Perché Xi non riforma la Cina come Deng
di LIMES (Giorgio Cuscito)
Il presidente cinese Xi Jinping pronuncia il suo discorso per ricordare i 40 anni trascorsi dal lancio della politica di riforma e apertura (18/12/2018). Foto: Andrea Verdelli/Getty Images
Il Partito comunista continuerà a guidare la Repubblica Popolare nel suo percorso di trasformazione economica e non lascerà che potenze straniere le impongano cambiamenti non conformi al “socialismo con caratteristiche cinesi”. Questo è il succo del lungo discorso pronunciato dal presidente Xi Jinping per celebrare il 40° anniversario dal lancio della “politica di riforma e apertura” da parte di Deng Xiaoping, avvenuto formalmente il 18 dicembre 1978, nella terza sessione plenaria dell’11° Comitato centrale del Partito.
Da quel momento, la Cina ha dato il via al suo sviluppo economico e si è aperta gradualmente al mondo. Puntando sulle esportazioni e sulla manodopera a basso costo, la Cina è cresciuta “come un fiume che scorre”, come ricorda il titolo di una nuova serie televisiva dedicata a questo periodo storico.
Per legittimarsi ulteriormente, Xi vorrebbe stabilire una chiara continuità fra le proprie riforme e quelle che hanno innescato la quarantennale ascesa cinese. Tuttavia, i programmi annunciati dal presidente nel 2013 stentano a materializzarsi e le sfide interne ed esterne alla stabilità dell’Impero del Centro sono più complesse di quelle del 1978. Chi si aspettava nuovi dettagli sul percorso di riforma durante le celebrazioni della ricorrenza è rimasto deluso. Il taglio alle tasse, la riduzione dei dazi, la politica fiscale proattiva e quella monetaria prudente annunciati per il 2019 durante la Conferenza centrale per il lavoro economico (19-21 dicembre) non possono considerarsi delle novità, ma misure per assicurare la stabilità economica nel breve-medio periodo.
“Come un fiume che scorre”
Nell’arco degli ultimi quarant’anni, la Repubblica Popolare ha registrato un tasso di crescita medio annuale del 9,5%. Circa 750 milioni di cinesi sono stati elevati dalla soglia della povertà e lo stesso dovrebbe accadere ai restanti 40 milioni entro il 2020. La Cina oggi rappresenta il 28% della crescita economica globale, più di quella di Usa e Giappone messi insieme. Nel suo discorso, Xi ha attribuito questi risultati alla guida del Partito, piuttosto che alla sperimentazione di nuove idee, caratteristica degli anni Ottanta.
Le cifre sono da capogiro, ma il corso di questo “fiume” è ostacolato dalla maturazione di molteplici problemi economici e sociali. Per esempio, il divario di ricchezza tra costa e interno del paese, gli alti tassi d’inquinamento, il rischio dello scoppio della bolla immobiliare, l’aumento del tasso d’invecchiamento, quello dell’individualismo derivante dal maggior benessere. Le difficoltà dell’Impero del Centro sono confermate dal probabile nuovo rallentamento del tasso di crescita del pil, che potrebbe attestarsi quest’anno intorno al 6,5% e al 6% nel 2019. Tali questioni richiedono nuove riforme finalizzate alla trasformazione del modello economico, al potenziamento dei consumi interni e all’urbanizzazione.
A tal proposito, Xi non ha fornito nuovi elementi. Si è piuttosto limitato a elencare gli stessi obiettivi annunciati nel 2013, dopo il terzo plenum del 18° Comitato centrale del Partito. Questi includono lo sviluppo dell’economia pubblica, la guida e lo sviluppo di quella privata, il conferimento di un ruolo più grande al mercato nell’allocazione delle risorse, stimolare l’energia di tutte le parti di quest’ultimo. In sostanza, il sostegno alle imprese di Stato viene prima.
Xi ha chiarito che i futuri cambiamenti economici non implicheranno una liberalizzazione in stile occidentale. “Riformeremo ciò che deve e può essere riformato, ma non cambieremo assolutamente ciò che non deve e non può essere cambiato”. Tradotto: la guida del Partito è indiscutibile.
