Il limite di Limes, e il nostro
DA LA FIONDA (Di Mimmo Porcaro)
Recentemente Limes, una delle pochissime entità culturali italiane capaci di porsi all’altezza dei problemi attuali, ha formulato una chiara proposta di politica estera per il nostro paese, proposta che merita di essere discussa perché, pur proseguendo un ragionamento avviato da molto tempo, rappresenta un importante salto di qualità[1]. Mossa dall’esplicito, lodevole intento di far sì che l’Italia eviti di trasformarsi in mero oggetto delle dinamiche internazionali e ne divenga invece pienamente soggetto, la rivista da voce ad interventi spesso assai condivisibili che ci parlano delle condizioni di questo auspicato protagonismo: ridiscussione dell’euro, reindustrializzazione della penisola, rafforzamento dell’unità contro la frammentazione regionalistica, politiche demografiche centrate sul lavoro femminile e giovanile, mutamenti decisivi nella politica scolastica, nella gestione dell’immigrazione, ecc.. Ma il clou della proposta riguarda, come detto, la collocazione del paese nello scontro geopolitico in atto.
Relazioni pericolose
E sul punto non si poteva essere più chiari: nell’editoriale del fascicolo dedicato a Una certa idea di Italia, si invoca infatti “un accordo bilaterale speciale con gli Stati Uniti, […r]icostituente della nostra pressoché nulla deterrenza , onde anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti”[2]. E nel corpo del fascicolo si precisa che, posto che il problema principale degli Stati Uniti è la Cina e che Washington non può più (se mai ha veramente potuto) controllare tutte le aree critiche del globo, posto inoltre che di difesa comune europea è persino ozioso parlare, per non restare sguarnita l’Italia deve operare una vera rivoluzione copernicana e decidersi una buona volta a sparare, ossia a svolgere in prima persona, in stretta connessione con gli Stati Uniti e anche grazie ad una integrazione crescente della nostra industria militare in quella nordamericana, una particolare funzione di controllo e sedazione delle crisi mediterranee: deve insomma “[…]giocare attivamente partite sporche per evitare che diventino conflitti e accumulare così sufficiente credito da sedersi al tavolo in attesa del nuovo round”[3]. E ricavarne comunque una speciale “copertura” statunitense, unita però al riconoscimento di “ampi spazi di autonomia” nell’area a lei essenziale: escludendo ovviamente una cooperazione con Russia o Cina[4] . Si riconosce che l’area è piena di rischi e insidie, essendo teatro di una vera e propria manovra di aggiramento da parte di Mosca: ma ci si trae d’imbarazzo sostenendo che si tratta comunque di una seconda linea di scontro, ben diversa da quella dell’Ucraina e dei paesi viciniori.
Questa tesi deve essere respinta con decisione, nonostante non sia affatto formulata dal punto di vista di un atlantismo viscerale e becero, ma argomentata con la necessità di assicurare un ruolo relativamente autonomo al paese e nel contempo di favorire le asserite tendenze statunitensi ad una soluzione non bellicista delle tensioni con la Cina. Anche qui: intento assai lodevole; ma perseguito in maniera del tutto contraddittoria, e con poco fondamento.
Prima di tutto, per “anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti”, ci si getta in quello che è riconosciuto, anche da Limes, come uno spazio altamente conflittuale strettamente connesso alla guerra d’Ucraina. Seconda linea, sì: ma le seconde linee fanno presto a diventare prime, o comunque a confondersi con esse; soprattutto quando passano da luoghi che, come il Mediterraneo, sono centrali per i flussi militari, energetici e commerciali. Cosicché, anche in assenza di ulteriori conflitti mondiali, il relativo disimpegno di Washington dal Mediterraneo acuirebbe, e non ridurrebbe, la tensione nella nostra area, che registrerebbe un maggiore attivismo da parte di Russia, Turchia, Iran.
Ma quegli ulteriori conflitti mondiali ci saranno: se gli Stati Uniti allentano la presa diretta sul Mediterraneo non è per rattrappirsi a casa propria, ma per meglio affrontare il conflitto con la Cina, cosa che avrà pesanti controeffetti nel Mediterraneo stesso sia, di nuovo, in conseguenza della “lontananza” degli Stati Uniti (non soltanto la natura, ma anche la geopolitica abhorret vacuum), sia per la non remota ipotesi di ritorsioni da parte di un blocco militare tra Cina, Russia e Iran.
