Processi e politica nell’Italia repubblicana
di DOPPIOZERO (Alberto Mittone)
Il saggio Conflitto tra poteri. Magistratura, politica e processi nell’Italia repubblicana (Il Saggiatore, 2024) degli storici M. Flores e M. Franzinelli ha una peculiarità: ricostruisce i rapporti tra giustizia e politica dal sorgere della Repubblica ad oggi attraverso la rilettura dei processi penali. I capitoli si snodano in vari periodi riletti attraverso la loro significatività storica con l’affiancamento di una rassegna di processi svoltisi in quegli anni. Ciò detto, perché servirsi dei processi? La risposta è inequivoca: i processi si sviluppano attraverso l’“iter” processuale originato da un fatto ignoto e dalla ricerca di chi lo ha provocato. Non solo: essi sono densi di storicità in quanto rappresentano lo specchio di una fase storica in cui è maturato quell’evento e come si innestano i personaggi in quel periodo.
Non è un caso che siano fiorite riviste e numeri unici (ad esempio “Epoca” ed “Europeo”) che su di essi hanno indugiato e che la cronaca nera venga raccontata con spazi dilatati e da penne illustri (Arpino, Buzzati come ricordato in “Delitti in prima pagina”, Doppiozero). Non è un caso che la letteratura se ne sia appassionata, come testimoniano le fluviali pubblicazioni sul rapporto tra “Diritto e letteratura”, in una gara di fantasia con le produzioni cinematografiche. Per non parlare del processo “mediatico”, spettacolo ormai autonomo avente come oggetto le procedure penali in corso che vengono discusse nei salotti televisivi. Si usano prove processuali disponibili, integrandole con indiscrezioni e servizi fuori sede, facendo nascere l’impressione, più fumosa che reale, di maneggiarle con sicurezza. In sostanza viene trattato un fatto di cronaca nera in luoghi lontani dalle regole del codice, dove il giudice è il pubblico e non un magistrato imparziale, dove il dibattito avviene tra ospiti ed esperti in un set, dove spesso filtra la contrapposizione tra il bene e il male e dove è protagonista un pubblico che vuole più giudicare che essere informato.
Diverso dal significato del processo è quello delle sentenze: esse rappresentano il momento finale dell’iter, quando cioè il giudice spiega in uno scritto le ragioni della sua decisione. Quindi esse manifestano come vengono valutati i reati e le prove in un dato momento storico (con questa ispirazione Governatori, Stato cittadino in Tribunale, Laterza 1970 e Valori socio-culturali nella giurisprudenza, Laterza 1970). Ma la magistratura è un potere? La Costituzione non la disegna forse come un ‘ordine’, cioè come una struttura della Stato delegata a svolgere una funzione fondamentale, cioè rendere giustizia? Ma come e quando è diventata un ‘potere’? Il discorso si dilata perché coinvolge il rapporto non solo con la politica ma con la società tutta, con le sue richieste, le sue aspettative, il suo coinvolgimento, come peraltro il saggio mette bene in luce con la scansione delle fasi. E quel rapporto tra magistratura-politica-società è sottoposto al pendolo della storia che ne disegna i connotati nel passare del tempo.
L’avvio della Repubblica: una transizione difficile con rotture e continuità
Il momento iniziale della Repubblica è caratterizzato dal difficile rapporto con il passato, che presenta una scivolosa continuità che si salda con una stentata rottura. I sistemi, quello politico e giudiziario, sembrano vivere in simbiosi, ma la prima significativa frattura innovativa ha luogo con la Costituzione che prevede il Consiglio Superiore della Magistratura, l’autogoverno e le garanzie di indipendenza di tutti i magistrati a differenza del passato, compresi quelli del pubblico ministero. Dal 1945 al 1948 nel contempo non ha successo la normativa sull’epurazione e si assiste all’applicazione estensiva dell’amnistia Togliatti del 1946, analogamente a quanto avvenne in Germania per il ruolo nel dopoguerra riservato alle ex spie che entrarono in posizioni di rilievo (di recente Falanga, Gli uomini di Himmler, Carocci 2024).
