Dopo che Epimeteo ebbe assegnato ad ogni specie animale una virtù che gli permettesse di sopravvivere, ne rimase solo una scoperta: l’Homo, debole e indifeso in mezzo ad una natura ostile. Fu così che il fratello più saggio, Prometeo (ossia, colui che “riflette prima”), mosso a compassione, decise prima di infrangere la Legge e poi di sopportarne la punizione pur di liberare gli esseri umani da quella condizione di minorità. Rubò l’intelligenza e il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini, andando incontro all’inevitabile ira di Zeus. Così, il re dell’Olimpo lo fece incatenare e ordinò ad una maestosa aquila di divorargli il fegato ogni giorno, dato che gli ricresceva di notte. La triste sorte di Prometeo non fermò l’impulsivo Epimeteo (ossia, colui che “riflette dopo”) dall’accettare di sposarsi con una bellissima mortale, famosa per la sua curiosità, e di accettare come regalo un vaso per conto di Zeus. Nonostante la raccomandazione di non farle mai aprire il vaso, Epimeteo non si preoccupò di nasconderlo a dovere. E indovinate cosa successe? Esatto, la donna, chiamata Pandora (ossia, colei che ha tutti i doni femminili), aprì il vaso dal quale uscirono tutti i mali del mondo (già, i Greci erano piuttosto maschilisti). Agli umani non restava altro che la speranza, la tecnica e il fuoco.
Questo breve riassunto, che non tiene conto delle svariate interpretazioni del mito, è utile per farci riflettere sui molteplici aspetti che ancora oggi interessano il ruolo della nostra specie nel mondo e il suo rapporto con i sistemi biofisici e con la tecnologia.
Se un greco dell’antichità fosse proiettato nel futuro, probabilmente rimarrebbe stupefatto dei progressi scientifici e dei benefici apportati da un sapere tecnico in continua espansione. Dal punto di vista della specie alcuni dati sembrano indiscutibili: negli ultimi 3000 anni, dai tempi degli Antichi Greci, la popolazione mondiale è cresciuta di oltre centociquanta (150!) volte, le aspettative di vita si sono allungate drasticamente, passando da circa 32 a oltre 75 anni, molte malattie sono state debellate e molte altre sono facilmente curabili. Ancora: siamo in grado di modificare il genoma delle piante per fargli produrre i pesticidi per uccidere gli insetti infestanti, abbiamo sottomesso il regno animale, tanto che la biomassa di tutti i mammiferi del mondo è composta quasi esclusivamente da umani (30%) e bestiame addomesticato (65%), e ci siamo espansi su ogni angolo della Terra. Inoltre, abbiamo a disposizione macchine capaci di svolgere funzioni un tempo impensabili – andare sulla Luna, effettuare videochiamate intercontinentali, costruire auto che si guidano da sole grazie all’intelligenza artificiale – che sembrano avvicinarci sempre di più all’Olimpo. Questa, in fondo, era la paura ultima di Zeus che lo portò a punire Prometeo.
Uno sguardo più attento noterebbe che questi progressi non sono stati lineari, ma si sono concentrati soprattutto nell’ultimo secolo, ossia nell’era della Grande Accelerazione partita nel secondo dopoguerra, né sono avvenuti per un improvviso slancio nella conoscenza tecnologica. Eccedendo nelle semplificazioni, potremmo dire che la causa ultima sta in un unico “dono” prometeico: l’energia fossile. Ad oggi, nonostante i crescenti investimenti nelle energie rinnovabili e gli avanzamenti tecnologici di questo settore, quasi l’80% di tutta l’energia a nostra disposizione continua ad essere fornita da petrolio, carbone e gas naturale.
