Consigli di classe. Scuola, democrazia e società, 
rubrica a cura di Mimmo Cangiano

 

Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (o DPCM) del 4 agosto 2023 ha definito il percorso universitario e accademico di formazione iniziale e abilitazione dei docenti su posto comune, compresi gli insegnanti tecnico-pratici e delle scuole secondarie di primo e secondo grado, determinando i criteri e i contenuti dell’offerta formativa e i requisiti dei cosiddetti “Centri” attraverso i quali le Università devono organizzare questi percorsi di formazione, individuandoli nell’ambito della loro “autonomia”.

 

Avrebbe dovuto e voluto essere la fine di una lunga e sporca storia, una storia che inizia con le Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario (SSIS) che furono attivate tra 1999 e 2009; e che poi continua con i Tirocini Formativi Attivi (TFA) che hanno avuto di fatto solo due cicli tra 2011 e 2014, per poi continuare ad essere operativi fino ad oggi solo per la formazione degli insegnanti di sostegno. Il tema, di non poco momento, come noto, è la necessità di avere un sistema stabile, equo e credibile di formazione dei docenti della scuola di ogni ordine e grado della nostra Repubblica, tramite opportune forme di preparazione ed addestramento.

Fin qui, tutto bene, verrebbe da dire.

Se non fosse che – dentro questo scenario teoricamente e ipoteticamente credibile – si introducono delle contraddizioni di sistema che fanno saltare qualsiasi valore in campo.

 

Prima contraddizione: i tempi per la realizzazione dei “Centri” sono proibitivi, pochi mesi dal decreto istitutivo senza nessuna consultazione delle scuole né delle università. È una missione impossibile, ma non per tutti, come nella vicenda dei famigerati 24 CFU psico-pedagogici per l’insegnamento di alcuni anni fa (e di cui abbiamo già ampiamente ed a suo tempo parlato). Risultato: solo le private telematiche, che godono della possibilità di attivare senza limiti o quasi corsi a  distanza, con una transizione favorevole prevista per legge prima della messa a regime (se mai ci sarà) del sistema, attivano i corsi, in primis quelli di 30 CFU per chi abbia già altra abilitazione o abbia già acquisito i 24 CFU previsti dalla precedente normativa. E dato che parliamo di persone, di vite, di mondo reale, vale un aneddoto. Mi viene a trovare un mio vecchio e valido studente. Ha insegnato al Nord ed ha il posto strutturato nel sostegno, ora vuole abilitarsi alle classi d’insegnamento letterario (in particolare A12 e A22). Mi chiede quando il mio ateneo (che è stato abbastanza felicemente un tempo anche il suo) potrà attivare i corsi previsti di 30 CFU. Ma noi siamo ancora in attesa del riconoscimento del Centro da parte di Anvur e Ministero;  e in pieno anno accademico siamo a corto di docenti e strutture: noi per ora non partiamo. Dopo poche settimane viene a trovarmi, mortificato: è entrato in uno dei corsi già attivati (e sì!) della tante (troppe) private telematiche. Mi mostra il canale social del corso: 6000 iscritti; ciascuno paga 2000 euro. A conti fatti sono dodici milioni di euro; il mio ateneo – alla canna del gas per fondi ministeriali, come quasi tutti al Sud e non solo – una tale cifra non la vede nemmeno da lontano. Sulla qualità dei corsi sorvolo. Lo si è detto già per CFU psicopedagogici e altri corsi che danno punteggi e vantaggi erogati da queste strutture private, spesso di proprietà di holding che operano sul mercato a fine di lucro (sul tema, oltre a un’inchiesta di Report del 28 aprile 2024, FLC-CGIL e altri soggetti e movimenti dell’Università hanno redatto un documentato dossier a cui rimando). Ma non è tutto, purtroppo: infatti nel Decreto Ministeriale 621 del 22 aprile 2004 (in particolare allegato A) che regola la distribuzione dei posti dei singoli “Centri” di Alta formazione per insegnanti sul territorio nazionale, proprio le “università” private telematiche la fanno da padrone! Come, vi chiederete? Non dovrebbe andare così! E invece sì, grazie ad una politica e ad una strategia accurate e vincenti di deterritorializzazione (hanno sedi legali in più regioni, dunque giocano su più tavoli); ma anche grazie ad un’inquietante partnership e un’efficace “campagna acquisti” con molti atenei statali piccoli (e magari talvolta in difficoltà). Non siamo al paradosso, l’abbiamo superato da anni. Chi vuole continuare a girarsi dall’altro lato (sport nazionale, specialità accademica) è pregato di accomodarsi in ultima fila.

Che sia stato fatto tutto, così, perché qualcuno potesse guadagnare? Qualcuno può affermarlo? E soprattutto, qualcuno può negarlo?