In terzo luogo, tutto è ulteriormente acuito dal fatto che la tendenza a risolvere manu militari lo scontro con la Cina è negli Stati Uniti molto più forte di quello che potrebbe trasparire dagli articoli di parte nordamericana, quasi sempre moderati e realisti, ospitati dalla rivista. Articoli ragionevoli e argomentati, nei quali però si rileva che la linea “cauta” è assai debole a Washington, tanto che uno degli autori confessa di dover spesso misurare le parole per evitare rischi per la propria carriera[5]. Né la cosa muterebbe con Trump.
Il nodo essenziale è questo: per quanto il pensiero realista e moderato sia sempre stato presente, e influente, negli Stati Uniti, esso non è mai stato veramente egemone[6], e a nostro parere ciò è dovuto anche al fatto che negli Stati Uniti mancano quelle condizioni strutturali che potrebbero consentire ad alcuni apparati di stato di esercitare un’autonomia relativa rispetto alle tendenze espansioniste del capitale (e del plesso “militare-industriale”). E mancano perché il sistema decisionale di Washington non risente semplicemente della pressione esterna delle varie lobby, ma dell’interna presenza di decisori che provengono direttamente, per la gran parte, dal mondo del capitalismo: presenza ulteriormente rafforzata dal nesso quasi “naturale” coi think tank che di quel capitalismo sono ulteriore espressione, e che non svolgono certo un ruolo di mera consulenza[7]. Sono questi gli agenti economico/politici che hanno guidato per decenni la strategia nordamericana dell’ open door, ossia del libero mercato mondiale, dell’imperialismo senza colonialismo, della penetrazione affidata in prima istanza agli investimenti, ma sempre sotto la tutela (crescente nel tempo) delle armi. E questo con Clinton, con i Bush, con Obama. Rispetto a ciò Trump rappresenta una novità, ma non un’aberrazione[8]. Perché il suo protezionismo (inevitabile conseguenza della fase di apertura) ha un antesignano in Obama ed un successore in Biden, perché i “suoi” decisori, pur se in genere estranei al mondo dei think tank, sono però anch’essi strettamente connessi a quello del capitale, e perché le frazioni del capitale che a lui si rivolgono non soltanto comprendono buona parte della vecchia élite globalista, ma in ogni caso non sono affatto meno propense di quest’ultima allo scontro.
Stando così le cose, stabilire una relazione speciale con gli Stati Uniti per evitare la guerra, o quantomeno per condurne una a bassissima intensità, è come affidarsi al diavolo per evitare il peccato. La predominante tendenza alla guerra è insita nella struttura degli apparati decisionali statunitensi, ed è tale da spingere (anche grazie a una religiosità che legittima l’idea del “popolo eletto”) a comportamenti potenzialmente controproducenti: si veda la questione Ucraina, dove l’unica scelta razionale per Washington (avendo Pechino come avversaria principale) sarebbe stata quella di non proseguire nell’espansione della Nato, mentre ha invece prevalso la scelta contraria; opzione folle sia se motivata dalla sottovalutazione della reattività russa, sia se mirante alla sconfitta e dissoluzione della Russia stessa. Affidarsi completamente a una tale potenza, in chiara crisi strategica, subordinando oltre tutto ad essa in maniera quasi irreversibile quella che è ormai la punta avanzata della nostra industria nazionale, è una scelta sbagliata. Né se ne ricaverebbe la sperata relativa autonomia, perché se qualcosa gli Stati Uniti ci hanno concesso in un lontano passato, fondato sull’equilibrio fra blocchi, oggi, in piena guerra e caos, i nostri margini di libertà sarebbero risibili.
Machiavelli o Castiglione?
La proposta di Limes appare quindi del tutto irrealistica, o addirittura ingenua. Ma, a pensarci meglio, fin troppo ingenua. E infatti c’è dell’altro, qualcosa che restituisce dignità alla proposta, ma allo stesso tempo la rende ancor più contraddittoria e financo paradossale. Perché mentre si offre la relazione speciale di cui sopra, contemporaneamente si dice che gli interessi italiani non coincidono affatto con quelli statunitensi e che, soprattutto, non coincidono le nostre rispettive idee di Occidente: Occidente considerato dagli Stati Uniti come un’entità in perenne espansione, e da noi invece come una realtà finita e delimitata che con altre analoghe realtà deve confrontarsi e venire a patti. E si aggiunge, e questo è forse il punto più interessante pur se solo accennato, che la nostra azione nel mediterraneo dovrebbe anche servire a supplire alle deficienze di pensiero strategico degli Stati Uniti[9].