Come è stato possibile questo incredibile sviluppo e perché è così difficile effettuare la transizione? Iniziamo a rispondere considerando esclusivamente la questione energetica: l’indice EROEI (Energy Return on Energy Invested) rappresenta un indicatore chiave per valutare l’efficienza e la produttività di un sistema energetico. Esso misura il rapporto tra l’energia utile prodotta da una fonte energetica e l’energia investita per ottenere, trasformare e distribuire tale energia lungo l’intero ciclo di vita del processo. Dunque misura il profitto energetico di un sistema; infatti, un EROEI elevato indica che una fonte energetica è altamente efficiente e in grado di produrre una quantità significativa di energia utilizzabile rispetto all’energia necessaria per produrla. Nonostante la grande incertezza che aleggia intorno al calcolo di questo indicatore, tre fatti sono innegabili: primo, le fonti fossili generano profitti energetici enormi, nell’ordine di cento volte il costo energetico, più alti delle maggiori fonti rinnovabili; secondo, le fonti fossili sono concentrate in riserve utilizzabili a piacimento e facilmente trasferibili, a differenza delle rinnovabili che soffrono dell’intermittenza e della bassa concentrazione energetica; infine, qualunque fonte sarà caratterizzata da un EROEI decrescente nel tempo. Quest’ultimo punto è dovuto al fatto che, una volta che le sorgenti più facilmente accessibili sono state sfruttate, saranno richiesti investimenti crescenti per ottenere lo stesso ammontare di energia. Inoltre, all’aumentare dei consumi energetici totali, ci sarà bisogno di un quantitativo minimo di energia sempre più alto per mantenere le stesse infrastrutture che sono in funzione. La complessità ha un costo.
Come al tempo di Prometeo anche l’attuale era postmoderna continua a fondarsi sulla combustione per alimentare il proprio sapere e il proprio dominio. L’illusione di un mondo regolabile come un orologio è probabilmente così radicato nella nostra cultura, tanto in quella Cristiana come in quella Illuminista, da spingerci a credere in una presunta separazione tra Uomo e Natura, la quale deve essere sottomessa, comandata e controllata a piacimento. A differenza del passato, la presunta linea di demarcazione tra artificiale e naturale si sta sempre più assottigliando se consideriamo che la tecno-sfera, ossia l’insieme di tutti gli artefatti umani, pesa circa 30 miliardi di miliardi di tonnellate, più della biomassa di tutti gli esseri viventi messi insieme.
Tecno-ottimismo e sostenibilità
Com’è facile immaginare, la comprensione dell’attuale sistema economico, il capitalismo fossile, non può essere semplicemente ridotta ad una questione energetica, in quanto l’energia può essere utilizzata per scopi ed usi diversi, dando vita a svariate configurazioni e regimi sociali. D’altro canto, è altrettanto bizzarro l’atteggiamento dell’economia neoliberista che tende a minimizzare le insidie della transizione energetica, semplicemente ignorando le leggi della fisica (su questo ci torneremo più avanti). Infatti, la narrativa che sta dominando sia il discorso pubblico che le agende politiche internazionali si basa sull’idea di un capitalismo green ed inclusivo. In altre parole, non bisognerebbe riflettere sua come cambiare il sistema, ma semplicemente sostituire le fonti fossili con quelle rinnovabili investendo nel progresso tecnologico e nell’efficienza, ovviamente solo attraverso il libero mercato.
La giustificazione teorica del tecno-ottismo in salsa neolibersista è riconducibile al cosiddetto effetto percolamento (trickle down effect), assimilabile alle teorie dello sviluppo elaborate del premio Nobel per l’Economia Simon Smith Kuznets. In sintesi, Kuznets ipotizzò che lo sviluppo economico, guidato dal progresso tecnologico, avrebbe portato ad un iniziale aumento della disuguaglianza per poi arrivare ad un punto di massimo e iniziare a diminuire. Alla fine del processo, le società più avanzate avrebbero dovuto osservare un alto livello di reddito pro-capite e un basso grado di disuguaglianza economica. Questa teoria sembrava avere conferma nei dati raccolti dallo stesso economista negli Usa nei primi decenni del XX secolo. La conseguenza politica di questo ragionamento puntava in un’unica direzione: lasciare liberi i mercati di agire ed espandersi cosicché i frutti di un’economia più ricca sarebbero arrivati a tutti e, con un po’ di pazienza, i poveri ne avrebbero addirittura giovato più dei ricchi (unica condizione per poter immaginare una riduzione della disuguaglianza). Purtroppo, i dati più recenti vanno nella direzione diametralmente opposta: i superricchi accumulano profitti a tassi crescenti, velocizzati durante la crisi, e, solo per fare un esempio, l’1% della popolazione più ricca detiene quasi il 50% della ricchezza mondiale mentre la ricchezza del 60% più povero – quasi cinque miliardi di persone – è, al contrario, diminuita.[1] Probabilmente un Nobel non basta per capire i meccanismi alla base del processo di accumulazione capitalistica.