 

Seconda contraddizione: i costi. Ovvero, l’anno aggiuntivo (il sesto de facto, o quasi) per la formazione iniziale dei docenti, col suo curriculum di 60 CFU, è istituito senza ulteriori oneri per lo stato; lo devono pagare studenti e famiglie, con un costo previsto (salvo sconti e possibilità di bilancio degli atenei più ricchi) di 2500 euro a cui si aggiungono (beffa e sfregio legislativo) 150 euro per l’esame finale (a questa somma va aggiunta anche la tassa di preis crizione). Come nel caso precedente si mostra uno scenario che verrebbe da immaginare sia stato preparato a tavolino. Le Università pubbliche statali hanno vincoli e problemi insuperabili nel breve periodo: ad anni di riforma 3+2 senza oneri aggiuntivi (né una vera verifica di sistema), di moltiplicazione dei corsi di studio e dei carichi d’insegnamento, di invecchiamento del corpo docente e di crescenti limiti strutturali delle sedi, si aggiunge adesso un sesto anno, sempre a costo zero per la fiscalità generale. Si vocifera di sconti per ISEE più bassi da parte degli atenei più ricchi; di sconti di fine stagione delle telematiche private. Voci? Ma sempre vita, carne e sangue delle persone sono in gioco; e dunque, secondo tristissimo aneddoto. Trovo a ricevimento nel mio studio una studentessa, brillante, insieme ai genitori. Hanno già sostenuto la spesa di 3700 euro più altri costi, quanto necessario al TFA per l’Insegnamento del Sostegno della figlia. Anni di sacrifici per farla studiare; pensavano che la laurea bastasse. Ed ora, invece, un altro anno e niente certezze se non quei 2650 euro da pagare. Mi chiedono se c’è un modo di rateizzare, o dovranno chiedere un prestito. Allargo le braccia. Non mi sono mai sentito più impotente e mortificato in 25 anni spesi all’università; ma è niente in confronto a chi mi sta davanti. Se le andrà bene la mia brillante studentessa avrà – e lo spero, devo sperarlo, con tutto il cuore – il ruolo di professoressa di scuola pagato peggio in tutta Europa: la vera grande vergogna italiana, tra troppe altre.

 

Terza contraddizione, forse minore ma significativa. Nel curriculum dell’anno di formazione iniziale la presenza delle materie psico-pedagogiche (essenzialmente pedagogiche) è preponderante. Siamo sempre dentro la disputa tra pedagogia e resto del mondo; una disputa che sta erodendo senso e finalità dell’insegnamento in Italia. Ed è una manovra di accerchiamento: mentre da un lato si fanno prevalere dal centro ministeriale universitario le ragioni delle didattiche generali e speciali su quelle disciplinari e metodologiche, dall’altro il ministero del Merito di Valditara annuncia la riforma delle Linee Guida e delle Indicazioni nazionali: il tutto sempre con la filosofia decisionista del “fatto compiuto”. Il sistema della formazione è a doppia trazione: pedagogisti da un lato; sistemi ingegneristici di qualità che – non me ne vogliano i colleghi ingegneri gestionali – non sono applicabili al sistema stesso della formazione, se non a costo della credibilità di questo intero comparto statale. E l’ultimo aneddoto, dunque: quest’anno, durante le lezioni di Didattica della letteratura vedo che pian piano il numero degli iscritti al corso va scemando. Che calino i frequentanti, ci può stare; ma non le iscritte e gli iscritti. Anche qui presto l’arcano si risolve, ma non in meglio: un gruppo di studentesse mi comunica che ha lasciato la mia università per iscriversi ad una telematica privata. In pochi mesi, in corso d’opera, come un funambolo che sale su una macchina ad alta velocità, queste studentesse si laureeranno e acquisiranno i CFU per l’insegnamento, pronte a tempo di record (loro, ma non chi è rimasto a sudare nelle mie classi) per graduatorie e concorsi d’insegnamento.

 

In conclusione, alcune domande.

Avremo un sistema della formazione iniziale degli insegnanti della Repubblica stabile ed equo? Oppure andiamo verso un sistema classista, preda di derive speculative e punitivo per le università statali e pubbliche?

Avremo un sistema della formazione iniziale degli insegnanti della Repubblica credibile? Oppure il sistema attuale, nato culturalmente morto, punisce i saperi forti e i saperi critici, mortifica le forme di sapere che non si piegano e chiedono livelli scientifici reali e di qualità? Ed è capace questo sistema come costruito a rispondere alle sfide dei nuovi analfabetismi, della dilagante attenzione parziale continua, o disattenzione da abuso tecnologico, del malessere e dell’isolamento delle agenzie educative  soprattutto in determinati contesti (periferie urbane, meridione, entroterra ex agricoli?).

Chi tutela le studentesse e gli studenti che aspirano all’insegnamento e si preparano nelle università pubbliche, statali e tradizionali? Chi?

 

Le risposte sono nei fatti, difficilmente oppugnabili.

Vengono in mente le riflessioni, più che calzanti, di Mark Fisher, nel suo Realismo capitalista.

“Il neoliberismo ha cercato di eliminare la stessa categoria di principio, di valore nel senso etico della parola: nel corso di più di trent’anni il realismo capitalista ha imposto con successo una sorta di “ontologia imprenditoriale” per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’educazione, va gestito come un’azienda […]. Se la sindrome da deficit di attenzione e iperattività è una patologia essa è caratteristica del tardo capitalismo: una conseguenza dell’essere connessi a quei circuiti di controllo e intrattenimento che caratterizzano la nostra cultura consumistica e ipermediata […]. Oggi spiegare alla gente come perdere peso o decorare la casa è accettabile; reclamare qualsiasi tipo di accrescimento culturale è oppressivo […]. Il problema è che solo certi tipi di interessi, quelli del “regime consentimentale” (perdere peso, decorare la casa, migliorare l’aspetto fisico) vengono difesi e considerati rilevanti.”

 

L’unico vero mistero in questa situazione è come e perché il corpo docente, della scuola e dell’università, non riesca a trovare forme e strumenti di protesta e lotta comuni come di controproposta strutturata.

Come nel cartone animato Wall-E, celebreremo imbambolati dalla rete e nella rete la nostra infelice estinzione?

FONTE:https://www.leparoleelecose.it/?p=49634