Il gas africano: luci e ombre
di EASTWEST (Giacomo Roberto Lupi)
Molti paesi africani hanno colto al balzo l’aumento di domanda di gas proveniente dall’Europa e i conseguenti investimenti europei per migliorare le infrastrutture africane. La speranza è che non si calpesti la popolazione più povera, cosa che attualmente sta succedendo in troppe zone del continente.
Nonostante la notizia non abbia avuto un particolare eco mediatico, il Piano Mattei è tornato di stretta attualità visto che, in Italia, l’11 gennaio 2024 esso ha avuto il via libera dalla Camera (169 sì contro 199 no) e il 13 gennaio è entrato nella Gazzetta.
Il Piano, quadriennale, è stato pensato come un modello di cooperazione non predatorio in cui l’Italia e i paesi africani possano crescere e migliorare sul lato energetico. Il piano prevede anche che l’Italia si sganci sempre di più dal gas russo e che diventi progressivamente un centro di smistamento del gas africano per l’Unione Europea.
Lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina nel febbraio 2022 ha portato i paesi europei, Italia inclusa, a scoprirsi energeticamente dipendenti dal gas russo e quindi a dover cercare in fretta una soluzione alternativa per far fronte all’aumento dei prezzi. I primi Paesi con cui l’Italia ha cercato un dialogo sono stati Qatar, Algeria e Azerbaijan, con cui già da anni vigevano accordi per le importazioni di gas liquefatto, ma nonostante le negoziazioni per un aumento degli import, il governo Draghi giustamente ha guardato anche altrove.
Il 10 marzo 2022 l’allora presidente del Consiglio aveva intavolato una conversazione telefonica con Denis Sassou Nguesso, presidente della Repubblica del Congo, terra in cui è attiva l’ENI, che nel 2020ha prodotto qui 18 milioni di barili di petrolio e condensati e 1,4 miliardi di metri cubi di gas e con cui si sta parlando da tempo di un progetto per gas liquefatto nel blocco Marine XII/ENI.
Diversi paesi africani hanno colto al balzo l’aumento di domanda proveniente dal vecchio continente. Nell’ultimo anno, tuttavia, nonostante il continente africano disponesse di una notevole quantità di gas non è stato comunque capace di coprire quei quasi 180 miliardi di metri cubi che Mosca forniva all’Europa prima dello scoppio della guerra. I limiti per tale carenza sono dovuti alla mancanza delle adeguate infrastrutture, con condotti e tubature non in grado di trasportare interamente o parzialmente il prodotto estratto. Ed è qui che l’Europa ha deciso di fornire il proprio aiuto.
“L’Africa è un grandissimo mercato potenziale che ha energia che però non riesce a sfruttare” – Claudio Descalzi, Amministratore delegato di ENI.
I governi di diversi paesi africani hanno sfruttato questa opportunità per investire più intensamente nel settore energetico e di conseguenza sono stati avviati e potenziati progetti di grossa portata, sia in termini ingegneristici che di spesa economica.
Questo rientra in un piano continentale volto a volersi industrializzare maggiormente. Programmi come il Kenya Vision 2030, Tanzania Vision 2025 e Agenda 2063 dell’Unione Africana mirano a rendere l’Africa un continente più industrializzato, a reddito medio e che offra un’elevata qualità della vita a tutti i propri cittadini in un ambiente pulito e sicuro. Il tutto trasformandosi in hub sempre più importanti per le economie straniere nel settore energetico.
Gli investimenti africani hanno tutt’oggi un ampio spettro di crescita: un’analisi di Rystad Energy, una delle aziende più affidabili nella consulenza energetica, ipotizza che entro il 2030 la produzione di gas dell’Africa Subsahariana tenderà a raddoppiare rispetto al 2021. Una delle opere più discusse nell’ultimo anno è stato il gasdotto Trans-Sahariano, noto anche come NIGAL. Il condotto trans-sahariano è un gasdotto pensato per la prima volta negli anni Settanta ma diventato un progetto concreto soltanto nel 2009. A pieno regime potrebbe trasportare oltre 30 miliardi di metri cubi di gas per un percorso di oltre quattromila chilometri. Il condotto nasce dai pozzi di Warry, in Nigeria, per risalire attraverso Niger e l’Algeria e quindi ramificarsi presso Hassi R’Mel, nel cuore del deserto del Sahara. Da lì due grosse diramazioni vanno una in direzione Marocco, per attraversare il Mediterraneo e quindi giungere in Spagna e l’altra in direzione Libia, per poi arrivare in Italia.
Un altro paese attraversato dai gasdotti è il Marocco, che si è posto l’ambizioso obiettivo di arrivare all’80% di rinnovabili entro il 2050. Il Paese è un po’ indietro sulla tabella di marcia, ma anche l’attuale primo ministro Aziz Akhennouch si sta mostrando determinato ad andare avanti, tanto che all’inizio del febbraio 2022 l’Unione Europea ha siglato con il Paese Nord Africano un accordo da 1,6 milioni di euro per supportare la transizione energetica e digitale del Paese all’interno del piano europeo Global Gateway, per il supporto di progetti d’aiuto e cooperazione.
