Crisi strategica di Israele e crescente rischio di un conflitto regionale
di ROBERTO IANNUZZI (blog personale)
Soldati israeliani al termine del loro addestramento (Alexi Rosenfeld, IDF Spokesperson Unit, IDF, CC BY-NC 2.0)
Il crollo del paradigma israeliano della deterrenza, la deriva etnonazionalista del paese, e il rischio di una nuova “Nakba” palestinese, spingono la regione mediorientale verso l’abisso.
Lo sciopero generale è l’ultimo nemico, in ordine di tempo, del premier israeliano Benjamin Netanyahu.
Il ritrovamento dei corpi di 6 ostaggi nei tunnel di Rafah che, secondo il governo, Hamas avrebbe ucciso all’approssimarsi dell’esercito israeliano, ha scatenato l’ira popolare contro il primo ministro e il suo esecutivo, accusati di aver troppo a lungo sabotato il negoziato per il rilascio degli ostaggi.
In quasi 300.000 sono scesi in piazza a Tel Aviv, dando vita alla più ampia manifestazione di protesta dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, mentre altre 200.000 persone sfilavano a livello nazionale.
Ma Netanyahu pare inarrestabile. Parlando ai giornalisti riuniti in conferenza stampa, ha ribadito che non intende abbandonare il Corridoio Philadelphia, l’esile striscia di terra lungo il confine con l’Egitto che né il Cairo né Hamas ritengono accettabile rimanga sotto il controllo israeliano nel caso di un cessate il fuoco.
Una simile decisione è stata criticata da Washington e dagli stessi vertici militari israeliani, i quali hanno confermato al loro premier di poter riacquistare il controllo del Corridoio in ogni momento qualora dovesse ricominciare il contrabbando di armi fra Egitto e Gaza (contrabbando peraltro negato sia dal Cairo che da Hamas).
La scelta di Netanyahu, di fatto, condanna al fallimento i negoziati per il raggiungimento di una tregua, allontanando a tempo indeterminato la prospettiva di una sospensione permanente delle ostilità.
Un perpetuo stato di contraddizione
Che le proteste di piazza possano portare a un ripensamento del premier al momento pare poco verosimile.
Un tribunale di Tel Aviv ha decretato la sospensione dello sciopero lunedì scorso, accogliendo la tesi governativa secondo cui tale sciopero era politicamente motivato e non legato ai diritti dei lavoratori, e perciò illegale.
Histadrut , la principale federazione sindacale israeliana che aveva indetto la mobilitazione, ha accettato la sentenza del tribunale.
Sebbene quella degli ostaggi sia una questione che generalmente unisce la società israeliana contro il governo (il quale peraltro dopo il 7 ottobre ha subito un tracollo di popolarità dal quale fatica a riprendersi), gli israeliani continuano ad essere largamente favorevoli ad una prosecuzione del conflitto.
L’opinione pubblica continua a nutrire grande fiducia nelle capacità dell’esercito. Il 78% degli ebrei israeliani vuole che le forze armate intraprendano una iniziativa militare (secondo il 52%, perfino una campagna su vasta scala) anche contro Hezbollah sul fronte nord.
Netanyahu ha sapientemente sfruttato questa propensione, così come la paura degli israeliani per le minacce esterne.
Dopo l’assassinio dell’alto dirigente di Hezbollah Fuad Shukr in Libano e del leader di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran per mano israeliana, e dopo le conseguenti minacce di rappresaglia da parte del partito sciita libanese e dell’Iran, i sondaggi hanno mostrato un ritorno di popolarità del partito Likud e dello stesso Netanyahu.
Un altro fattore che ha permesso al premier di riacquistare consensi è stato l’acclamato discorso da lui pronunciato al Congresso americano lo scorso luglio.
Di fatto, la società israeliana vive un perpetuo stato di contraddizione: detesta Netanyahu ma lo considera preferibile ai suoi avversari politici, vorrebbe veder cadere il governo ma non sa concepire un’alternativa.
Brutalità e disumanizzazione
Da questa situazione traggono profitto i ministri di estrema destra nella coalizione di governo (in particolare, il ministro delle finanze Bezalel Smotrich e quello della sicurezza interna Itamar Ben-Gvir), i quali hanno costantemente rifiutato un accordo sul cessate il fuoco, cercando invece di realizzare la loro visione messianica di una supremazia ebraica sull’intera Palestina fra il mare e il fiume Giordano. Eventualmente anche al prezzo di scatenare una guerra regionale.
Lo scorso 5 agosto, Smotrich ha dichiarato che far morire di fame 2 milioni di palestinesi a Gaza sarebbe la cosa “giusta e morale” da fare fino a quando gli ostaggi nelle mani di Hamas non saranno liberati.