Insomma: la relazione speciale serve a far sì che gli americani continuino, pur se meno direttamente, a proteggerci, ma che in cambio di un nostro ruolo assai più attivo ci lascino fare di testa nostra quello che hanno dimostrato di non saper fare di testa loro, e ci lascino perseguire i nostri distinti interessi, che di fatto escludono la partecipazione a una guerra dell’Occidente contro il resto del mondo. Questa sembrerebbe la sostanza “machiavellica” della proposta di Limes: fare la guerra per non fare la guerra, riuscire a perseguire i nostri interessi guardando le spalle a una potenza che ha interessi essenzialmente divergenti, ed insegnandole quella sorta di moderazione che le sue dimensioni e la sua storia le impediscono di acquisire autonomamente.
A tutto voler concedere, la proposta che qui discutiamo potrebbe essere interpretata anche come punto d’incontro tra un massimo di realismo e un massimo di tutela dell’interesse del paese. Il (prudentemente) sottaciuto ragionamento di Limes potrebbe essere il seguente: siccome in ogni caso un’alleanza particolare con gli Stati Uniti è al momento inevitabile, tanto vale proporla come nostra scelta autonoma, e quindi sottoporla a determinate condizioni, quali una certa libertà di manovra e magari la ridiscussione del pericoloso trattato (“segreto”) del 1954 sull’utilizzo delle basi americane presenti nel nostro territorio. Ma anche una simile finezza geopolitica sarebbe destituita di fondamento, per gli stessi motivi generali di cui si è detto prima. In particolare, poi, essa sarebbe una ripetizione di quella “indipendenza dipendente”[10] che ha caratterizzato ciclicamente la nostra relazione con Washington, e che consiste nell’ottenere margini di autonomia per l’Italia in cambio di un preliminare rafforzamento della nostra subordinazione gerarchica: così Fanfani poté avviare il suo neoatlantismo (sostanzialmente: apertura commerciale e politica nei confronti dei paesi in via di sviluppo, e relazioni economiche con la stessa Urss) soltanto dopo aver giurato su Foreing Affairs che la sua strategia era (come in effetti era) una ben precisa forma di anticomunismo, ben più raffinata dello scontro diretto con Mosca. Così Craxi poté continuare a muoversi “autonomamente” in Medio oriente e nei Balcani anche perché nel contempo ribadiva la chiusura verso i comunisti e, soprattutto, accettava l’installazione degli euromissili sul territorio italiano. Già ieri questa strategia ha avuto esiti limitati. Ma oggi il costo della relativa indipendenza sarebbe assai maggiore, e in cambio quasi evanescente sarebbe l’indipendenza stessa, dato il semplice fatto che – ripetiamolo – siamo in guerra, ed in guerra le pretese dell’egemone si rafforzano, limitando le manovre dell’alleato e rendendo addirittura possibile una riforma in peius degli accordi che si vorrebbero modificare.
Non a caso, quindi, la proposta di Limes è stata qui definita “machiavellica” con una sottolineatura delle virgolette: lo si è fatto perché Machiavelli non è ovviamente riducibile a un repertorio di astuzie, poi perché la proposta è talmente iperrealista da divenire idealistica, e infine perché, pur se nella rivista Machiavelli è opportunamente invocato in un significativo articolo contro il tabù del vincolo esterno[11], più che di Machiavelli qui si tratta del Castiglione, ossia dell’autore del Libro del Cortegiano. Ciò sia detto senza alcuna intenzione d’offendere: non solo il Cortegiano è uno splendido libro che ha avuto, a suo tempo e ben oltre, una diffusione e un’importanza eccezionali, ma esso non è nemmeno quell’invito, appunto, alla servile cortigianeria che riassunti affrettati ci hanno spesso fatto credere. Il cortigiano del Castiglione deve ingraziarsi il signore non per lucrarne piccoli favori, ma per ottenere la sua fiducia e quindi potergli dire francamente la verità, e indurlo così a scegliere il pubblico bene invece del male[12]. Nobile ruolo: peccato che serva a ribadire la servitù e ad evitare di fare in prima persona quel che si spera faccia il signore.
In questa impossibilità a staccarsi dal “signore”, ossia dagli Stati Uniti, sta tutto il limite della pur notevole impresa culturale di Limes e del suo tentativo (coraggioso, in Italia) di mettere comunque sempre in primo piano l’interesse nazionale. Per Limes, infatti, (e questo è, per quanto qui ci riguarda, il suo limite principale) l’interesse nazionale italiano coincide con l’alleanza atlantica: la rivista non definisce in maniera indipendente l’interesse del paese per poi mediarlo, inevitabilmente, coi rapporti di forza, ma dice fin da subito che la relazione con Washington è parte integrante di tale interesse[13]. Affermazione mesta, ma tutto sommato relativamente poco nociva in epoca di globalizzazione ascendente, tragica nell’epoca di guerra che anche Limes sa essere stata inaugurata proprio dal paese a cui proponiamo una special partnership che dalla guerra ci salvi.