Il presidente cinese tiene le redini del paese in un modo diverso da quello in cui lo fece Deng. La politica di riforma e apertura servì non solo a promuovere lo sviluppo del paese, ma anche a superare le sofferenze sperimentate durante la rivoluzione culturale voluta da Mao Zedong e a favorire l’introduzione della leadership collettiva. Deng era il capo della Commissione militare centrale (Cmc, vertice dell’Esercito popolare di liberazione), ma non era segretario del Partito comunista né presidente della Repubblica Popolare. Queste due cariche erano ricoperte rispettivamente da Zhao Ziyang e Yang Shangkun, entrambi a loro volta vicepresidenti della Cmc, cioè alle dipendenze di Deng. Tale sistema era fragile, ma evitava che un nuovo “grande timoniere” accentrasse nuovamente il potere.
Dal 2013 a oggi, Xi ha di fatto rovesciato gli equilibri di potere precedenti, catalizzando su di sé tutte e tre i ruoli e rimuovendo il limite dei due mandati da capo di Stato. Il presidente ha cercato di scardinare le reti d’interessi che si erano formate sotto i suoi predecessori Jiang Zemin e Hu Jintao, anche grazie alla politica di riforma e apertura. Quest’ultima aveva incoraggiato i funzionari locali a stimolare la crescita economica nelle rispettive aree di competenza, ma nel corso degli anni ciò si era tradotto anche in una maggiore corruzione. Xi ha dunque lanciato una campagna per estromettere i suoi oppositori e ha promosso uomini a lui fidati ai vertici del Partito, delle Forze armate e dello Stato. Convinto che solo così sia possibile riformare l’economia del paese.
Malgrado nel suo discorso il presidente abbia rimarcato la “schiacciante vittoria” contro la corruzione, le grandi trasformazioni promesse in diversi consessi internazionali stentano ad arrivare. Segno che probabilmente nel Partito qualcuno ancora non concorda con la sua strategia.
Xi ha parlato anche dell’importanza di “calmare le tempeste” (pingxi fengbo). Probabilmente si riferiva all’importanza di preservare la stabilità in occasione del prossimo 4 luglio 2019, quando ricorreranno i 30 anni dalle proteste di Tiananmen. Quell’evento non solo alimentò una “tempesta politica” (una delle formule usate da Pechino per ricordare quel periodo), ma interruppe momentaneamente la spinta propulsiva impartita da Deng. Si aggiunga al calendario anche il centenario del “movimento del 4 maggio”. Quel giorno, nel 1919, i cinesi contestarono il governo per non esser stato in grado di recuperare lo Shandong al momento della stesura del Trattato di Versailles al termine della prima guerra mondiale. Il nazionalismo cinese si diffuse nel paese e tra i giovani che protestarono vi era anche Mao.
Xi non permetterà che tali ricorrenze inneschino nuove tensioni. Non per caso, qualche mese fa, ha assegnato a Qiu Shuiping il ruolo di segretario del Partito presso l’Università di Pechino. Qiu è stato capo dell’ufficio del ministero della sicurezza dello Stato nella capitale. Evidentemente il presidente vuole tenere sotto controllo l’ateneo, che fu protagonista dei fatti di Tiananmen e del movimento del 4 maggio.
Infografica realizzata da Laura Canali e pubblicata nel numero di Limes “Non tutte le Cine sono di Xi”
Superare Deng
In attesa di una grande riforma che consenta a Xi di superare Deng, i media cinesi cercano di legittimare il ruolo del presidente nell’ambito della politica di riforma e apertura. Nel dossier del Quotidiano del Popolo dedicato al quarantennale, il presidente cinese è menzionato ben 127 volte, Deng solo 60, Mao 11. Nell’ultimo anno, i mezzi di comunicazione cinesi hanno inoltre sottolineato il contributo di Xi Zhongxun, padre dell’attuale leader cinese, allo sviluppo della zona economica speciale di Shenzhen, primo laboratorio delle trasformazioni poi promosse da Deng. La narrazione cinese vuole che Xi padre abbia trasmesso la suo visione al figlio, il quale a sua volta negli anni Ottanta ha cominciato a compiere i primi esperimenti di riforma nelle campagne della contea di Zhengding (nello Hebei).