Incuranti del fallimento di questa teoria nel campo strettamente economico, gli apologeti del libero mercato hanno deciso di rilanciare, sostenendo che lo stesso meccanismo sarebbe stato valido anche rispetto al degrado ambientale. Ossia, non ci dovremmo preoccupare eccessivamente della crisi climatica dato che il progresso tecnologico e la crescita economica risolveranno automaticamente ogni problema e, di nuovo, le economie più avanzate dovrebbero osservare alti standard di vita e bassi impatti ambientali. Ad oggi, nessun paese al mondo riesce a rispettare questa condizione.[2] Anzi, l’1% più ricco della popolazione emette CO2 come 5 miliardi di persone.
Su quali solide basi scientifiche si basa il ragionamento alla base della curva di Kuznets? Nessuna. Esatto, non esiste nessuna teoria fisica, chimica o biologica a sostegno di questa idea. Anzi, si potrebbe piuttosto sostenere il contrario. Non ci credete? Allora, basti citare altri due premi Nobel l’Economia per sottolineare il completo distacco di questa disciplina dal resto dello scibile umano. Robert Solow sostenne che la crescita economica sarebbe potuta continuare (ad una velocità esponenziale) anche senza risorse naturali,[3] mentre William Nordhaus, padre dell’economia del cambiamento climatico, ha stimato, grazie ai suoi modelli, un incremento “ottimale” di temperatura globale intorno ai 3°C entro la fine del secolo; addirittura, aumenti fino a 6°C porterebbero a perdite economiche trascurabili. La motivazione? Semplice. Il cambiamento climatico non può influenzare le produzioni indoor (ossia all’interno delle fabbriche) perché si tratta di un fenomeno esterno. Sembra uno scherzo, ma purtroppo le politiche internazionali sul clima si basano proprio su questi modelli per prendere le decisioni.
Un’analisi più rigorosa e scientifica ci porta quindi a rifiutare questi modelli e a tentare di capire come affrontare il delicato rapporto tra tecnologia, disuguaglianza e sostenibilità. Arriviamo così al paradosso dell’efficienza, detto anche paradosso di Jevons (economista del tardo Ottocento) o “effetto rimbalzo”. In breve, si può facilmente verificare come ogni miglioramento tecnologico che porti ad un incremento dell’efficienza, misurata dal rapporto tra risorse utilizzate e produzione, ha storicamente determinato un aumento complessivo dell’uso totale di risorse. Infatti, nonostante nel 1970 fossero necessari 2.5 kWh per produrre un dollaro, oggi ne bastano solo 1.4 kWh, circa la metà, ma l’uso totale di energia si è triplicato nello stesso periodo, crescendo ad un tasso doppio rispetto alla popolazione mondiale. Questo fatto è ubiquo: con l’aumento di produzione mondiale di cibo la percentuale di adulti obesa è più che raddoppiata dal 1975, superando il 12% della popolazione mondiale,[4] mentre nel 2023 quasi 2,5 miliardi di persone hanno sofferto di insicurezza alimentare moderata o grave.[5] Purtroppo, questa regola è valida non solo per tutte le risorse ma anche per i rifiuti (plastica, emissioni climalteranti, sostanze tossiche, ecc), i quali stanno anch’essi aumentando in modo esponenziale, ben oltre le capacità di assorbimento degli ecosistemi. Come vedremo il paradosso dell’efficienza non è un caso né è dettato da una cattiva volontà, quanto da dinamiche fisiche, biologiche e politiche.
Dunque, è evidente che il progresso tecnologico, per quanto fondamentale nella ricerca del miglioramento delle condizioni di vita, non sia sufficiente da solo a garantire i risultati desiderati. Anzi, potrebbe addirittura generare dinamiche perverse, con incrementi nella disuguaglianza uniti all’aggravarsi della crisi ambientale. Per capirlo, bisogna riconoscere che la tecnologia è un prodotto sociale e naturale, quindi va integrato nei processi che caratterizzano queste due sfere per tentare di portarla al servizio del 99%.