Dell’interesse nazionale
Questa è la proposta di Limes, e si è visto cosa pensarne. Ma noi cosa proponiamo? Noi (e intendo con “noi” tutti coloro che, almeno dall’epoca del governo Monti, hanno scoperto e rivendicato il nesso tra sovranità nazionale, democrazia e prospettiva socialista) non sappiamo andare oltre la giusta visione di un nuovo equilibrio multipolare, visione in cui però non è mai veramente precisato il posto che spetterebbe all’Italia (se non in negativo: fuori dalla Nato, fuori dall’euro…). Vogliamo essere l’estrema propaggine di un blocco occidentale, oppure di un “blocco Brics”? Vogliamo far parte di un autonomo blocco europeo o mediterraneo? Oppure auspichiamo che gli eventi ci consegnino un ruolo di battitore libero, consentendoci di lucrare dagli uni e dagli altri? Probabilmente, l’incapacità di rispondere a questa domanda è uno dei motivi dell’attuale debolezza politica delle nostre posizioni.
Chi scrive si rende conto che la risposta a una questione del genere potrebbe essere data solo dal comitato centrale del “partito che non c’è”. Ma poiché il partito, appunto, non c’è, bisogna assumersi il rischio di avanzare ipotesi fondate, al momento, quasi solo sulla riflessione individuale.
Prima di tutto, però, è necessario fare una breve digressione sulla questione dell’interesse nazionale. Se è vero che tale interesse dipende in buona misura da dati “duri”, come la collocazione geografica e gli effetti di lunga durata della storia di un paese, è altrettanto vero che l’interpretazione di questi stessi dati, e quindi la definizione stessa dell’interesse nazionale, è oggetto di un conflitto che è alla fin fine un conflitto di classe.
Per le frazioni mondialiste del capitalismo italiano (o per le frazioni del capitale mondiale momentaneamente ospitate dal Bel Paese), l’interesse nazionale non esiste, oppure si identifica con l’ubbidienza alle istituzioni chiave dell’Occidente.
Più complicato è invece l’atteggiamento del capitale “nazionale” (in gran parte piccolo capitale), oggi in buona misura rappresentato dalla destra. In questo caso l’interesse nazionale si identifica con tutto ciò che consente la prosecuzione di un modello economico e sociale low profile, fondato sulle piccole dimensioni d’impresa, i bassi salari, la scarsa innovazione, il lassismo fiscale: il tutto nel contesto di uno stato debole (tranne che per gli apparati militari e repressivi), frammentato, in gran parte privatizzato e esposto ai flussi dell’economia criminale, uno stato la cui politica economica consiste essenzialmente di sussidi alle imprese[14]. In questo caso, quindi, la rivendicazione della sovranità nazionale non è fatta in nome di un nuovo ruolo regolatore e redistributore dello stato, ma al contrario si concentra soltanto contro le “restrizioni” e le “regole” (spesso indubbiamente inaccettabili) imposte dai “burocrati” di Bruxelles: viene rivendicata la sovranità verso l’esterno, ma soprattutto per poter continuare a minare la sovranità interna dello stato, ossia quella che si esercita come limitazione dello strapotere degli interessi privati. Certo, nei momenti di più grave crisi si giunge a mettere in discussione la stessa appartenenza all’eurozona: ma alla fine la relativa debolezza di questo blocco, e soprattutto l’orientamento bon gré mal gré europeista dei suoi maggiori rappresentanti (ossia dell’ industria del Nord inserita nella catena del valore tedesca e della stessa Fininvest/Mediaset, divenuta ormai quest’ultima MediaforEurope) inducono a più miti consigli. Come Mussolini faceva il socialista solo quando non era ancora o non era più al potere, così la destra anti-euro dimentica i suoi astratti furori non appena perviene al governo[15]. In questo quadro l’interesse nazionale si identifica soprattutto col “far da sé” in tutti i campi in cui è possibile, e col prendere dall’Unione europea solo quel tanto di denaro che essa occasionalmente eroga, per il resto compensando con l’evasione fiscale le limitazioni imposte dall’euro. Su questa fragilissima base la rivendicazione della sovranità nazionale da parte della destra è destinata ad oscillare tra la mera retorica e l’avventurismo. In condizioni relativamente normali gli interessi rappresentati dalla destra preferiscono convivere, pur mugugnando, con le istituzioni comunitarie. In condizioni davvero eccezionali si potrebbe passare ai fatti: ma peggio sarebbe, perché data la nostra debolezza l’uscita dalla zona euro ci costringerebbe a consegnarci integralmente all’egemone attuale e alla sua insensata strategia, ribadendo così il destino della destra italiana: quello di agitare un nazionalismo straccione per poi soffocare la sovranità nazionale nelle braccia di un pericoloso protettore, ieri Hitler, oggi l’inquilino, comunque guerrafondaio, della Casa Bianca.