Negli anni successivi dilaga il fenomeno dei magistrati, ma anche di intellettuali e politici, distintisi durante il regime spesso attivamente anche nella vicenda razziale del 1938, che ingrossano il gruppo misto degli “insospettabili” nei ranghi parlamentari, istituzionali, giornalistici, spesso paladini delle virtù in un’Italia frettolosa e che aspira a dimenticare. Classica, e mai sufficientemente ricordata, è la carriera di Gaetano Azzariti, giurista, magistrato, al vertice della piramide ministeriale fascista, sottoscrittore del “Manifesto della razza’, presidente del “Tribunale della razza”. Cambiato il vento, viene chiamato nel 1946 come capo di gabinetto dal guardasigilli Togliatti e nominato nel 1955 giudice costituzionale dal presidente Gronchi. Come se non bastasse, diviene presidente della Corte nel 1957 e un suo busto attualmente troneggia nei corridoi del palazzo.
I processi trattati nel saggio relativi a questo periodo: il processo al maresciallo Graziani; delitto Rosselli: dalla pena di morte alle assoluzioni generalizzate; i processi per l’eccidio di Portella della Ginestra; l’omicidio di Bracci e il biondino di Primavalle; cronaca nera e dossieraggi politici: il caso Montesi; Renzi-Aristarco: l’Armata Sagapò.
Verso la democrazia.
Nei primi anni ‘50 la magistratura è ancora in larga parte irrigidita nel passato, resistente alla Costituzione soprattutto negli organi superiori. Si intravedono però fermenti grazie anche a decisioni e a contributi letterari di magistrati che descrivono un modello non tradizionale di giudice. Esemplari sono i romanzi di Giuseppe Guido Lo Schiavo (Piccola Pretura del 1949) da cui Pietro Germi trasse nel 1949 il film In nome della legge, e di Dante Troisi (Diario di un giudice del 1955) citato nel saggio. Con il decennio degli anni ‘60 il passato si allontana e anche per il potere giudiziario inizia il disgelo, soprattutto nel periodo tra il 1956 e il 1958 con l’entrata in funzione della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura.
I processi relativi a questo periodo trattati nel saggio: l’apparato paramilitare comunista: il processo Acerbi; il processo Guareschi-Degasperi, Sicilia 1956: lo sciopero alla rovescia di Danilo Dolci; processo al vescovo di Prato; il Vicario ovvero i silenzi di Pio XII; il processo Fenaroli–Ghiani.
1965-1975: rotture e contrasti, depistaggi e voglia di verità.
Si sviluppa l’associazionismo giudiziario, l’Associazione nazionale magistrati tenta di resistere su alcuni profili tradizionali come il principio gerarchico e la funzione della Cassazione quale organo di indirizzo. Nel 1964 si costituisce la corrente di Magistratura democratica che si distingue soprattutto come avanguardia garantista, mantenendo successivamente un elevato tasso di politicizzazione. In quegli anni si chiude una fase di discriminazione con l’ingresso delle donne in magistratura e nel 1965 vengono nominate le prime otto magistrate. Negli anni ‘70 la magistratura entra in un periodo cruciale: diviene militante, interventista, attiva, ipercinetica affrontando uno dei periodi sociali e politici più bui. Si sovrappongono le lotte sociali, la contestazione studentesca del ‘68, la tragica deriva del terrorismo, mentre si radicano i movimenti protagonisti dell’epoca seguente. Si staglia il tragico attentato di piazza Fontana con il corollario di depistaggi, in un clima di scontro anche istituzionale nel quale emerge la volontà politica di privilegiare una pista anarchica in realtà inconsistente, con interferenze dei servizi a vario livello. Gli anni ‘70 sono anche quelli in cui la magistratura, con i pretori, tenta di calare il principio di uguaglianza nelle disposizioni normative, interpretandole come si usava dire in termini “costituzionalmente orientati”. Nel contempo emergono fatti di corruzione con coinvolgimenti autorevoli e istituzionali come nello ‘scandalo dei petroli’. Gli anni sono anche attraversati da episodi tragici di natura istituzionale (si pensi a Sindona e all’omicidio Ambrosoli) e dal terrorismo, vicende che hanno posto in pericolo la stabilità dello Stato, con la magistratura che unita ad altre energie ha contribuito a mantenerne la sussistenza pur con un contributo doloroso di sangue. Sono di quegli anni gli omicidi dei magistrati Occorsio del 1976, Alessandrini del 1979, Galli del 1980.