Pare che Deng Pufang, figlio di Xiaoping, non abbia gradito il ridimensionamento del contributo del padre a beneficio di Xi. In un discorso non pubblicato ufficialmente dello scorso settembre, Deng ha affermato che “la questione cruciale per la Cina è sistemare i suoi problemi”. Diversi analisti hanno interpretato quest’affermazione come una critica alle politiche di Xi e uno stimolo ad appianare le divergenze con gli Usa per risolvere le difficoltà domestiche.
Ma i rapporti di forza tra le due potenze sono cambiati da quando suo padre guidava il paese. Negli anni Settanta e Ottanta, gli Stati Uniti vedevano nella Repubblica Popolare un partner cui avvicinarsi per contrastare tatticamente l’Unione Sovietica. Oggi invece Washington vuole impedire a Pechino di colmare il divario militare e tecnologico. Perché un condominio sino-statunitense o, peggio, un dominio sinico potrebbero determinare il declino americano.
Da “crescere nell’ombra” a “impegnarsi per raggiungere il risultato”
Xi ha detto che “nessuno può dire al popolo cinese cosa dovrebbe o non dovrebbe fare”. In sostanza ha fatto capire che la competizione con gli Usa non intaccherà il percorso complessivo della Cina e che non intende piegarsi alle loro richieste di liberalizzazione. Il presidente le percepisce come un tentativo malizioso di destabilizzare il sistema cinese e la sovranità del Partito.
Pechino ha ormai abbandonato la strategia “cresci nell’ombra, coltiva l’oscurità” (taoguang yanghui) sviluppata da Deng, in favore della formula “sforzarsi per ottenere il successo” (fenfa youwei). Non a caso il carattere 奋 (fen, sforzarsi) è stato scelto come carattere cinese del 2018. Sul piano internazionale, tale concetto implica maggiore assertività nel perseguire il “risorgimento” della nazione, previsto per il 2049. Pechino ha intensificato lo sviluppo militare per farsi potenza navale e cibernetica. Inoltre, ha accelerato la costruzione di isole artificiali per presidiare il Mar Cinese Meridionale e aspira a riprendersi Taiwan, con le buone o le cattive. Xi ha lanciato la Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta), progetto geopolitico che (non senza difficoltà) proietta l’influenza cinese all’estero con le sue diramazioni infrastrutturali terrestri e marittime. Infine, il presidente ha incitato la Cina a raggiungere “l’autosufficienza” (zili gensheng). Ciò significa tra le altre cose puntare alla supremazia nel campo dell’intelligenza artificiale, facendo sempre meno affidamento sulla tecnologia importata dagli Usa.
Il divario tra le due potenze si assottiglia, ma il giorno del sorpasso cinese sembra ancora lontano.Per questo, Pechino ha tutto l’interesse a trovare un compromesso con Washington in seguito alla “tregua” commerciale concordata tra Donald Trump e Xi a margine del G20 di Buenos Aires. L’arresto in Canada di Meng Wanzhou, manager di Huawei e figlia del fondatore del colosso tecnologico, ha innescato la rivalsa cinese su Ottawa tramite il fermo di due cittadini canadesi (più un terzo all’apparenza slegato dalla vicenda), ma non ha intaccato i negoziati con Washington. A breve, Pechino dovrebbe infatti annunciare il taglio ai dazi sulle importazioni di automobili provenienti dagli Usa. A prescindere da ciò, l’amministrazione Trump continuerà a ostacolare la crescita cinese, come confermano le accuse legate a dossier quali lo spionaggio, la tutela dei diritti umani, l’assertività nei mari cinesi e la penetrazione economica della Repubblica Popolare all’estero.
Non è chiaro fino a che punto le pressioni di Washington possano spingere Xi ad accelerare le riforme, ma le sue dichiarazioni lasciano intendere che queste non scalfiranno il ruolo del Partito (e il suo) alla guida del paese.
Fonte: http://www.limesonline.com/rubrica/40-anni-riforma-apertura-cina-xi-jinping-deng-xiaoping-discorso
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