Ombre e sospetti sulla nuova legge federalista di Meloni
DA LA FIONDA (Di Federico Giusti e Emiliano Gentili)
Negli ultimi mesi abbiamo provato a studiare e comprendere la realtà con un occhio sempre rivolto alle politiche governative e alle decisioni assunte dall’Esecutivo in materia di fisco, politiche sociali, depotenziamento del welfare e riforma degli assetti istituzionali. Uno degli aspetti salienti delle ultime ricerche riguarda la nuova legge sull’autonomia differenziata, entrata in vigore il 13 luglio scorso.
La ricetta del decentramento territoriale dei poteri – come pure quella del presidenzialismo – venne giudicata antidemocratica dai padri costituenti, i quali vi ravvisavano il rischio di crescenti diseguaglianze fra i territori. Una preoccupazione non certo salottiera e che ha ancor più senso se rapportata ai giorni nostri. Secondo uno studio della Funzione Pubblica Cgil di pochi anni fa (2017), infatti, in Lombardia le entrate regionali coprivano il 40% del fabbisogno sanitario, nel Lazio il 37 e in Emilia-Romagna il 35, mentre in Puglia e Campania il 16% e in Calabria e Basilicata soltanto l’8. Inoltre «Un possibile aumento di 0,5 punti dell’addizionale Irpef produce un gettito di 630 milioni in Lombardia, solo di 135 in Campania, di 51 in Calabria e di 19 milioni in Basilicata»1. In questo contesto il Governo Meloni ha pensato bene di promulgare una nuova legge autonomista.
La L. 86/2024 è la nuova disposizione attuativa della Riforma del Titolo V costituzionale, che sancisce l’ingresso dell’autonomia regionale e del federalismo fiscale in Costituzione. Lo scopo della norma, dunque, è la definizione di norme e criteri per la regolazione di quanto già approvato precedentemente in questa (e altre) legge e non, come ci si potrebbe aspettare, la predisposizione di un piano politico ex novo. Di conseguenza bisogna tenere presente che il Governo sta attuando una legge promulgata dal centro-sinistra.
Le principali questioni da affrontare sono tre:
- l’incremento delle materie regionalizzabili e le modalità con cui farlo. Una delle novità2 è la possibilità di regionalizzare le materie trasversali3, o anche soltanto degli ambiti specifici di queste, come ad esempio la “tutela della concorrenza economica”;
- il Parlamento avrà un potere limitato nella definizione e nella rescissione degli accordi Stato-Regioni. La contrattazione avverrà sostanzialmente col Governo, in quanto le Camere potranno emettere solamente degli atti di indirizzo non vincolanti sugli schemi (bozze) di accordo, mentre dovranno poi approvarlo o respingerlo direttamente nella sua versione definitiva e non modificabile4;
- vi è il rischio di una consistente frammentazione normativa e burocratica. Il trasferimento di poteri agli Enti locali predispone naturalmente la proliferazione di norme ad hoc in luogo di un’unica normativa nazionale e, in generale, la complicazione dei processi amministrativi gestionali. Causa inoltre l’aumento del carico di lavoro per gli Enti locali, già spesso e volentieri pesantemente sotto organico. Il Governo ha predisposto la semplificazione delle procedure per l’accesso, la gestione e l’utilizzo dei fondi concessi alle Regioni5. Sarà sufficiente? Un piano straordinario di assunzioni per Regioni e Comuni sarebbe quantomai necessario.
I problemi, però, non finiscono qui. In alcuni casi la gestione autonoma delle materie regionalizzabili comporterà l’obbligo di garantire il rispetto di determinati Livelli Essenziali di Prestazioni (Lep), a tutela del benessere economico e sociale e dell’omogeneità di sviluppo fra territori diversi. Sarà importante capire quali saranno in concreto i Livelli da garantire, visto che su questo il Governo deve ancora legiferare, ma alcuni dei rischi sono ipotizzabili fin da ora: forti pressioni per la privatizzazione dei settori in difficoltà; rischio di revoca dell’autonomia per le Regioni inadempienti, probabilmente quelle più povere (qualora i Lep non vengano rispettati, la nuova normativa6 prevede la possibilità di revoca dell’autonomia sulla materia cui i Lep si riferivano).
