Trump: vittoria senza limiti
DA LA FIONDA (Di Matteo Bortolon)
Non potranno passarla liscia. Questo è il pensiero che venne a chi scrive quando il Partito Democratico sostituì bruscamente la candidatura di Biden, gettando alle ortiche sei mesi di primarie. Un processo farraginoso e a tratti balzano, che dovrebbe garantire il consenso della base al candidato che si presenta alla nazione. Dopo sei mesi si accorgono che Biden non era più in condizioni di concorrere? Ma la vicepresidente Harris non se n’era accorta? Avendo evitato il confronto con gli altri candidati alle primarie in primavera la nomenclatura del partito ha puntato tutto sul Presidente in carica.
Viene così presentato un candidato senza legittimazione, la vicepresidente di un soggetto inadeguato candidato da mesi. Una figuraccia veramente epocale.
Quanto di questo avrà influito? Difficile dirlo. Sta di fatto che Trump vince. Vince tutto: grandi elettori, voto popolare, Senato, Camera dei Rappresentati. Altro che testa a testa, l’onda rossa (il colore associato al Partito Repubblicano) c’è stata. Sin dalle prime ore del mattino di mercoledì si potevano avere pochi dubbi.
Si impongono due ordini di considerazioni: i motivi per cui ciò è accaduto e le sue conseguenze. Passato e futuro. Sarà un compito da affrontare con rigore e obiettività, mettendo insieme analisi in molteplici piani. Compito urgente, vista l’ampiezza delle conseguenze possibile, di cui suggeriamo due ambiti: l’Europa e il popolo palestinese. Oltre ovviamente alla politica interna Usa, ovviamente. Ciò che segue sono prime parziali e approssimative annotazioni, a caldo, sul primo di essi. Com’è successo?
Qualcosa di certo lo possiamo dire fin da ora. Sicuramente per capire serve a poco l’astioso disprezzo rovesciato da legioni di commentatori progressisti sul nuovo Presidente e chi l’ha votato: teppa ignorante, cavernicoli, maschilisti, analfabeti, sessisti, malati mentali. In questi ultimi giorni i social si riempiono di insulti e contumelie condite da indignazione da chi, legittimamente, preferiva Harris. Ma ricondurre l’esito alle caratteristiche morali dell’elettorato non merita nemmeno il nome di analisi. Si tratta di uno sfogo, simile a quello espresso per altre tornate elettorali, poco utile per la conoscenza e stucchevole in un qual certo suprematismo. Immaginiamo sarà inutile far loro osservare che un vantaggio così massiccio, confrontato sia con gli esiti del 2020 che del 2022 non potrà che mostrare flussi rilevanti in uscita da Biden arrivati a Trump. Compresa (sorpresa!) una parte rilevante di voto non WASP: afroamericani, latinos. Buzzurri pure solo, presumiamo.
Dato che in questo modo non si capirà nulla, occorrerà ripercorrere le tappe della storia recente. Tenendo presente che le scorse elezioni si tennero in piena crisi Covid e con massicce manifestazioni del movimento Black Lives Matter. Due crisi che hanno lasciato un segno profondo.
La seconda di esse ha messo al centro il razzismo e la violenza della polizia, con manifestazioni di piazza imponenti. Ha creato un terreno comune fra varie declinazioni di elettorato progressista, nel più classico dei modi: contro un nemico comune al governo. Risultato: l’elettorato nero e latino ha favorito Biden in maniera estrema. Nella campagna 2020 comparve per esempio il tema del definanziamento della polizia, proposta cara all’attivismo nero che sarebbe stato per i dem impensabile successivamente.
La prima ha avuto tre dimensioni: sanitaria, economica, di controllo sociale. Sul primo punto il numero di morti per covid ha gettato il discredito su Trump, facendolo facilmente bollare come ignorante novax. Sul versante economico vi è stata una serie di leggi bipartisan di sostegno al reddito di cui hanno goduto milioni di lavoratori. La terza questione ha avuto un impatto che si è mostrato incisivo solo tempo dopo: le misure di protezione dal covid (lockdown, distanziamento sociale) sono state vissute da una parte di popolazione come liberticide e vessatorie, incluse restrizioni alla libera espressione in materia di sanità e vaccini. Questo avrebbe portato, al momento favorevole, benzina al MAGA.
