La differenza tra bene e merce: una critica alla società dei consumi
DA GAZZETTA FILOSOFICA (Di Lorenzo Gironacci)
«Il consumismo, in netto contrasto con le precedenti forme di vita, associa la felicità non tanto alla SODDISFAZIONE dei bisogni(come tendono a far credere le sue “credenziali ufficiali”), ma piuttosto alla costante crescita della QUANTITÀ e dell’INTENSITÀ dei desideri, il che implica a sua volta il rapido utilizzo e la rapida sostituzione degli oggetti con cui si pensa e si spera di soddisfare quei desideri». Così scrive il sociologo Zygmunt Bauman nel suo libro Consumo, quindi sono. Il titolo del suo libro è il punto di partenza per questo articolo: per un’efficace analisi della condizione della persona occidentale del ventunesimo secolo è imprescindibile uno sguardo critico sul tema del consumismo e dell’offerta dei prodotti.
Già Karl Marx, nella sua opera Il capitale, descriveva il capitalismo come un’immane raccolta di merci. L’utilizzo del termine “merce” non è casuale: con esso, il filosofo tedesco intende sottolineare la forma che un qualsiasi prodotto assume nell’assetto capitalista, che non è quella di “bene” ma, appunto, di “merce”. Proprio tale distinzione, a mio avviso, è di fondamentale rilievo per capire l’inganno della nostra società dei consumi. Il termine “bene” deriva dalla parola latina bonum, cioè buono, necessario, in ultima istanza, UTILE. La teoria classica dell’utilità, in politica economica, afferma proprio una certa equivalenza tra consumo (del bene) e soddisfazione, cioè felicità. In questo senso, il benessere (individuale o collettivo) deriva dal consumo del bene, inteso come mezzo fondamentale per rispondere alle esigenze umane. Al contrario, il termine “merce” è da intendersi in senso negativo, poiché fa riferimento a ciò che Marx definisce il “valore di scambio” del prodotto, cioè il suo essere semplicemente strumento di guadagno e non di effettivo soddisfacimento di un bisogno. In ultima analisi: “bene” è un prodotto utile per rispondere alle esigenze umane, “merce” è invece il prodotto spogliato dal suo valore d’uso e concepito solamente come mezzo di arricchimento.
Acquisita tale distinzione, è necessario domandarsi: cosa troviamo oggi nel mercato? Ci offre beni, cioè cose utili, o merci, cioè cose futili che alimentano la nostra fame di consumo? E qual è la linea che divide nell’offerta dei prodotti questi due realtà? Si potrebbe rispondere che una verdura è sicuramente un bene, mentre magari un pacchetto di patatine è una merce in senso capitalistico, poiché non è in grado di rispondere a un’effettiva esigenza umana di nutrimento. In questo caso, la distinzione appare netta, ma nella realtà quotidiana è difficile tracciare una precisa linea di demarcazione. Inoltre, la differenziazione terminologica proposta in precedenza implica ulteriori domande: chi decide cosa è una merce e cosa è un bene? Queste due figure possono coesistere nello stesso prodotto? Qual è il rapporto tra bisogno individuale-personale e i bisogni fondamentali-collettivi del genere umano?
A complicare ulteriormente il dilemma quotidiano sul “cosa consumare” si inseriscono le dinamiche pubblicitarie, le quali, agendo perennemente sulla nostra psiche, influenzano le nostre scelte e le allontanano da un loro sviluppo puramente razionale-utilitaristico. D’altronde è più convincente, in filosofia come in economia, il modello antropologico di homo psychologicus, cioè un individuo che si lascia parzialmente guidare e che non ha una volontà di ferro, piuttosto dell’homo oeconomicus, cioè una persona in grado di controllarsi perfettamente e calcolare al dettaglio le proprie necessità. Proprio a causa della limitata razionalità dell’uomo, la pubblicità è in grado di direzionarlo verso scelte che, in assenza di influenze esterne, non avrebbe compiuto. Per difendersi dal labirinto di inganni della società del consumo, è bene avere a mente la seguente dicotomia: comfort goods e stimulation goods, una suddivisione proposta dall’economista T. Scitovsky nel suo libro The joyless economy. Scitovsky afferma che la prima categoria di prodotti fornisce un piacere immediato e aleatorio, che tocca il suo apice nel momento stesso del consumo ma che, al contempo, provoca assuefazione e noia. Alcuni esempi possono essere i beni di lusso oppure i cosiddetti comfort food. La seconda categoria, al contrario, si distingue per i suoi effetti benefici duraturi, “stimolanti”, appunto, che hanno un impatto positivo sull’esistenza dell’individuo, come l’attività musicale e sportiva oppure la stessa amicizia. Oltre che nei risultati, la differenziazione di questi due tipi di bene riposa sulla loro accessibilità: mentre è “facile” acquisire prodotti della prima categoria, possedere “beni stimolanti” richiede tempo, fatica e costante applicazione. Basti pensare all’impegno richiesto per mantenere una vera relazione di amicizia in confronto al semplice e inconsistente scambio online sulle piattaforme di messaggistica istantanea. T.Scitovsky, inoltre, aggiunge anche che il mercato tende a offrire dei comfort good mascherandoli al pubblico come stimulation goods, cioè perpetrando un’illusione di una felicità piena e duratura accessibile con il minimo sforzo; esperienza, questa, umanamente impossibile. Ogni conquista intensa e duratura , sia dello spirito sia materiale, si ottiene attraverso un elevato grado di fatica e riflessione: la felicità, come l’amore e l’amicizia, non differisce da questa dinamica.
Avendo descritto questi quattro tipi di prodotto (merce, bene, bene stimolante, bene di comfort), è bene ricordare che queste sono categorie concettuali, che difficilmente possono essere applicate in maniera integrale alla realtà empirica. Ovviamente, un prodotto non è mai un bene totalmente stimolante o totalmente di comfort, per questo sta a noi, ogni volta che entriamo in un supermercato o in un qualsiasi punto commerciale, essere coscienti e domandarci di cosa può farci effettivamente bene, sia a livello corporale che spirituale, rigettando chi vende felicità immediata a basso prezzo. Il capitalismo ha il grande merito di aver sviluppato forze produttive e benessere(almeno in alcune aree del mondo), ma contiene in sé una particolare fallacia: la capacità di soddisfare pienamente i bisogni naturali ed essenziali e quindi la moltiplicazione di desideri inconsistenti, che si accompagna alla produzione industriale di prodotti intrinsecamente inutili.
Per concludere, ritorno al titolo del libro di Bauman Consumo, dunque sono. Tale affermazione sembra incontestabile: io sono ciò che consumo, ciò di cui mi nutro, ciò a cui presto la mia attenzione e dedico il mio tempo. Forzando verso l’estremo tale concetto, si potrebbe forse affermare che il consumare una merce ci rende un prodotto a sua volta, un qualcosa da essere scambiato e utilizzato. Proprio la velocità in costante crescita della moltiplicazione dei nostri desideri e della loro effimera felicità fornita istantaneamente mina l’autonomia dell’individuo. L’indipendenza, la ragione, la capacità di riflettere sono peculiarità squisitamente umane che ci permettono di affrancarci parzialmente da una condotta di vita puramente istintuale, tipica del mondo animale. Allora, è d’obbligo fermarsi, almeno per un secondo, e sgomberare la mente da automatismi e inganni: sentite quanto è bello questo attimo di verità.
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