Assai diverso è l’interesse nazionale visto alla luce delle esigenze obiettive delle classi subalterne. Che hanno bisogno della costruzione di uno stato forte e autorevole, neutrale e pacifico in politica estera, capace, all’interno, di invertire la tendenza alla pauperizzazione del lavoro attraverso un vero e proprio piano di reindustrializzazione del paese (base per la piena occupazione e quindi per il rafforzamento di un autonomo movimento dei lavoratori), capace di imporre una tassazione progressiva, e così anche un ampiamento dello stato sociale. Tutto ciò richiede ovviamente una piena attuazione della sovranità monetaria: ecco dunque che la definizione e il perseguimento dell’interesse nazionale, e quindi il recupero della sovranità, sono questioni che sorgono direttamente ed autonomamente dalle esigenze della classi subalterne, a prescindere dalle posizioni e dalle richieste della frazione “meno globalista” del capitale. Non si tratta quindi di temi “di destra”, come un’attardata sinistra ex radicale continua a ripetere, ma di temi che definiscono, contemporaneamente, obiettivi e condizioni di possibilità della lotta di classe.
Ripetiamo, però, che la sovranità rivendicata dalle classi subalterne per essere efficace deve esercitarsi all’interno di uno spazio che consenta davvero una relativa autonomia dai flussi del capitale finanziario mondiale e che difenda la politica monetaria popolare dagli inevitabili attacchi provenienti da aree ostili. Perché il recupero di sovranità sia effettivo, esso implica quindi (soprattutto per una media potenza in affanno come l’Italia) la costruzione di un’area di cooperazione economico-politica internazionale che raggiunga le dimensioni minime necessarie a dar vita a politiche pro-labour. Come la libertà degli individui non può consistere nella (illusoria) rivendicazione di una integrale indipendenza da ogni tipo di relazione, ma nella autonoma scelta del chi e del come, così per le nazioni la sovranità non si realizza (e meno che mai oggi) nell’autarchia, ma nella autonoma scelta dei paesi con cui cooperare e dei modi di questa cooperazione. L’Italia, insomma, e soprattutto se vuole condurre una politica popolare, non può “fare da sola”: anche se per alcune fasi potrebbe esservi costretta, questo non può essere l’obiettivo fondamentale. Fare da sola significa, alla fine, fare sempre quello che vuole il più forte: oggi gli Stati Uniti e domani (o meglio, dopodomani) chissà chi altro. Significa, quindi, abdicare di fatto a quella sovranità che si sarebbe appena riconquistata di diritto.
Il posto dell’Italia
Torniamo quindi al multipolarismo. Quale dovrebbe essere la nostra collocazione ottimale (e preciserò alla fine che cosa si debba intendere con questo “ottimale”) in un futuro mondo multipolare? I principi guida dovrebbero essere due: 1) l’Italia non deve essere la periferia di qualche polo, ossia non deve essere sulla linea di confine, che diviene troppo facilmente “linea di tiro”, ma deve avere una posizione centrale e neutrale; 2) l’Italia deve far parte di un polo che le consenta il massimo di potere decisionale possibile. Dati questi principi sono da scartare sia l’ipotesi dell’esser parte di un grande blocco atlantico sia quella opposta: in entrambi i casi saremmo sulla linea di tiro, in entrambi i casi il nostro potere di condizionamento delle decisioni del polo sarebbe minimale. L’idea di un polo mediterraneo, affascinante e spesso riaffiorante negli anni, è dettata dalla logica, ossia da una serie di motivi storico-geografici che qui diamo per noti: ma nelle condizioni attuali essa non è realizzabile, o quantomeno non è più perseguibile come strategia unica o principale. Infatti il Mediterraneo si è fatto assai più affollato (e difficile) e noi ci siamo fati assai più deboli, economicamente e politicamente (il “piano Mattei” senza la potenza dell’industria di stato e senza una pur relativa autonomia da Washington è pura caricatura): un accesso parzialmente influente al Mediterraneo, al momento, ci sarebbe possibile soltanto nelle forme della “relazione speciale” con gli Stati Uniti già criticata sopra.