Tornando all’origine, che il gasdotto parta dalla Nigeria non è un caso: il presidente dell’epoca Muhammadu Buhari aveva approvato il progetto, probabilmente realizzando che la Nigeria è tra i primi dieci stati al mondo per quantità di riserve, stimate in oltre 5.000 miliardi di metri cubi. Il gasdotto va quindi a infoltire una serie di infrastrutture locali, come la Ajaokuta – Kaduna – Kano (AKK) Pipeline Project.
La maggiore incognita che si cela dietro queste infrastrutture, piuttosto che tecnica o finanziaria, sta però nell’aspetto legato all’ambiente e ai diritti umani, dal momento che queste infrastrutture hanno un impatto estremamente negativo sulle popolazioni locali, specialmente quelle più povere. Il recente potenziamento di oleodotti e gasdotti, a un anno di distanza, si può dire fallimentare da un punto di vista dell’attenzione ad ambiente e diritti umani, che sono i due cardini principali a cui ruota attorno tutto.
Queste opere ingegneristiche, oltre a rischiare gravi incidenti, possono causare severi danni all’ambiente in termini di inquinamento delle falde acquifere e disboscamento. A livello umano, sono state diverse le denunce riportate dalle agenzie umanitarie che sostengano come vi siano casi di espropriazione forzata o semi-forzata attraverso dubbie procedure legali, delle terre su cui vengono realizzate queste grandi opere.
Tra questi c’è il Nigal, esattamente come il Lamu Port-South Sudan-Ethiopia-Transport Corridor Project (LAPSSET), il Progetto Energia Eolica Lago Turkana, il progetto geotermico KenGen a Naivasha e le dighe Gibe in Etiopia.
Per molte persone queste terre sono la casa: l’impossibilità di coltivare la terra o nutrire il bestiame, in zone agricole, obbliga queste persone a migrare, così come la mancanza di acqua potabile. In Africa mezzo miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile o ad acqua corrente nella propria abitazione e studi universitari stanno dimostrando come miniere e gasdotti aumentino il tempo necessario per recarsi alla falda acquifera più vicina.
Secondo lo United Nations University Institute for Water, Environment and Health, diciannove nazioni sono a rischio di carenza idrica mentre soltanto venticinque Paesi stanno attuando politiche e piani per l’approvvigionamento e la distribuzione che possono avere uno sviluppo concreto in futuro. A livello di disponibilità idrica pro-capite, la situazione peggiore è nella zona occidentale del continente, in quella meridionale e nell’area del Corno. L’acqua potabile, ovviamente, è fondamentale per la pulizia del corpo e di conseguenza per prevenire malattie.
Le numerose guerre e atti violenti non portano gli investitori stranieri a vedere i requisiti minimi di sicurezza, e spesso le proteste sfociano in atti di violenza e sabotaggio contro le compagnie straniere. Uno dei gruppi che è passato alla ribalta della cronaca di recente è stato il Movement for the Emancipation of the Niger Delta (MEND), un’organizzazione armata che rivendica molti degli attacchi alle compagnie petrolifere che operano nella zona.
Diverse sono le agenzie umanitarie, Amnesty International su tutte, ad aver lanciato l’allarme. Non solo guerre, spesso le persone sfrattate restano ai margini della società fino al momento in cui devono spostarsi altrove. A volte il viaggio è impervio, considerando che le zone dei gasdotti sono sempre terra di banditi e predoni. I campi profughi, crogioli di etnie e religioni differenti, sono terra di stupri e violenze di genere. Infine, sono stati riportati casi di stime discutibili sulla valutazione degli impatti ambientali delle costruzioni, come per esempio il World Heritage Site di Lamu o il Lake Turkana Wind Power in Kenya, costruito col supporto della Banca Mondiale. Relativamente a quest’ultimo, è finito di recente in un rapporto investigativo del World Bank Inspection Panel, che ha visitato l’area per verificare le lamentele presentate dalla comunità masai.
Amnesty ha lanciato una campagna contro la repressione dei diritti umani in Algeria, uno dei principali partner dell’Italia. L’ondata di repressione in corso nel Paese, nonostante abbia attirato l’attenzione di diversi organismi internazionali, non sembra preoccupare il governo o ENI, né scuotere l’opinione pubblica italiana.
Amnesty International ha chiesto un’indagine indipendente sulla morte di Hakim Debbazi, arrestato per dei post sui social e morto in un carcere algerino nell’estate 2022, e ha stilato un lungo elenco dei punti di rottura della libertà e della democrazia in Algeria.
Ben vengano quindi il Piano Mattei e gli investimenti europei per migliorare l’Africa, nella speranza che non ci si dimentichi degli ultimi, cosa che attualmente sta succedendo in troppe zone del continente.
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