Esemplare, in questo senso, è il processo conclusosi a Torino nel 1978 nei confronti delle “Brigate rosse”. Il suo svolgimento fu segnato dall’intransigente rispetto delle regole processuali nonostante le continue azioni sanguinarie rivendicate dagli imputati (una tra tutte l’omicidio del magistrato Coco a Genova nel 1976). Il saggio (p. 435) accenna a una pagina di cui si rese protagonista Leonardo Sciascia. Nel 1977 il Presidente dell’Ordine degli Avvocati Fulvio Croce, chiamato ad assumere la difesa di ufficio dei brigatisti, cinque giorni prima dell’inizio del processo viene ucciso a colpi di pistola. A questo punto molti giurati sorteggiati si sottraggono all’incarico presentando certificati medici funzionali soltanto a eludere la designazione. Sulla paura di fronte a ripetuti fatti di sangue inizia così un dibattito crudo ed aspro. A fronte di Eugenio Montale che riconosce di aver potuto subire la paura (“Non si può chiedere a nessuno di essere un eroe. Una paura giustificata dal dato attuale delle cose, non metafisica né esistenziale”, “La sconfitta dello Stato viene da lontano”, Corriere della Sera 3.5.1977), interviene Alessandro Galante Garrone secondo cui era inaccettabile quanto proveniva da un senatore a vita e ricorda un giovane che spiegò di aver accettato l’incarico di giurato perché: “Lo Stato siamo noi”. (“Il coraggio d’essere giusti”, La Stampa 8.5.1977), seguito da Italo Calvino (“I cittadini democratici che non si arrendono proprio quando l’istituzione si dimostra fragile…. Ci sono momenti in cui… accettano i rischi anche molte persone che, per loro gusto, non amano il pericolo”,“Al di là della paura”, Corriere della Sera, 11.5.1977). Interviene controcorrente Leonardo Sciascia: “Non vorrei entrare in una giuria – e specialmente quella chiamata a giudicare i delitti contro lo Stato. Così come non capisco che cosa polizia e magistratura difendano… ancor meno capirei che io, proprio io, fossi chiamato a fare da cariatide a questo crollo o disfacimento di cui mi sento responsabile. Salvare la democrazia, difendere la libertà, non cedere, non arrendersi … sono soltanto parole. C’è una classe di potere che non muta e che non muterà se non suicidandosi. Non voglio per nulla distoglierla da questo proposito o contribuire a riconfermarla”. (“Non voglio aiutarli in alcun modo”, “Corriere della sera”, 12.5.1977).
