I lavoratori cognitivi, i corsi di team working e la ristrettezza dell’alfabeto neoliberista
DA LA FIONDA (Di Antonio Semproni)
È dagli anni ’80 che le élites capitalistiche, al sicuro tra le mura tecnocratizzate del proprio laboratorio neoliberista, conducono un esperimento di disintegrazione comunitaria e correlata inclusione dell’essere umano nel mercato. L’esperimento sembra però aver prodotto tra i lavoratori cognitivi una retrocessione dalla civiltà allo stato di natura, dunque un’involuzione rispetto al modello sociale inaugurato dai padri del liberalismo e centrato sull’armonica convivenza di individui titolari di un nucleo più o meno ampio di diritti garantiti da una legittima autorità; questo, almeno, è il risultato che gli scienziati di questo originale laboratorio temono essersi prodotto: diversamente, non si spiegherebbe la somministrazione ai lavoratori cognitivi di cicli di lezioni dedicate a team building, team working et similia.
Sono convinto che anche nei più tetragoni sostenitori delle ricette neoliberiste si sia insinuata una recondita paura per la tenuta dell’ordine sociale; d’altronde, se la società è ridotta al mercato e ciascuno è in competizione con tutti gli altri per esservi incluso e tracciarvi la propria personale ascesa, la coesione del corpo sociale è debole e il rischio di tensioni alto. A poco aiutano le prescrizioni dell’ordoliberalismo, che raccomandano di regolamentare minuziosamente la competizione: la meritocrazia, slegata da qualsiasi considerazione delle condizioni di partenza e dunque da qualsiasi criterio di equità, non fa che aumentare le differenze di classe; effetto perverso che possono sortire pure le politiche di tutela di categorie sensibili, nella misura in cui siano ciecamente astratte e perciò ignorino le intersezioni che si danno tra classe, genere ed etnia. È dunque ragionevole che la mente neoliberista preventivi (e tema) una rottura (o addirittura un’esplosione) dell’ordine sociale; mi fanno però sorridere gli ingredienti da essa selezionati per ovviare a questo stato collettivo di tensione nervosa, perlomeno con riferimento ai lavoratori cognitivi: la mente neoliberista ha infatti attinto dai padri del liberalismo, così discendendo alle radici di quell’albero lungo quattro secoli di cui il neoliberismo dovrebbe costituire la fronda maggiormente progredita verso il cielo. In tal modo, s’è rivelata una volta di più tutta la povertà del bagaglio culturale neoliberista. Cultura, difatti, il neoliberismo non ne ha; esso vanta solo la tecnica – che è strumento di assoggettamento della natura e dunque non realizza, come invece si propone la cultura, l’integrazione dell’uomo nella natura – e un repertorio di simboli e parole d’ordine che la mente neoliberista, all’atto di costituire la propria egemonia sul corpo sociale, insuffla nel senso comune: questo repertorio varia in dipendenza del carattere più o meno autoritario e più o meno conservatore dell’entità nazionale o sovranazionale interprete del neoliberismo (necessariamente includerà “successo” e “resilienza”, mentre potrà includere “famiglia” e “patria”).
La categoria dei lavoratori cognitivi presenta peculiarità che la rendono particolarmente esposta all’atomizzazione: ha risentito in primo luogo della deterritorializzazione del lavoro – cioè della circostanza che esso non è legato a un luogo condiviso, si chiami quest’ultimo fabbrica, ufficio o studio – e in secondo luogo della cottimizzazione delle prestazioni lavorative – percepibile nell’incentivante connessione tra risultati e premi[1]. La scarsa sindacalizzazione o comunque bassa coscienza sindacale diffusa tra i lavoratori cognitivi è indizio di questa tendenza alla monadizzazione. Tra l’altro, non è da trascurare che i lavoratori cognitivi risentono di una minore alienazione rispetto ad altre categorie di lavoratori: si affermano socialmente nel proprio lavoro, che spesso costituisce il culmine di un lungo cursus studiorum, e, pur non identificandosi con il prodotto del proprio lavoro, si identificano nelle mansioni loro assegnate, avendo investito lunghi anni (con sacrificio, talvolta, di tutta la giovinezza) per prepararsi all’espletamento di esse[2]. Questo più ovattato sentimento di alienazione induce una minore coscienza della colleganza come corpo sociale condividente lo stesso orizzonte di senso e di battaglia nella piramide delle classi sociali; tra i lavoratori cognitivi la colleganza è un Frankenstein strumentale alla produzione: nella misura in cui punta a insinuarsi nel vertice della piramide aziendale s’affusola e (necessariamente) perde pezzi, ovvero lascia indietro propri membri.
In definitiva, questa categoria di lavoratori presenta l’humus più adatto per la fioritura, o – come i padri del liberalismo chioserebbero se fossero in vita – la rifioritura, di uno stato di natura: una guerra di tutti contro tutti per la carriera. La mente neoliberista interviene allora congegnando corsi di team working e team building, un catechismo capitalista per ricondurre i lavoratori alla civiltà, intesa come garanzia di una competizione pacifica, ordinata e, dunque, fruttuosa.
Cominciamo dalle lezioni dedicate alla migliore gestione del tempo: se, per dirla con le lenti dell’antropologia, il tempo è natura – è infatti percepibile solo nella natura, sotto forma delle sue evoluzioni e mutamenti (si pensi al ciclo solare o alla stagionalità dei frutti) –, queste lezioni non sono altro che un ulteriore tentativo di asservire la natura all’uomo: una risposta illuministica alla contemporanea ansia produttiva.
