace dei conservatori che vorrebbero libero mercato e tradizione a braccetto, ma intimamente progressista.
Quindi la critica alla sovrastruttura è la critica all’ideologia del capitalismo e forse a qualcosa serve. Il che non vuol dire gettare il bambino con tutta l’acqua sporca, ma essere consapevoli su quali stratagemmi discorsivi affonda la retorica di cui si fregia il capitalismo contemporaneo. Un po’ come se, nel passato, la critica alla morale borghese sia stata tempo perso. A meno che non si voglia continuare a giocare sul terreno dell’ortodossia implacabile, quella sì ancora di moda in qualche occupazione liceale. E rassegnarsi rigorosamente alla sconfitta.
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