Una simile dichiarazione è emblematica del livello di disumanizzazione dei palestinesi ormai toccato da diversi esponenti politici e militari israeliani. Le conseguenze sono spaventose.
Un rapporto dell’associazione israeliana B’Tselem, risalente allo scorso agosto, ha messo in evidenza come torture e trattamenti disumani siano utilizzati sistematicamente nei confronti delle migliaia di palestinesi imprigionati nei centri di detenzione israeliani.
Nel frattempo la guerra a Gaza prosegue con altrettanta brutalità. L’ultima strategia adottata dai vertici militari di Tel Aviv è quella dei continui ordini di evacuazione, che obbliga incessantemente i civili stremati della Striscia a fuggire dai ricoveri dove si erano appena sistemati dopo essere sfollati da ancora un’altra zona.
A causa di questi incessanti ordini, oltre il 90% della popolazione di Gaza è sfollata, e appena l’11% della Striscia è stata risparmiata dalle evacuazioni, secondo dati ONU.
Come hanno sottolineato le Nazioni Unite, questi ordini di evacuazione, che dovrebbero essere finalizzati a proteggere i civili, hanno esattamente l’effetto opposto. Essi obbligano intere famiglie a fuggire di continuo, spesso sotto il fuoco israeliano, portando con sé i pochi beni che riescono a raccogliere, ed a riversarsi in aree sempre più sovraffollate, inquinate, e prive di servizi e assistenza.
Impasse militare
Malgrado l’enorme livello di distruzione prodotto a Gaza dall’azione militare israeliana, Hamas è però tutt’altro che sconfitto, dimostrando di essere in grado di riorganizzarsi, di ricostituire le proprie forze anche grazie a nuove campagne di reclutamento, e di riemergere nelle zone abbandonate dall’esercito israeliano.
A tali conclusioni è giunta la stessa intelligence americana, la quale sostiene che Israele non potrà conseguire più di quanto fin qui ottenuto, da un punto di vista esclusivamente militare, nella Striscia.
Secondo i responsabili americani, le forze armate israeliane hanno certamente indebolito Hamas in maniera consistente, ma non potranno mai eliminare completamente il gruppo.
A Gaza, dunque, il governo Netanyahu si trova in una sorta di vicolo cieco strategico. Ha esaurito i propri obiettivi militari, ma si ostina a rifiutare una soluzione politica.
Nel frattempo, le forze armate israeliane continuano a logorarsi nella Striscia, a subire perdite in termini di uomini e mezzi, ad imporre un fardello insopportabile sui riservisti continuamente richiamati in servizio, e di conseguenza sulla società e sull’economia del paese.
A luglio, l’esercito ha evidenziato la scarsità di carri armati a propria disposizione a causa dell’elevato numero di mezzi danneggiati e messi fuori uso nel conflitto. Secondo dati del ministero della difesa, circa 10.000 soldati e ufficiali sono rimasti feriti nelle operazioni belliche, e 1.000 reduci continuano ad intraprendere i programmi di riabilitazione ogni mese.
Crollo del paradigma della deterrenza
Più in generale, è il principio di deterrenza su cui si fonda la dottrina di sicurezza israeliana ad essere entrato in crisi.
Fin dalla nascita dello Stato ebraico, padri fondatori come David Ben-Gurion lo avevano considerato un’entità perennemente minacciata, costretta a vivere in una regione ostile, che fondava la sua sopravvivenza sulla propria capacità di deterrenza.
Non essendo in grado di mantenere un esercito numeroso costantemente mobilitato, Israele scelse un modello di difesa fondato su forze armate professioniste, numericamente contenute ma pesantemente armate, supportate all’occorrenza da un vasto esercito di riservisti.
La dottrina di sicurezza israeliana prevedeva che lo Stato ebraico non avrebbe mai ottenuto una pace definitiva, ma sarebbe stato costretto a condurre guerre periodiche per ristabilire la deterrenza nei confronti dei propri avversari locali e regionali.
Tali guerre potevano essere anche ad alta intensità, ma dovevano terminare entro un breve periodo di tempo (alcuni mesi, al più), per non logorare troppo le forze di riservisti e non danneggiare l’economia e lo sviluppo del paese.
Il 7 ottobre ha portato al crollo di questo paradigma: malgrado la devastante operazione militare condotta a Gaza allo scopo di ristabilire la deterrenza violata dall’attacco di Hamas, le forze armate israeliane ad oggi non sono riuscite ad estirpare il gruppo palestinese.
Il governo israeliano ha inoltre dovuto evacuare circa 70.000 persone dalla fascia di territorio che corre lungo il confine libanese a causa dei combattimenti con Hezbollah.