Cosa resta, dunque? Resta la prospettiva di un’alleanza economico-politica fra paesi europei, un’alleanza che nasca sulle ceneri dell’Unione europea o che comunque vada de facto oltre l’Unione e oltre l’euro e si basi sulla neutralità e sul ripudio del liberismo. Un’alleanza a cui l’Italia apporterebbe il proprio peso economico comunque ancora significativo, la propria proiezione mediterranea (che, allora sì, dall’alleanza sarebbe rafforzata e quindi di nuovo possibile al meglio), la valenza politica del proprio smarcarsi dagli Stati Uniti. Questa alleanza ci consentirebbe di non essere sul confine di uno scontro, ma parte di un blocco centrale e neutrale, e in essa il nostro paese, pur non avendo probabilmente un ruolo preponderante, avrebbe comunque voce in capitolo molto più che in qualunque altro sodalizio.
Secondo Carlo Maria Santoro l’Italia si è sempre pensata (a ragione o a torto) alternativamente come penisola, ossia come appendice mediterranea del continente europeo, oppure come “isola”, ossia come autonomo soggetto mediterraneo: la prima rappresentazione, secondo Santoro, ha sempre accompagnato politiche eccessivamente subalterne (e l’Unione europea ne è l’ultima esemplificazione), mentre la seconda ha favorito atteggiamenti spesso troppo volontaristici[16]. Nelle prime tre ipotesi considerate (polo occidentale, polo Brics, avventura mediterranea) noi saremmo una sorta di isola vicinissima all’Europa ma staccata da essa, esposta in solitudine a tutti i venti. Venti di guerra. Nella quarta ipotesi saremmo certamente una penisola del continente europeo, ma adesso in un ruolo di coprotagonista e con una più autorevole proiezione Mediterranea.
Difficile? No: difficilissimo. Facilissimo sarebbe restare dove siamo: e quindi rimanere sulla linea di tiro. Facile sarebbe provare ad avventurarsi nel Mediterraneo, senza però avere la forza di gestire alcunché. Meno facile, ma non impossibile, sarebbe entrare nell’area di influenza dei Brics, subendo però poi la pressione atlantista senza peraltro avere la certezza di una integrazione vantaggiosa con l’Est. D’altra parte, un’alleanza europea come quella appena suggerita ha dalla sua una significativa razionalità geopolitica: non a caso ritorna ciclicamente ogni volta che si debba pensare un’alternativa neutralista allo scontro tra Est e Ovest (come avvenne al Pci negli anni ’70). Inoltre può avvalersi del ricordo di una fase storica passata, in cui la partecipazione alla Cee poté addirittura essere vista come modo per rafforzare la sovranità dei singoli stati[17]. Una tale alleanza richiederebbe certamente preliminari sconvolgimenti politici in ciascuno dei paesi contraenti, tali da mettere fuori gioco l’atlantismo e il liberismo della destra e della sinistra attuali. Ma del resto è proprio in un’epoca di sconvolgimenti che stiamo vivendo, e l’Europa ne è al centro. Non può sfuggire a nessuno il fatto che subito dopo i conflitti che variamente contrappongono l’Occidente all’Est, vi è un serio conflitto all’interno dell’Occidente, da tempo latente ma oggi sempre più palese, che contrappone gli Stati Uniti e gran parte dell’Europa. Un conflitto che attraverso la guerra un Ucraina, mira anche a indebolire strutturalmente il continente e ad aumentarne la dipendenza economica dagli Stati Uniti, sì da rendergli definitivamente impossibile quella cooperazione con la Russia che da sempre Washington considera come una vera e propria catastrofe. Insomma l’Europa non è semplicemente teatro occasionale di guerra, ma è posta in gioco nel conflitto globale[18], e ciò non può non favorire lacerazioni, conflitti e mutamenti epocali: conflitti e mutamenti nei quali inserirsi consapevolmente.
Prospettive e parole d’ordine
Due questioni si pongono, in conclusione: una relativa al rapporto tra quest’idea di alleanza europea e la lotta contro l’Unione e l’euro; l’altra, più generale, relativa allo stesso statuto politico dell’idea: una parola d’ordine immediatamente agibile o una vaga prospettiva da citare ogni tanto, proseguendo intanto nella piccola tattica day by day?
Quanto alla prima questione bisogna evitare equivoci: un blocco europeo come quello che abbiamo ipotizzato è totalmente contrario alla logica geopolitica ed economica che sottostà alla attuale Unione europea. Non nasce per rafforzare l’atlantismo, ma per decretarne la fine. Non riduce la politica a serva dell’economia, ma la rimette al posto di comando. Quel blocco non si realizza quindi come prosecuzione dell’esperienza attuale, come suo approfondimento in direzione dei famosi Stati Uniti d’Europa, ma come inversione di marcia: come rapporto fra stati sovrani fondato su una scelta politica di autonomia strategica[19]. L’idea è che proprio perché abbiamo bisogno di un’alleanza economico-politica orientata alla neutralità, al controllo dei capitali e alle politiche espansive, proprio per questo dobbiamo superare le attuali istituzioni comunitarie invece di renderle più cogenti ed “unitarie”.