Altre lezioni di questi corsi sono dedicate all’edificazione di un team: generalmente vertono sull’individuazione di una serie di valori che devono orientare il singolo lavoratore nelle relazioni con gli altri colleghi e all’interno del gruppo di lavoro. Si tratta di civilizzare il barbaro per ammetterlo nel gruppo di lavoro: utilizzo “barbaro” nel senso di straniero e, in questo specifico caso, di straniero rispetto al costituendo gruppo di lavoro; il barbaro deve spogliarsi dei propri valori e sussumere quelli indicati durante la lezione di team bulding; questa iniziazione tocca anche al barbaro già educato alla pratica della solidarietà e alla comune decenza di George Orwell, e che quindi abbia in sé “quelle disposizioni etiche e psicologiche senza le quali il funzionamento di una società socialista, nel quotidiano, è condannato a dimostrarsi un’utopia”[3].
Il liberalismo, legato alla nozione di utile, ignora le relazioni di forza immanenti il corpo sociale e identifica costantemente il bene con l’utilità, instaurando un rapporto direttamente proporzionale fra moralità e generalità. Quanto più l’utile apportato dalla condotta umana ha portata universale, tanto più questa condotta è conforme alla morale: così David Hume e Claude-Adrien Helvétius; mentre Kant, sebbene sgombri il campo etico dal feticcio dell’utile, raccomanda una condotta massimamente generalizzabile, prescindendo dalla considerazione di qualsiasi circostanza concreta in cui quella condotta si svolge. Traslando questa impostazione di pensiero al lavoratore cognitivo, la migliore condotta che da questi si possa auspicare sarà quella che apporterà la massima utilità al gruppo di lavoro e, di riverbero, alla produzione, indipendentemente dai suoi riflessi sui legami di solidarietà e affettivi interni al gruppo stesso.
È dunque palese che il laboratorio neoliberista muova da quell’antropologia negativa di cui Hobbes e anche Locke[4] si servono nelle loro teorizzazioni politiche e sfoci nella costituzione di un universale astratto – per il lavoratore cognitivo rappresentato dal gruppo di lavoro, speculum di quel che è lo Stato per il cittadino – che funzionalizza a proprio vantaggio la condotta etica dell’individuo.
Il gruppo di lavoro, poi, non potrà mancare di un leader: una figura che mi rimembra il Leviatano hobbesiano. Non si dà la possibilità di un’organizzazione orizzontale del gruppo di lavoro, secondo la logica dell’anarchia del Noi, fondata “su altruismo e responsabilità degli agenti” e di per sé operante quale “causa di efficienza dal punto di vista sociale”, giacché “nessuno sa far meglio di quello che noi stessi possiamo fare per Noi-tutti”[5].
Altro punto di interesse sono le lezioni dedicate all’autovalutazione: qui avverto un’eco dell’originaria e radicale peccaminosità dell’uomo predicata dalla Riforma Luterana. Il lavoratore cognitivo deve essere alla costante ricerca di ciò che non va in lui, di qualche propria mancanza: questo atteggiamento è funzionale al suo perfezionamento e corrisponde bene al concetto illuministico di progresso.
Al lavoratore cognitivo è pure raccomandato di domandare ai colleghi opinioni sul proprio andamento: ecco una reminiscenza del calvinismo, secondo cui i segni dell’elezione divina sono visibili nelle opere realizzate dall’uomo, che giocoforza suscitano l’approvazione e l’ammirazione (e l’invidia?) dei suoi simili. Dunque il lavoratore cognitivo domanderà “Sto andando bene?” per interrogarsi in realtà circa la fattibilità di essere un prescelto per il lavoro per cui è stato assunto.
Concludendo con una facezia, chissà cosa penserebbe di queste lezioni il solidale gruppo di postini protagonisti de ‘Il mio amico Eric’ di Ken Loach, sempre pronti ad aiutare il collega rimasto indietro.
[1] La premialità, nella dinamica del lavoro salariato, si risolve nell’apprensione da parte di pochi di una frazione di plusvalore, cioè di quanto dovrebbe essere già loro (e dei molti altri esclusi dal premio), deflazionando lo spirito solidaristico tra la forza lavoro; la premialità è inoltre un dispositivo di coazione psichica indiretta teso a stimolare un aumento della produttività quando non si danno altri espedienti atti all’uopo (come una più efficiente organizzazione del lavoro o gli investimenti tecnologici).
[2] Per dirla con Marx, il lavoratore cognitivo è alienato dal prodotto del suo lavoro, che resta un oggetto estraneo, ma non anche nell’attività lavorativa, giacché difficilmente la percepirà come un’attività che non gli appartiene o addirittura punitiva.
[3] Jean-Claude Michéa, Il vicolo cieco dell’economia, elèuthera, p. 97, corsivo presente nel testo originale.
[4] Secondo Locke nello stato di natura l’armonia è assicurata da una legge naturale inscritta nella ragione degli esseri umani, ma, poiché chiunque può violare questa legge, occorre uscire dallo stato di natura e costituire la società civile. Osservo che, se chiunque può violare questa legge naturale, allora la ragione non è universale e lo stato di natura Lockiano è tutt’altro che un locus amoenus, per cui ritengo che anche Locke muova le sue teorie da un’antropologia negativa. A questi autori assocerei pure Jean-Jacques Rosseau, per cui la condizione di stato di natura innesca conflitti – risolvibili solo in base alla legge del più forte – non appena l’economia si fa più complessa, mutando il suo status da attività spontanea per la sussistenza a lavoro organizzato per la produzione di eccedenze.
[5] Guido Candela, Verso un’economia comunitaria, elèuthera, p. 36.
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