Quindi, secondo lo scrittore, quei cittadini impauriti rappresentano la sconfitta dello Stato perché esso non li protegge, opinione condensata nella frase forse sua mai smentita: “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”. Non si tira indietro Giorgio Amendola che intima il silenzio agli intellettuali afflitti dall’ipertrofia del dubbio, in realtà sabotatori di una lotta che non ammette disobbedienza. (“Le dichiarazioni di Sciascia e Montale non mi hanno sorpreso in quanto il coraggio civico non è mai stata una qualità di larghe sfere della cultura italiana”, “Intervista con Giorgio Amendola”, L’Espresso, 5.6.1977). (Su questo dibattito Borgna, Un paese migliore, Laterza 2006, e Atti Convegno “Storico per passione civile”, Edizioni dell’Orso, 2009). Nel 1979, uscito dal PCI, Sciascia aderisce al Partito Radicale e già in quell’anno presenta l’introduzione di Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse di Adelaide Aglietta, dirigente radicale che pur minacciata aveva accettato l’incarico di giurato (p. 441). La posizione di Sciascia è quasi irriconoscibile rispetto alla precedente: “Nelle prime pagine di questo diario Adelaide Aglietta ricorda quel mio breve articolo in cui esprimevo un’opinione sull’essere giurato nel processo a Torino contro le Brigate Rosse. Opinione che continuo a sostenere come abbastanza sensata e per nulla eversiva se affermavo che, per rispetto e dovere verso me stesso avrei accettato di fare il giurato in un processo di quel tipo: e anzi forzando la mia innata e assoluta ripugnanza a giudicare i miei simili… Di un dovere verso una astrazione e astratto io facevo un dovere concreto e inamovibile; e con gli stessi effetti”.
Di quella emblematica vicenda si ricorda ancora che 134 cittadini evitarono l’incarico di giurato e solo grazie ad alcuni, come la citata Aglietta, si formò la giuria che condannò il 23 giugno 1978 ventinove brigatisti a pene tra i dieci e i quindici anni di carcere. Consentirono la celebrazione del processo anche 20 avvocati torinesi che, sorteggiati, avevano accettato di essere difensori di ufficio a differenza di altri 210 dichiaratisi indisponibili o indisposti. Durante lo svolgimento delle udienze, a rendere ancor più pesante il clima, il 9 maggio viene ucciso Aldo Moro.
I processi trattati nel saggio relativi a questo periodo: il disastro del Vajont; il reato di plagio: Aldo Braibanti; l’obbedienza rimane una virtù: la condanna di Don Milani; il rifiuto del matrimonio riparatore: Franca Viola; il reato di educazione sessuale: il processo alla “Zanzara”; la repressione giudiziaria dell’autunno caldo.
1975-78-79: la magistratura diviene protagonista – La P2.
Negli anni ‘80 inizia la legittimazione esterna della magistratura con processi di vasta eco sociale e mediatica, anche attraverso la tv con spettacoli che esaltano il suo intervento (Processo in pretura, Telefono giallo), mentre il sistema politico si ritrae progressivamente. Nel 1981 i giudici istruttori di Milano sequestrano le liste degli aderenti alla P2 con risultati imbarazzanti tra politici, giornalisti e anche magistrati. In questo periodo vengono affrontati anche temi spinosi, come la candidatura sconfitta di Falcone a capo dell’Ufficio Istruzione palermitano, come le valutazioni di professionalità, come il trasferimento d’ufficio e la responsabilità civile dei magistrati che dà luogo, sulla scia del “caso Tortora”, a un referendum e a successive modifiche legislative. Nel 1989, dopo un’incubazione lunga e travagliata, entra in vigore il nuovo codice di procedura penale che subentra a quello fascista del 1930.
I processi trattati nel saggio relativi a questo periodo: le schedature Fiat; il primo processo alle Brigate Rosse; il processo di piazza Fontana; Enzo Tortora: dalla tv al carcere; diffamazione di Stato, la condanna di Camilla Cederna; i processi infiniti del caso Moro.
1985-1995: lo scontro tra giustizia e politica.
In questo decennio si manifestano fatti corruttivi che anticipano, nei temi e nell’intervento della magistratura, la stagione di Mani pulite con processi svoltisi a Torino, Savona, Firenze, Catania. Analoga attenzione viene rivolta alle questioni di mafia in Sicilia con stragi di uomini delle istituzioni, ma anche con la consapevolezza della gravità del problema e della necessità di affrontarlo con mezzi e uomini diversi. Recidendo i rapporti che avevano impedito un efficace contrasto del fenomeno vengono studiate strategie che, pur con difficoltà, porteranno alla Direzione nazionale antimafia. Nel decennio degli anni ‘90 la legittimazione della magistratura come potere è compiuta divenendo protagonista anche per le continue scie di sangue come quelle di Falcone e Borsellino. I due sistemi, quello giudiziario e quello politico, sono alla resa dei conti: i giudici entrano a gamba tesa nella storia di quei rapporti e la vicenda di Mani pulite in questo senso è epocale.
