Moda e caporalato: un’inchiesta fa tremare le grandi firme, coinvolti Armani e Dior
da L’INDIPENDENTE ONLINE (Stefano Baudino)
Si arricchisce di un nuovo capitolo l’inchiesta coordinata dalla Procura di Milano sullo sfruttamento della manodopera nel settore della sartoria di lusso.
Il Tribunale della città meneghina, negli scorsi giorni, ha infatti disposto l’amministrazione giudiziaria nei confronti di Manufactures Dior – società della maison dell’alta moda francese che realizza articoli da viaggio, borse e altri capi in pelle -, ritenuta dai giudici «incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo», non avendo messo in atto «misure idonee alla verifica delle reali condizioni lavorative ovvero delle capacità tecniche delle aziende appaltatrici», agevolando colposamente «soggetti raggiunti da corposi elementi probatori in ordine al delitto di caporalato». Questo è solo l’ultimo tassello di un’indagine che, negli scorsi mesi, ha portato all’amministrazione giudiziaria per ragioni sostanzialmente identiche anche le importanti aziende Giorgio Armani Operations e Alviero Martini Spa. E che offre uno spaccato molto puntuale sul lato oscuro dell’alta moda, troppo spesso sinonimo di impiego irregolare e sfruttamento della manodopera.
L’inchiesta su Manufactures Dior è partita lo scorso 21 marzo grazie a una serie di ispezioni svolte in quattro opifici nel milanese e in Brianza. Manufactures Dior ha esternalizzato a varie società la produzione, che, come si legge nel provvedimento, veniva effettuata in contesti «di sfruttamento dei lavoratori», attraverso l’impiego di persone in nero e senza adeguate condizioni di sicurezza sul lavoro. Secondo i pm, infatti, «emerge in modo del tutto evidente l’esistenza di una catena produttiva a valle della filiera, nella quale il vero business è costituito da costi di produzione in serie ampiamente compressi rispetto a quelli che si avrebbero qualora fosse correttamente applicata la normativa contrattuale collettiva ed in materia di sicurezza degli ambienti di lavoro». Proprio su tali aspetti, secondo le ricostruzioni, «si crea il margine di profitto», realizzato mediante «l’utilizzo di manodopera in nero e clandestina, la «»mancata formazione sui rischi da lavoro», le «omesse visite mediche», i «macchinari non a norma dai quali risultano rimossi scientemente i dispositivi di protezione» e l’uso di «ambienti abitativi abusivamente realizzati al fine di avere forza lavoro reperibile h/24». 23 lavoratori sono stati trovati all’interno di «camere da letto» ricavate sopra i laboratori di un opificio di Opera, dove è stata attestata, come evidenziato dai magistrati, «la rimozione dei dispositivi di sicurezza che hanno lo scopo di impedire che il lavoratore possa entrare in contatto con i meccanismi mossi elettricamente o che pezzi del prodotto smerigliato possano essere proiettati negli occhi dell’operatore». Per i magistrati, gli operai irregolari o in nero sarebbero stati «preparati a dichiarare, in caso di controlli, di non essere impiegati nell’azienda, adducendo le più disparate ed inverosimili motivazioni circa la loro presenza all’interno dei locali della pelletteria». I giudici della sezione misure di prevenzione di Milano, accogliendo la richiesta della Procura, hanno messo nero su bianco che la Manufactures Dior «non ha verificato la reale capacità imprenditoriale delle società appaltatrici» e i suoi modelli gestionali «si sono nel concreto rivelati inadeguati».
Lo scorso gennaio, i carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro di Milano avevano dato esecuzione a un decreto di amministrazione giudiziaria emesso dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale nei confronti della Alviero Martini spa, altra società attiva nel settore dell’alta moda, anch’essa ritenuta «incapace» di prevenire e mettere un freno allo sfruttamento lavorativo, non avendo verificato «le reali condizioni lavorative» o «le capacità tecniche delle aziende appaltatrici» e avendo «colposamente» agevolato i presunti autori del delitto di caporalato. la casa di moda avrebbe affidato la produzione mediante contratto di appalto con divieto di subappalto a società terze. Le aziende appaltatrici esternalizzavano le commesse a opifici cinesi, che «grazie all’impiego di manodopera irregolare e clandestina in condizioni di sfruttamento», potevano abbattere i costi. Anche in questo caso, le indagini hanno attestato che nei laboratori erano all’ordine del giorno pagamenti sotto soglia, ambienti insalubri (compresi i dormitori realizzati abusivamente) e mancato rispetto degli orari di lavoro, nonché gravi violazioni in materia di sicurezza, con omessa sorveglianza sanitaria, formazione e informazione.
Solo tre mesi dopo, era toccato alla Giorgio Armani Operations Spa essere sottoposta alla misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria dal Tribunale di Milano. Lo schema di base è il medesimo: subappalti, sfruttamento sul lavoro con turni logoranti, dormitori abusivi nei pressi dei laboratori, massimizzazione dei profitti. Secondo gli investigatori, infatti, la famosa casa di moda avrebbe affidato «attraverso una società in house creata ad hoc per la progettazione, produzione e industrializzazione delle collezioni di moda e accessori» attraverso un contratto di fornitura «l’intera produzione di parte della collezione di borse e accessori 2024 a società terze, con completa esternalizzazione dei processi produttivi», che avrebbe però esternalizzato le commesse ai “soliti” opifici cinesi, dove si sarebbe consumato lo sfruttamento dei lavoratori. Nel provvedimento firmato dai giudici è stato evidenziato come non si tratti di «fatti episodici», bensì di un «sistema di produzione generalizzato e consolidato» che si ripete «quantomeno dal 2017». I giudici hanno attestato come la produzione all’interno degli opifici fosse «attiva per oltre 14 ore al giorno, anche festivi», con lavoratori pagati anche 2-3 euro l’ora che venivano «sottoposti a ritmi di lavoro massacranti» e con una situazione caratterizzata da «pericolo per la sicurezza» della manodopera, che si trovava a lavorare e dormire in «condizioni alloggiative degradanti».
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