Il metabolismo sociale e la necessità della giustizia
Dal punto di vista strettamente economico, il paradosso dell’efficienza trova una semplice spiegazione: tecnologie più avanzate fanno calare i costi di produzione e il prezzo del bene finale. Ad esempio, l’invenzione dei microchip ha permesso di ridurre la dimensione dei pc e quindi la quantità di materiali, portando alla possibilità di comprare computer portatili a prezzi relativamente bassi. Questo fatto ha permesso una rapida espansione del mercato con l’inevitabile “effetto rimbalzo” in termini di uso di acqua, energia e sostanze chimiche inquinanti che sono aumentate esponenzialmente anche in questo settore.[6] Secondo l’approccio neoliberista non dovremmo preoccuparci poiché i mercati e la tecnologia inevitabilmente troveranno il modo di sostituire le risorse scarse con altre, dando vita a nuovi processi di sfruttamento.
Per avere una comprensione più profonda bisognerà invece rivolgerci all’Economia Ecologica[7] che, da oltre 50 anni, cerca di integrare le più recenti conoscenze scientifiche per capire l’evoluzione dei sistemi economici. Questi vengono rappresentati come un grande metabolismo sociale, strutturato su più livelli interagenti, il quale utilizza energia e materia per poter svolgere le proprie funzioni “vitali”, rilasciando inevitabilmente scarti nell’ambiente. Questo vale per tutte le specie animali e vegetali e non ci sono motivi per escludere l’Homo da questo precesso. In particolare, tutti gli esseri viventi possono essere definiti come sistemi dissipativi, ossia sistemi complessi adattivi sottoposti alle leggi della termodinamica. Ilya Prigogine, premio Nobel per la Chimica, dimostrò che i sistemi viventi hanno bisogno di un continuo flusso di energia, materia e informazione per mantenersi lontano dall’equilibrio termico, ossia dalla morte.[8] Questo flusso, sotto specifiche condizioni, può portare alla formazione di sistemi altamente complessi e auto-organizzati che richiedono grandi quantità di energia per mantenere la loro struttura nel tempo. Si generano quindi due tendenze opposte: da un lato, i metabolismi cercano soluzioni per ridurre il consumo di energia per le stesse funzioni, dall’altro, l’incremento dell’efficienza li porta a liberare energia per sviluppare nuove funzioni e per espandersi. Tuttavia, per mantenere livelli di complessità più elevati, devono trovare soluzioni ancora più efficienti che richiedono maggiori flussi di energia. Questo ciclo persisterà fintanto che il sistema non incontri dei vincoli esterni che lo portino ad una situazione di equilibrio. Tali vincoli possono essere la presenza di altre specie o la scarsità di risorse. Ecco così spiegato il paradosso dell’efficienza in termini scientifici.[9]
Probabilmente ora sarà meno oscuro il legame indissolubile tra tecnologia, sostenibilità e giustizia. Dunque, durante una fase di espansione economica, l’insorgere del Paradosso di Jevons è praticamente inevitabile, sia a causa di una distribuzione diseguale della ricchezza che di una forte aspirazione a uno standard di vita materiale più elevato. Questo porta alla creazione di nuovi mercati per soddisfare nuovi bisogni, alimentando una domanda crescente di energia. Invece, durante le fasi in cui la società è limitata da vincoli esterni, come potrebbe essere la fase attuale, ci si può aspettare un’offerta ridotta di energia per gli usi finali e i servizi “improduttivi” della società, come l’educazione e la sanità. Questi limiti esterni richiederanno investimenti crescenti per l’approvvigionamento di fonti primarie, con conseguente aumento della spesa militare e del rischio di nuovi conflitti e guerre.