I processi trattati nel saggio relativi a questo periodo: il maxiprocesso palermitano alla mafia; l’omicidio Calabresi e l’ombra lunga di Lotta Continua; il ciclone in un bicchier d’acqua: Mani pulite; Licio Gelli e la P2: tanto rumore per nulla; le Fosse Ardeatine e il capitano Priepke; le frequentazioni mafiose di Giulio Andreotti.
Stato, giustizia politica, conflitto senza soluzione.
Con gli anni ‘90 si assiste alla discesa in politica di Berlusconi, con impostazioni relative alla giustizia differenti dal passato. Il programma del suo primo governo è moderato e di apertura verso l’Associazione nazionale magistrati, ma per breve tempo a causa delle indagini a personaggi vicini a lui dal fratello Paolo all’amico Dell’Utri, fino a toccare lo stesso Berlusconi. Che nasca e cresca la tensione via via incandescente tra i due poteri è storia nota, ed è palpabile in un clima in cui la resa dei conti è in atto. Con i successivi governi la componente progressista della magistratura si impegna sempre più ad esplorare un’affermazione per via giudiziaria. S’inaspriscono i contrasti tra la maggioranza governativa e la magistratura, continuano i processi contro Berlusconi e come risposta vengono approvate norme ad personam o utili alla persona, come la riforma del delitto di falso in bilancio e il ritocco alla prescrizione dei reati. Ma proprio in questi anni gradualmente la magistratura associata perde identità, forse per una collocazione troppo veloce nel sistema politico. Essa da conservatrice è divenuta il suo opposto, da muto sostegno del passato ha assunto il ruolo di attivista sovvertitrice, si è proposta come controllo del sistema politico ed amministrativo, ha ingigantito la propria dimensione di potere. La classe politica sente di doverla contattare sulle riforme, anche per il timore di sue reazioni dure come lo sciopero spesso minacciato. Il problema permane tuttora ad esempio con la riforma del reato di abuso di ufficio, o con il progetto politico di modifica dell’ordinamento giudiziario, come la separazione della carriera di giudice da quella di pubblico ministero per così distinguere il giudicante e l’accusatore.
I processi trattati nel saggio relativi a questo periodo: Cesare Previti e la corruzione giudiziaria; macelleria messicana alla scuola Diaz, nel G8 di Genova; Extraordinary renditions: il sequestro Abu Omar; bunga bunga a giudizio: Ruby, nipote di Mubarak; il Plan Cóndor alla sbarra; nelle mani della legge: Stefano Cucchi
Il saggio si sviluppa con riflessioni ed interrogativi che permeano la ricostruzione storica, guidata con mano esperta dagli autori né avrebbe potuto essere altrimenti. La scelta dei processi, come ogni scelta, può essere discussa. Qualche vicenda giudiziaria forse è assente, mentre qualche altra è collegata non tanto al rapporto tra poteri ma al sentire della società dell’epoca. Come ad esempio a proposito del processo al Vescovo di Prato, del delitto Montesi, oppure il disastro del Vajont con la politica lontana, ma con condotte colpose vicine all’evento. Oppure il processo all’autore dello scritto Il Vicario per la violenta critica all’operato di Pio XII e a lui solo. Oppure il celebre processo a Fenaroli, accusato e condannato per aver fatto uccidere da un sicario la moglie, in cui domina la curiosità popolare ma è assente la politica. E ancora si potrebbe discutere sui commenti degli autori sulla vicenda del sequestro Abu Omar o sulla diffamazione attribuita a Camilla Cederna. Ma questa potrebbe essere un’altra storia.
Commenti recenti