Quanto alla seconda questione, bisogna sempre ricordare che in politica, e soprattutto in politica estera, è molto difficile raggiungere direttamente lo scopo prefissato e bisogna passare attraverso infinite mediazioni e svolte tattiche, che spesso comportano anche una ridefinizione dello scopo stesso: scopo che deve essere comunque sempre esplicitato e tenuto a mente, non fosse altro per capire di quanto ci stiamo allontanando da esso. Quindi l’idea dell’alleanza europea può al momento essere indicata come prospettiva generale, ma non per questo può divenire parola d’ordine immediata (a meno di un deciso modificarsi della situazione). Deve però essere sempre perseguita, e fin da subito, a prescindere dalle forme che essa di volta in volta può assumere, la costruzione di uno spazio cooperativo internazionale, e ciò sia nelle relazioni europee sia in quelle con qualunque altro stato disponibile: in assenza di uno spazio stabile, anche reti momentanee possono essere utili. E per quanto riguarda l’Europa in senso stretto, l’idea di questo spazio può essere costretta a fare alcuni passi avanti anche dentro la cornice della Nato e dell’Unione europea: ad esempio costruendo una coalizione anti-escalation all’interno della prima e forzando con decisioni intergovernative ad hoc i peggiori vincoli economici della seconda. Lo stesso superamento dell’euro può conoscere diverse forme, alcune anche momentaneamente interne all’Unione[20].
Tra la situazione attuale e l’uscita netta da Nato e euro possono esservi insomma numerose vie intermedie che consentono di accumulare forze per una spallata ulteriore, mentre posizioni che si riducono a ripetere senza posa l’obiettivo finale hanno solo l’effetto di impedire quella accumulazione.
Il nostro limite maggiore, finora è stato proprio questo: ripetere l’idea di fondo senza mai arrischiarsi ad articolarla, sperando che “prima o poi” una crisi mostri a tutti che abbiamo sempre avuto ragione: ma a quel punto, data la nostra inconsistenza, numerose schiere di camaleonti si impadronirebbero di quell’idea, deturpandola e volgendola a loro favore. E, già da ora, il mero concentrarsi sulla sola exit non ha fatto altro che confondere la nostra retorica con quella (strumentale) della destra: mentre invece ci sarebbe tutto lo spazio per sottrarre a quest’ultima l’arma simbolica della difesa del paese, mostrando che l’unica vera sovranità nazionale è quella che nasce dalle autonome iniziative delle classi subalterne.
Non è peregrino il pensare che una proposta concreta e realistica di nuova collocazione del paese (proposta magari anche diversa da quella qui avanzata, ma comunque rispondente alle stesse esigenze), nonché l’esplicitazione del nesso tra lotta di classe e recupero della sovranità, possano non solo offrire una prospettiva di fondo a un nuovo ciclo di lotte popolari, ma anche favorire l’avvio di questo stesso ciclo, vista l’attuale (momentanea?) difficoltà delle classi subalterne a percepirsi e mobilitarsi soltanto come tali, e la possibile propensione a farlo, piuttosto, anche come movimento di cittadini che rivendicano la costruzione di una nuova nazione, democratica e pacifica perché sovrana.
[1] Il riferimento è a Limes n. 2/24, Una certa idea di Italia e Limes n. 3/24, Mal d’America, d’ora in poi L2 e L3. Non ho letto finora riflessioni critiche su questi due numeri, ad eccezione della attenta ricostruzione del numero 3 e di quello successivo fatta da Carlo Formenti nel suo blog Per un socialismo del secolo XXI, https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/, ricostruzione alla quale rimando per gli ulteriori approfondimenti.
[2] L2, p 31.
[3] Federico Petroni “Per una relazione speciale con gli Stati Uniti”, L2, p. 243
[4] Ibidem, p. 235
[5] Si vedano in L3, tra gli altri, Scott Smitson, “Le otto patologie dell’America”; “L’impero deve darsi un limite”, conversazione con Michael Kimmage, e “Non possiamo fare la guerra in Europa senza scoprirci in Asia”, conversazione con Elbridge A. Colby: la “confessione” è fatta appunto da quest’ultimo, a p. 161.
[6] Si veda al proposito la ricostruzione della vicenda di George Kennan, forse il più eminente rappresentante del realismo strategico statunitense, fatta in “L’impero, non il mondo”, editoriale di L3.
[7] Sul punto sono assai rilevanti le ricerche riassunte in Bastiaan van Apeldoorn, Nanà de Graaff, “Corporate elite Networks and US post-Cold War grand strategy from Clinton to Obama”, in European Journal of International Relations, Vol. 20, 2014 e in Bastiaan van Apeldoorn, Jaša Veselinovič, Nanà de Graaff, Trump and the Remaking of American Grand Strategy. The Shift from Open Door Globalism to Economic Nationalism, Palgrave Macmillan, London-New York, 2023.
