Trump, gli americani, la democrazia
DA LA FIONDA (Di Umberto Vincenti)
È probabile che Donald Trump a novembre sia rieletto Presidente degli Stati Uniti d’America: l’ufficio più faticoso, ma ancora quello con maggior potere al mondo. Molti osservatori se ne meravigliano: a loro pare che Trump sia assolutamente sconnesso rispetto ai valori del Bill of Rights. Lo è sicuramente. Ma Trump gode di un enorme consenso personale che è sostanzialmente integro da una decina d’anni e, anzi, è in via di implementazione: nel 2016, contro Hillary Clinton, ottenne quasi sessanta milioni di voti, ma nel 2020, contro Joe Biden, ne prese molti più, oltre settantaquattro milioni. Ora è dato per favorito: nonostante che in mezzo ci siano stati i suoi atteggiamenti e i suoi discorsi discriminatori e suprematisti, i vari processi per reati fiscali e a sfondo sessuale, l’assalto a Capitol Hill, i feroci insulti al Presidente eletto e in carica. E tanto altro ancora.
Noi ci appuntiamo su Donald: non capiamo e lo critichiamo pesantemente. Per la verità egli gode di ampio consenso anche in Europa. Ma tutta la sinistra gli è avversa e, direi, coerentemente (anche se paradossalmente parecchi si augurano che vinca perché sperano che metta fine alla guerra in Ucraina, come in effetti ha ripetutamente promesso). Il fenomeno è dunque alquanto complesso e non spiegabile semplicisticamente. Potrebbe anche essere la punta di un iceberg, un enorme iceberg destinato improvvisamente, a rivelarsi nelle sue dimensioni e conseguenze.
La novità o, meglio, la rottura non è tanto Donald, ma i suoi elettori americani; e poi i suoi (tanti) simpatizzanti in Occidente. Rimaniamo negli U.S.A. Trump può anche rappresentare l’antistato, cioè l’antimodello, dove il modello è quello cristallizzato normativamente nella Costituzione e culturalmente nelle idee coltivate nei campus delle università americane. Ma l’antimodello non solo è fortissimo, ma è espressione di una certa antropologia identitaria di una certa America: una certa America che ha radici lontane e che si è, com’è inevitabile, non dico evoluta, ma trasformata nel corso del tempo. Compariamo la filmografia americana con quella italiana: Mediterraneo, Gomorra o La Grande Bellezza con Rambo, Revolution o Top Gun Maverick. Film famosi, tutti (gli americani di più). Anche belli. Ma se si considera la rappresentazione antropologica, siamo agli antipodi. È un poco oscura la ragione per la quale noi italiani continuiamo a farci film che mettono in scena i nostri difetti (e questi poi piacciono tanto negli altri paesi occidentali dove non ci stimano e, però, se ci denigriamo, magari ci regalano l’Oscar). Gli americani fanno esattamente il contrario: la loro Nazione sempre al centro, il loro desiderio di supremazia anche individuale come filo conduttore, il coraggio e la determinazione quali supreme virtù.
Il trumpismo è espressione anche (ma non solo) di questa roba qua. Donald (che non è poi così stupido) lo sa benissimo; e gli è stato facile, dopo la fucilata, rialzarsi, cercare di allontanare l’improbabile e maldestra scorta, gridare più volte, con il pugno chiuso, «Fight, Fight, Fight!». Un’astuta recita? Forse. Ma azzarderei che la reazione sia stata spontanea e naturale: questo è il personaggio, e questo è nel DNA americano (dove, certo, c’è dell’altro che, tuttavia, a me pare non prevalente o più prevalente).
Smettiamola allora di illuderci che il trumpismo sia una scheggia impazzita: America first è uno slogan, e una linea politica, che accompagna gli USA dall’Ottocento, ma è implicita nella genesi dell’indipendenza dalla madre patria. E aggiungiamoci questo: Trump è politicamente scorrettissimo, questa è la sua natura, ma questo è anche il calcolo captatorio (di consenso) che egli ha messo in campo e che offre i contenuti dei suoi discorsi. A una parte cospicua degli Americani il politically correct o non è mai piaciuto o ha scocciato: vi vedono un tradimento della verità e una limitazione di libertà contro cui è tempo di reagire vigorosamente.
Gli USA (piaccia o non piaccia) condizionano non solo la politica degli europei, ma anche la loro cultura, i loro gusti, la loro moda. Scontato che la ventata antistatalista di Trump abbia spiegato i suoi effetti anche nella vecchia Europa: se l’assalto delle destre in UE è fallito, un cambiamento epocale è comunque stato annunciato. E credo che, con i suoi tempi, si materializzerà. Così è la storia del mondo. Ma che verrà dopo il costituzionalismo novecentesco? Alla gente interessa davvero andare a votare? O anela piuttosto a un ordine diverso? Non si possono elaborare nuovi modelli di democrazia? Il costituzionalismo novecentesco, con tutti i suoi formalismi e le sue infinite garanzie, sarà in grado di salvarci dai formidabili imperialismi che si espandono dall’Oriente del mondo? Trump, pare, che non ritenga più l’Europa un continente strategico: non è là che gli USA dovranno difendersi, ma dall’altra parte. L’Atlantico non è più così importante. I giochi sono da tempo allocati sul Pacifico. Occorrerà, pare pensare Trump, ri-orientarsi. Domandiamoci se abbia torto.
FONTE: https://www.lafionda.org/2024/07/20/trump-gli-americani-la-democrazia/
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