Si rimescolano le carte, ma il mazzo è lo stesso
di TERMOMETRO GEOPOLITICO (Enrico Tomaselli)
L’ho detto in tempi non sospetti, l’elezione di Trump in sé e per sé non può rappresentare automaticamente un punto di svolta radicale nella politica internazionale degli Stati Uniti, poiché ci sono interessi (concretizzati in strategie di lungo periodo) che non possono essere rimessi in discussione ad ogni cambio di amministrazione. Bisognerà quindi vedere, soprattutto su tempi medio-lunghi, come agirà concretamente. Tenendo presente che, proprio in quanto si tratta di una amministrazione tendenzialmente ‘isolazionista’, la sua attenzione sarà concentrata su questioni interne agli states, a cominciare da quella dell’immigrazione, uno dei suoi cavalli di battaglia. E questo potrebbe significare anche che, ad esempio, se le resistenze del deep state rispetto a certi suoi orientamenti fossero troppo forti, potrebbe spendere la sua immagine di presidente soprattutto su queste battaglie interne, lasciando ad altri i ruoli più scomodi legati alla politica estera.
Fondamentale, sotto questo punto di vista, sarà vedere chi andrà a ricoprire due incarichi fondamentali, segretario di stato e segretario alla difesa. È abbastanza evidente che, almeno in parte, la visone trumpiana del Make America Great Again non è poi così lontana dagli orientamenti strategici degli ultimi due decenni, o almeno da come questi si stanno riorientando. Ad esempio, l’intenzione di porre fine alla guerra in Ucraina (per quanto poi sia abbastanza evidente che le idee in merito al come farlo siano a dir poco superficiali) non si discosta molto dal processo di sganciamento già sostanzialmente avviato sotto la presidenza Biden. Anche rispetto alla questione mediorientale, non vedo differenze sostanziali, ed anche in questo caso si tratta poi di vedere come si articoleranno nel concreto le parole d’ordine elettorali. La stessa dichiarazione “niente più guerre durante il mio mandato” può tranquillamente tradursi (ed è ciò che probabilmente accadrà) in una riduzione dell’intervento statunitense a sostegno delle guerre in atto (e, ovviamente, nella non partecipazione diretta delle forze armate USA), fermo restando l’incoraggiamento ai vari proxy a proseguirle in modo più autonomo.
E, per quanto riguarda la Cina, è chiaro che la presidenza Trump sarà segnata da una conflittualità economica, ma quella militare – quand’anche dovesse mai concretizzarsi – di sicuro non è all’ordine del giorno nei tempi della nuova amministrazione.
Chi avrà più da temere, da questa nuova amministrazione, non è nessuno dei paesi che gli USA definiscono come ostili. Per loro cambia relativamente poco, anche perché sono – ciascuno a suo modo – abbastanza forti per non temere nulla di nuovo, che non abbiano già sperimentato negli ultimi anni. Al contrario, saranno probabilmente gli europei a pagare maggiormente le pur minime variazioni nella politica estera statunitense. Lo schieramento largamente anti-trumpiano di quasi tutte le leadership europee, almeno sino a ieri, non potrà non pesare ulteriormente sugli orientamenti della politica USA verso l’Europa, che già di per sé non saranno particolarmente favorevoli; al contrario, possiamo aspettarci di essere trattati quasi come la Cina, ma senza averne neanche lontanamente la forza commerciale e politica.
I prossimi quattro anni, insomma, difficilmente vedranno una veloce risoluzione dei conflitti in essere, quantomeno non per l’azione diretta americana. Ciononostante, ogni mutamento del quadro generale, seppure non effettivamente radicale, porta con sé sempre nuove opportunità, resta quindi da vedere chi, dove e quando saprà coglierle. E, naturalmente, soprattutto se.
#TGP #Usa #Geopolitica
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