[8] Op. ult. cit., pp 211 e passim.
[9] F. Petroni, art. cit, p. 243.
[10] Ho proposto la categoria di “indipendenza dipendente”, per definire alcune fasi della politica estera italiana fino agli anni ’80 del secolo scorso, nel sesto capitolo del mio I senza patria. La solitudine degli italiani in un mondo di nazioni, Meltemi, Milano, 2020.
[11] Giuseppe de Ruvo, “Il vincolo esterno (non) è un destino”, in L2, pp.54-55.
[12] “Il fin adunque del perfetto cortegiano, del quale insino a qui non s’è parlato, estimo io che sia che sia il guadagnarsi per mezzo delle condicioni attribuitegli da questi signori [ossia dai partecipanti alla conversazione sulle caratteristiche del cortigiano, NdA] talmente la benivolenzia e l’animo di quel principe a cui serve che possa dirgli e sempre gli dica la verità di ogni cosa che ad esso convenga sapere, senza timor o periculo di despiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata a far cosa non conveniente, ardisca di contradirgli, e con gentil modo valersi della grazia acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viciosa ed indurlo al camin della virtù; e così […] saprà in ogni proposito destramente far vedere al suo principe quanto onore ed utile nasca a lui ed alli suoi dalla giustizia, dalla liberalità, dalla magnanimità, dalla mansuetudine e dall’altre virtù che si convengono a bon principe; e, per contrario, quanta infamia e danno proceda dai vicii oppositi a queste”, Baldassar Castiglione, Il Libro del Cortegiano, Garzanti, Milano, 1990, pp.368-369.
[13] Questo avviene ad esempio nell’ Editoriale del n. 2 del 2019, “Perché non possiamo non dirci italiani”, in cui già si parla della “relazione speciale”.
[14] Sul punto si veda, a titolo indicativo, Andrea Capussela, Patrioti pericolosi: la destra italiana e l’interesse nazionale, https://legrandcontinent.eu/it/2024/01/25/patrioti-pericolosi-la-destra-italiana-e-linteresse-nazionale/. Quanto alla trentennale distruzione dell’unità e dell’operatività dello stato italiano (attuata in concordia discors dalla sedicente sinistra e dalla destra, ed oggi da quest’ultima decisamente accelerata) essa fa sì che il premierato, a parte ogni altra considerazione, sarebbe eventualmente solo un modo per garantire non la governabilità, ma la continuazione del governo Meloni anche a dispetto dei suoi stessi alleati. Il problema fondamentale del paese non è la stabilità del governo (ammesso e non concesso che la strampalata riforma possa garantirla sul serio), ma la ripubblicizzazione dello stato.
[15] Non è un caso, quindi, se i famosi “poteri forti” sovranazionali, soprattutto dopo il recente allontanamento di Salvini e Le Pen dall’AfD, vedono nella destra europea e italiana una forza politica oggi più affidabile della sinistra perché più capace, magari anche dando sfogo ad alcuni umori critici, di controllare e disciplinare la popolazione in epoca di guerra: cosa che fa dire a qualcuno che ormai la destra non è più osteggiata dal mainstream: ma è il mainstream: https://www.italiaoggi.it/news/castellani-luiss-le-destre-sdoganate-dalla-finanza-202405231736414070.
[16] Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza. L’Italia dall’Unità ad oggi, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 47 e ss..
[17] Si vedano, tra gli altri, Alan Milward, The European Rescue of the Nation-State, Routledge, London, 2000 e Sante Cruciani, L’Europa delle sinistre. La nascita del mercato comune europeo attraverso i casi francese e italiano (1955-1957), Carocci, Roma, 2007.
[18] Raffaele Sciortino, “L’Europa morirà americana?”, in Su la testa. Materiali per la rifondazione comunista, n. 21-22, giugno 2024; Pino Arlacchi, “La guerra e l’Europa suicidata dagli Usa”, Il Fatto Quotidiano 4/5/2024.
[19] Questa ipotesi converge in buona parte con quella elaborata da Sahra Wagenknecht in Contro la sinistra neoliberale, Fazi, Roma, 2022, pp. 314-321.
[20] Si vedano, ad esempio, Joseph E. Stiglitz, L’Euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa, Einaudi, Torino, 2017, ed Ernesto Screpanti, Per un New Deal europeo, https://www.sinistrainrete.info/europa/27514-ernesto-screpanti-per-un-new-deal-europeo.html
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