Ma restiamo sul tema economico: i primi provvedimenti li ha presi Trump: il Coronavirus aid, relief, and economic security act (Cares), è entrato in vigore a marzo 2020 e stanziava 2.200 miliardi di dollari. A dicembre il Congresso ha approvato il Consolidated appropriations act, un piano da 900 miliardi di dollari che sosteneva molti programmi del Cares act, in particolare misure contro la disoccupazione, i sostegni alle piccole imprese, l’assistenza per gli affittuari, gli aiuti alimentari e i finanziamenti all’istruzione pubblica.
A marzo 2021 con Biden in carica, è passato un terzo grande provvedimento chiamato American rescue plan. Il sociologo Mattew Desmond lo ha definito “l’intervento più importante del governo federale per gli americani a basso reddito dai tempi di Lyndon Johnson”. Stanziando 1.900 miliardi di dollari in aiuti, tale provvedimento correva in aiuto degli inquilini e dei più poveri. Tanto che il Wall Street Journal si lagnava stizzito che con Biden la MMT (Modern Money Theory) era andata al potere, segnalando che Stephanie Keldon non solo era stata consulente economico di Bernie Sanders, ma della stessa campagna di Biden, contribuendo a un corposo documento che caldeggiava imponente spesa pubblica. Come in realtà è avvenuto.
Il MAGA (Make America Great Again, il motto di Trump che designa anche il movimento a lui fedele) sembrava a terra. E lo confermavano le elezioni di mid-term (rinnovo del Congresso e dei governatori di alcuni Stati federali) del 2022: i dem erano andati bene, in una elezione che di solito sfavorisce il partito del Presidente in carica, mantenendo il controllo del Senato. Non solo l’ “onda rossa” non si era verificata, ma i candidati trumpiani perdevano rispetto ai repubblicani più tradizionali. Ma proprio quell’anno doveva segnare la sua resurrezione.
Dal marzo 2022 gli Usa si trovano impegnati nella guerra in Ucraina. I programmi di sostegno del 2021 non sono stati più finanziati, con i repubblicani che tornavano verso la loro atavica pausa dell’eccesso di spesa pubblica sociale. Gli sforzi dell’amministrazione erano più diretti a finanziare le armi all’Ucraina, inabissandosi in tanti piccoli Vietnam nella approvazione di leggi di bilancio con i repubblicani impegnati a stringere i cordoni della borsa, in un complesso gioco di contropartite e concessioni con do ut des. Non una gran cosa per acquisire consenso popolare.
Dal 2022 il tasso di approvazione della presidenza Biden è sceso costantemente. Da fine del 2021 la % di approvazione è stata quasi sistematicamente inferiore a quella di chi dava una opinione negativa, e con una divergenza crescente.
Contemporaneamente nel campo opposto, a dispetto delle inchieste giudiziarie, Trump vinceva le primarie repubblicane e il MAGA tornava a crescere. Nel 2016 più che un movimento era qualcosa di meno di una corrente d’opinione, mal tollerato dal conservatorismo più tradizionale. I due elementi si sono gradualmente fusi. La vittoria alle primarie del 2024 lascia spazi molto stretti a chi non si riconosce nella guida del leader: o sei trumpiano o esci dal partito. Ed infatti i grandi nomi GOP che vanno verso Harris sono di rilievo. Chissà quanta nomenclatura repubblicana detesta Trump ma adesso lo supporta per opportunismo di carriera. Il MAGA 2016 sembrava un Frankestein mal riuscito, incorporando un populismo più dozzinale e pezzi di conservatorismo da establishment mal assemblati. Oggi il movimento ha trasformato il soggetto politico dei repubblicani nel Partito di Trump, appoggiando il magnate con accenti pressoché messianici. In tal modo il MAGA di oggi pare essersi rivitalizzato dalla opposizione alle misure anti-Covid e nello stesso tempo ha assorbito temi tipici del GOL, quali il rifiuto del diritto all’aborto e i temi religiosi, mentre nel 2016 avevano più forza le promesse riguardando il lavoro da reimportare dall’estero e il rigetto dei trattati free-market (che invece i repubblicani precedentemente adoravano).
Una rilevazione di un istituto di sondaggi su quale sia la maggior preoccupazione che guida il voto in tutti gli Stati-chiave (i famosi swing states “) per questa elezione ha dato una risposta netta: l’inflazione.