Le implicazioni del Paradosso di Jevons saranno quindi diverse: la società dovrà negoziare nuove definizioni di desiderabilità attraverso adeguamenti culturali e politici, delineando un nuovo standard di vita accettabile. Nei sistemi ecologici, la giustizia rappresenta un meccanismo autoregolatore per impedire o ritardare il collasso di un sistema guidato esclusivamente dall’imprudente mano d’Epitemeo, che agisce in modo impulsivo. In altre parole, la visione miope dei mercati, che puntano a massimizzare i profitti a breve termine, potrebbe alimentare i circoli viziosi tipici del Paradosso di Jevons. Quindi, l’inevitabile collegamento tra società, ecologia ed economia dovrebbe spingerci verso una riflessione più accurata sulle scelte di produzione e consumo private, portando la riflessione sulla direzione dello sviluppo tecnologico nel dominio pubblico. Un punto fondamentale in qualsiasi agenda politica che abbia veramente a cuore la sostenibilità è quello di tassare i super ricchi, frenare la produzione dei beni di lusso e investire massicciamente in sistemi che riducano l’impatto complessivo dell’economia, come ad esempio il trasporto pubblico rispetto a quello privato. L’ossessione per le misure intensive, come l’efficienza, rischia di deviare l’attenzione dal vero obiettivo. All’ecologia importa poco se utilizziamo la metà dei kWh per produrre un dollaro, mentre reagisce agli incrementi totali di energia che possono farci superare le soglie critiche dalle quali possono discendere effetti incalcolabili.
Un aspetto meno noto riguardante il mito di Prometeo viene riportato nel Protagora di Platone e sembra essere forse l’elemento più importante nel XXI secolo. Nonostante gli uomini dispongano delle tecniche che consentono di dominare la natura e di preservarli dai pericoli esterni, sono comunque esposti a conflitti distruttivi. Zeus comprende quindi che, per sopravvivere, la specie umana ha bisogno di due nuovi doni oltre a quelli del fuoco e delle tecniche: il senso del rispetto di ciascun individuo per i suoi simili e il senso di giustizia nella conduzione della convivenza collettiva. Non a caso, in greco antico l’appellativo di “idiota” stava ad indicare colui che pensa solo agli affari propri, trascurando le vicende collettive e gli interessi pubblici. Quello di cui abbiamo bisogno si può riassumere in una parola: la politica.
Note
[1] https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2024/01/Rapporto-OXFAM-Disuguaglianza_il-potere-al-servizio-di-pochi_15_1_2024.pdf
[2] O’Neill, D. W., Fanning, A. L., Lamb, W. F., & Steinberger, J. K. (2018). A good life for all within planetary boundaries. Nature sustainability, 1(2), 88-95.
[3] ‘‘[t]he world can, in effect, get along without natural resources.’’ (Solow, R., 1974. The economics of resources or the resources of economics. Am. Econ. Rev. 64, 1–14.).
[4] https://ilfattoalimentare.it/sovrappeso-obesita-grafici.html
[5] https://www.fao.org/interactive/state-of-food-security-nutrition/it/
[6] https://valori.it/microchip-impatto-ambientale/
[7] https://www.esg360.it/circular-economy/ritorno-al-futuro-il-nuovo-podcast-sulleconomia-ecologica/
[8] I sistemi aperti, come gli organismi viventi, scambiano energia e materia con l’esterno per poter sopravvivere. Il punto di equilibrio termico è invece caratterizzato dal massimo di entropia, ossia dall’assenza di scambio di energia, e quindi rappresenta la morte dell’organismo.
[9] Giampietro, M., & Mayumi, K. (2018). Unraveling the complexity of the Jevons Paradox: The link between innovation, efficiency, and sustainability. Frontiers in Energy Research, 6, 26.
[Immagine: Theodoor Rombouts, Prometeo incatenato].
Chi ha scritto questo non ha capito molte cose. Soprattutto sul paradosso di Jevons.
Infatti le conclusioni sono al contrario. La produzione di beni di lusso (tipo auto elettrica) è come introdurre una perdita di efficienza nel sistema (l’opposto di quanto osservato da Jevons), che reagisce con un aumento dei costi e una riduzione della produzione e dei consumi (l’opposto di quanto osservato da Jevons).
Tant’è che l’idolo degli ambientalisti, Malthus, suggeriva proprio la creazione di una classe che consumasse tutte le eccedenze per ridurre (letteralmente) il popolo alla fame e diminuirne il numero.
La pretesa di coniugare a tutti i costi l’interesse del popolo con “questa idea di tutela dell’ambiente”, come nell’articolo, è stupida.