A seguito del provocatorio attacco al consolato iraniano di Damasco, Tel Aviv ha dovuto subire una rappresaglia missilistica da parte dell’Iran che, per quanto simbolica, ha mostrato che lo scudo antimissile israeliano può essere “bucato” malgrado l’azione congiunta condotta in suo sostegno da USA, Gran Bretagna, Francia e Giordania.
Infine, a causa degli attacchi condotti dal gruppo yemenita degli Houthi (anche noti col nome di Ansar Allah) al traffico commerciale nel Mar Rosso, il governo Netanyahu ha visto il proprio porto di Eilat gravemente danneggiato economicamente.
In altre parole, con l’operazione di Gaza, Israele non solo non ha ristabilito la deterrenza perduta, ma l’ha vista erodere ulteriormente da attori regionali come Hezbollah, gli Houthi e l’Iran.
Ignorare i propri limiti
E questo mentre le forze armate israeliane sono impegnate in un conflitto che si protrae ormai da 11 mesi, contravvenendo così all’abituale dottrina di sicurezza che prevedeva di ingaggiare conflitti intensi ma di breve durata per non logorare l’esercito.
Come ha giustamente osservato uno studio del BESA Center, noto think tank israeliano, gli attuali vertici militari e politici sembrano aver adottato un concetto di sicurezza massimalista all’indomani del 7 ottobre, secondo il quale non ci si può fidare della deterrenza perché essa prima o poi fallisce, e bisogna puntare invece alla totale sconfitta del nemico.
Questo approccio però, osserva correttamente lo studio, trascurando i limiti di Israele (“uno Stato-isola fondato su un esercito di riservisti”), ha messo a nudo la pressoché totale dipendenza israeliana dalle armi americane e l’incapacità di garantire la sicurezza del fronte nord per l’eccessivo impiego di risorse a Gaza.
Il rapporto conclude che “una guerra lunga non è una soluzione ad un problema di sicurezza”, e che, mentre non è possibile ottenere una vittoria completa, “potremmo benissimo ottenere un completo fallimento, se perseguiamo la vittoria per troppo tempo senza considerare i limiti della nostra potenza, della nostra economia e della nostra società”.
Deriva etnonazionalista
Un articolo pubblicato sulla rivista americana Foreign Affairs ha anch’esso messo in guardia sul futuro di Israele, lanciando tuttavia un allarme di diversa natura: “Il paese ha imboccato una strada illiberale, violenta e distruttiva […] non solo con i palestinesi, ma con i propri stessi cittadini”.
Secondo gli autori dell’articolo (due accademici ebrei presso le università di Durham e del Maryland), Israele si sta avviando a diventare una sorta di “teocrazia etnonazionalista” guidata da estremisti religiosi di destra. Questi gruppi conservatori “vedono il paese in un eterno stato di guerra”, mentre considerano la pace impensabile.
Il conflitto a Gaza (e la recente estensione della campagna militare israeliana alla Cisgiordania, potremmo aggiungere) è destinato a portare “alla completa erosione delle istituzioni e delle norme democratiche già indebolite da Netanyahu e dai suoi alleati”.
L’incidente di fine luglio nel quale gruppi di estrema destra, insieme ad alcuni riservisti e parlamentari dell’attuale governo, hanno fatto irruzione in un centro di detenzione dell’esercito per protestare violentemente contro l’arresto di soldati accusati di aver torturato detenuti palestinesi, è indicativo di questa deriva.
Un paese in queste condizioni, conclude l’articolo di Foreign Affairs, “potrebbe diventare una sorta di entità balcanizzata, con elementi della destra nazionalista e religiosa che costruirebbero un loro Stato di fatto, molto probabilmente negli insediamenti della Cisgiordania”, trasformando il paese “in uno Stato fallito”.
Il rischio di una nuova “Nakba”
Possiamo intravedere un’ulteriore minaccia nella campagna militare che, come abbiamo accennato, Israele ha lanciato negli ultimi giorni proprio in Cisgiordania. In questo territorio, più di 620 palestinesi sono stati uccisi da soldati e coloni israeliani a partire dal 7 ottobre.
Un’estensione del conflitto anche a questa porzione dei territori occupati potrebbe portare a un crollo dell’Autorità Nazionale Palestinese (già delegittimata dalla sua inazione, e fiaccata dalla decisione del governo Netanyahu di non versarle gli introiti doganali che le spettano), e ad una “catastrofe” ben più grave della Nakba del 1948, con conseguente possibile destabilizzazione della vicina Giordania dove si riverserebbero i profughi palestinesi.