C’è poi una terza ipotesi che vogliamo avanzare, probabilmente la più grave. I Lep esistono da oltre vent’anni7 ma, ciononostante, spesso e volentieri non sappiamo bene se vengano rispettati o meno dalle singole Regioni. Il problema sembra essere il sistema di gestione e monitoraggio, la cui implementazione risulterebbe difficile e costosa. E se è vero che «le regioni, per la gran parte, già oggi non sono all’altezza del compito loro richiesto dalla legge», e che «La carenza dei dati di monitoraggio impedisce di fatto l’esercizio del potere sostitutivo del governo previsto dall’articolo 120, comma 2 della Costituzione e dall’articolo 3 comma 5 della legge che sta per entrare in vigore»8 (la L. 86/2024 è operante dal 13 luglio scorso), allora le acque iniziano a farsi torbide. È forse possibile che il percorso verso l’autonomia regionale si stia configurando – e non per caso – come un combinato disposto di fattori che permettono di fornire un unico quadro di sviluppo per un Paese capitalista che, dal punto di vista economico, avrebbe bisogno di due cose diverse? Ossia: territori economicamente performanti in grado di garantire livelli europei di prestazioni e quell’integrazione delle filiere economico-produttive anch’essa tipica dell’Europa centrale; territori meno sviluppati che non devono costituire un costo per lo Stato, il quale tramite la deregolamentazione de facto originata dalla fallimentare gestione dei Lep vorrebbe rinunciare alla possibilità di esercitare il diritto di revocare l’autonomia.
Un ulteriore indizio che l’autonomia regionale sta impostando un Paese a due velocità. Si tenga presente, infatti, che «Alla individuazione dei Lep dovrebbe seguire la determinazione dei costi standard (di efficienza) delle attività che concretizzano i Lep stessi, per poi arrivare infine al fabbisogno standard complessivo necessario sia a quantificare il finanziamento necessario a garantire i Lep (…), sia a calcolare i meccanismi perequativi»9 per i territori economicamente meno sviluppati.
Nei piani del legislatore il soddisfacimento dei Lep su tutto il territorio nazionale garantirebbe quel livello minimo di unità territoriale in grado di consentire allo Stato di smettere di finanziare le Regioni con trasferimenti ad hoc (e anche su questo ci sarebbe molto da ridire…). Di conseguenza, in mancanza di dati di monitoraggio sul livello di soddisfacimento dei Lep lo Stato procede ai trasferimenti erariali sostanzialmente sulla base delle necessità di bilancio regionali, con ciò accettando implicitamente lo scostamento esistente fra i territori.
1 Antonio Marchini, La sanità in Italia dalle sue origini ad oggi, p. 45. https://www.fpcgil.it/wp-content/uploads/2021/06/LA-SANITA-IN-ITALIA-DALLE-SUE-ORIGINI-AD-OGGI.pdf
2 L. 86/2024, art. 2, c. 2.
3 Le materie trasversali sono materie che non presentano «i caratteri di una materia di estensione certa, ma quelli di una funzione [corsivo nostro] esercitabile sui più diversi oggetti» (Sentenza Corte Cost. n. 14/2004, punto 4).
4 L. 86/2024, art. 2, cc. 4 e 8.
5 L. 86/2024, art. 10, c. 1, lett. “a” e “b”.
6 L. 86/2024, art. 7, c. 1.
7 DPCM 29 novembre 2001.
8 Lucia Valente, Dove l’autonomia regionale è già realtà: i Lep nei servizi per il lavoro, «laVoce.info», 17 Luglio 2024.
9 Luciano Cimbolini, Autonomia differenziata: materie, Lep, costi e fabbisogni per costruire il sistema, «Norme&Tributi+», inserto de «ilSole24Ore», 3 Luglio 2024.
FONTE: https://www.lafionda.org/2024/07/19/ombre-e-sospetti-sulla-nuova-legge-federalista-di-meloni/
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