Si parla molto dell’aumento dei prezzi delle case, della benzina, delle assicurazioni. Secondo uno studio della FED il picco dell’inflazione negli Usa si è avuto a fine 2022. La sua incisività è diversa rispetto ai vari segmenti sociali: famiglie e lavoratori a minor reddito subiscono di più l’aumento dei prezzi dei beni. Ma l’articolo va oltre, argomentando che finiti i risparmi accumulati durante la pandemia, le classi medie li subiscono più nel 2024 che durante il picco inflazionistico precedente.
E arriviamo ad oggi. La Harris, dopo aver prudentemente archiviato la campagna più progressista del 2020, apre a temi marcatamente repubblicani (in un talk show ammette di possedere un’arma e che avrebbe sparato a chi le entrasse in casa!), e si caratterizza per numerose retromarce, come la promessa di bando del fracking (metodo di estrazione del petrolio terribilmente inquinante). Forse anche per questo incassa l’appoggio di uno stuolo di neocon, in primis l’ex vicepresidente di Bush, Dick Cheney, oltre a dozzine di funzionari della stessa amministrazione che ha iniziato due guerre, che sottoscrivono una lettera di endorsement.
E poi c’è Gaza. Tema che non trascina le folle, come tutta la politica estera nell’elettorato Usa , che però sulla base dem ha una sua incisività. Con il suo appoggio a Israele, che Biden cercava goffamente di nascondere, si sono giocati il voto della comunità araba nel paese, che ha massicciamente votato per Jill Stein, candidata alternativa. Ovviamente non sappiamo se sia stato un fattore decisivo, ma tali comunità sono particolarmente presenti in alcuni degli swing states, ed hanno esplicitato il loro rigetto della amministrazione Biden.
Insomma più che un terreno comune fra progressisti sembra che la Harris abbia creato un orizzonte comune fra differenti sfumature di establishment, anche se guerrafondai e aziendalisti. Guardando il risultato non pare sia stata una grande scelta.
Dato che Trump vince, e non solo nel voto WASP. Secondo dati riportati da Forbes vince tra i latinos con un vantaggio del 6%; diminuisce lo svantaggio fra gli afroamericani, conquistando Georgia, Michigan e North Carolina; sbanca fra i bianchi senza istruzione superiore con 34 punti di vantaggio; riduce il gap fra i giovani di 18-29 anni, perdendo dell’11% mentre nel 2020 perdeva del 24%. Insomma dove nel 2020 vinceva, vince di più; dove perdeva, perde di meno.
Ci pare molto azzeccato il giudizio di Federico Petroni di Limes, grande conoscitore del paese: si tratta di un successo tale da segnare un rifiuto radicale non solo della candidata Harris, ma di una vera e propria rivolta contro le élite rappresentate dai democratici, il modello di società da essi proposto e la loro pretesa di atteggiarsi come “centro morale”: il liberalismo-progressismo che pretende di dare una direzione etica e giustificare in base ad essa la restrizione della libertà di espressione. Molto ha fatto discutere la lettera di Zuckerberg al Congresso in cui ammette di aver censurato determinati contenuti su pressione della Casa Bianca. Così come, al di là dell’Atlantico, si attrezza a fare la Commissione europea.
Ma la benzina che ha infiammato la vittoria è una miscela di vari composti: oltre alla postura da establishment dei dem, con un’agenda più aziendalista che nel 2020, lo scontento popolare per i prezzi, la polarizzazione da guerra culturale (woke vs. valori conservatori).
Secondo chi scrive è riedizione del clintoniano “it’s the economy, stupid!” il principale fra i fattori chiave del successo di Trump. Che sarebbe riconducibile alla scelta di guerra contro la Russia, sostanziata sia coi generosi pacchetti di armi, sia per le conseguenze inflazionistiche su larga scala. Ma la lista dei candidati è lunga, e già nelle prossime settimane avremo più elementi per avallare tale ipotesi di lavoro, o rovesciarla.
Si dovrà ragionare sulle conseguenze che ci stanno di fronte, partendo dal dato di base che Trump I non è stato certo timido nel proporre misure liberiste. La Heritage, il pensatoio più influente del paese fra quelli conservatori, scrisse nel 2018 una verifica di quante sue raccomandazioni fossero state attuate nel primo biennio. Il risultato è stato una corrispondenza del 67%, un ritmo superiore a quello di Reagan, e si trattava di un’orgia di deregolamentazioni, libero mercato e regali alle classi dominanti.
Sicuramente chi ha celebrato (con sollievo) il funerale del populismo si è affrettato un po’ troppo.
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