Il governo di Amman, ha già lanciato l’allarme ammonendo che qualsiasi trasferimento di popolazione della Cisgiordania “rappresenta una minaccia esistenziale per la Giordania”.
Questo piccolo paese è fondato su un fragile equilibrio tra la componente giordana della popolazione e quella palestinese (circa metà degli abitanti), ed è stato già scosso da aspre proteste di piazza a causa della durissima operazione militare israeliana a Gaza.
Israele accusa l’Iran di ingerirsi negli affari interni giordani e della stessa Cisgiordania per fomentare l’opposizione e la resistenza armata anti-israeliana. Sebbene Teheran abbia respinto queste accuse, è improbabile che l’asse iraniano non intervenga di fronte a uno scenario di pulizia etnica della Cisgiordania.
Purtroppo, la tragica convergenza fra interessi personali ristretti (come quelli del premier Netanyahu, pluri-indagato e delegittimato – insieme ad altri esponenti politici, militari e dell’intelligence – dal fallimento del 7 ottobre) e quelli di un’estrema destra religiosa che vede in questa crisi un’opportunità per liquidare definitivamente la questione palestinese, spinge in direzione di una prosecuzione del conflitto, possibilmente di un suo allargamento, e potrebbe portare proprio all’esito sopracitato in Cisgiordania.
Ultimo appello a Netanyahu
Un altro articolo apparso su Foreign Affairs, questa volta a firma di Amos Yadlin, generale in congedo ed ex direttore dell’intelligence militare israeliana, e di Graham Allison, decano dei politologi americani, sembra lanciare una sorta di ultimo appello a Netanyahu.
I due ricordano al premier israeliano che un cessate il fuoco a Gaza permetterebbe a Israele di descrivere la propria operazione militare come una vittoria, di voltare pagina attraverso l’adozione di una soluzione politica (sebbene in realtà né Israele né gli USA abbiano concepito una soluzione praticabile, né una reale alternativa politica a Hamas nell’enclave palestinese), di raffreddare il fronte libanese (visto che Hezbollah ha condizionato la propria cessazione delle ostilità a un armistizio nella Striscia), e di riavviare il negoziato per la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita.
Questo è in sostanza il piano proposto dall’amminitrazione Biden, che in realtà potrebbe arenarsi di fronte al semplice fatto che Hamas rimane tuttora l’unica autorità a Gaza.
Ma l’alternativa, ammoniscono Yadlin e Allison, sarebbe il progressivo impantanarsi di Israele in una sanguinosa guerriglia nella Striscia, il crescente deterioramento dell’economia israeliana, l’ulteriore isolamento di Tel Aviv a livello internazionale, e una possibile escalation su altri fronti.
Israele sprofonderebbe in una guerra di logoramento impossibile da vincere e, nel caso di un allargamento del conflitto, risucchierebbe gli USA nell’ennesima guerra mediorientale, la più pericolosa, a poche settimane dalle elezioni presidenziali – l’ultima cosa al mondo che l’amministrazione Biden desidera.
Yadlin e Allison ricordano i principi della dottrina di sicurezza israeliana: conflitti di breve durata, possibilmente in territorio nemico (mentre in questa guerra Israele ha permesso che il proprio territorio venisse bombardato, oltre che da Hamas nelle prime fasi, da Hezbollah, dagli Houthi e dall’Iran), il costante appoggio della superpotenza americana, una coalizione regionale (composta dai regimi arabi alleati di Washington) che controbilanci i nemici (rappresentati dall’asse iraniano).
Questa strategia, ricordano i due autori, “richiede la sconfitta degli avversari, e l’eliminazione delle minacce da essi rappresentate, in modo sequenziale e graduale”, piuttosto che in un’unica grande guerra su più fronti, e in particolare contro un Iran che potrebbe avviarsi a diventare una potenza nucleare.
Ma se questo è il piano dell’amministrazione USA, che in concreto non è in grado di offrire più che una tregua probabilmente temporanea in un conflitto di cui essa stessa ha ormai perso il controllo, Netanyahu al momento sembra avere altri progetti: “sopravvivere” agli ultimi mesi della presidenza Biden e puntare sulla vittoria di Trump alle elezioni di novembre, sperando di poter contare su un alleato ancor più “malleabile” alla Casa Bianca a partire dall’inizio del nuovo anno.
Dal braccio di ferro tra queste due visioni dipendono le sorti di un’intera regione che al momento rimane sospesa sull’abisso.
Se siete interessati ad approfondire il tema dello scontro regionale fra Israele e l’asse iraniano (con particolare attenzione a Hezbollah e all’Iran), potete seguire questa mia recente intervista con Giacomo Gabellini
FONTE: https://robertoiannuzzi.substack.com/p/crisi-strategica-di-israele-e-crescente
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