Le Bimbe di Draghi rovinano i piani della Meloni e le impediscono di farsi la sua banca
DA OTTOLINA TV
“Allora, abbiamo una banca?” Era il 18 luglio del 2005 e a porre la domanda era l’allora segretario degli allora Democratici di Sinistra Piero Fassino (che inaugurava così una delle più brillanti carriere da raccattatore seriale di figure di merda dell’intera seconda repubblica); all’altro capo del telefono Giovanni Consorte: 15 anni prima era stato nominato amministratore delegato di Unipol, la compagnia nata nel 1962 – per volontà e con il supporto del PCI – per fornire servizi assicurativi al variegato universo del movimento cooperativo e che, pur mantenendo il legame simbiotico con gli eredi pentiti del PCI, aveva trasformato in uno dei principali player finanziari dell’economia italiana moltiplicando di 20 volte la raccolta premi e diversificando in mille direzioni diverse le attività. Fino a tentare il grande colpo: un’offerta pubblica di acquisto per l’acquisizione di una delle principali banche italiane, la Banca Nazionale del Lavoro. La commistione tra politica e banche non era certo una novità: quando Consorte era salito a capo di Unipol, nel 1990, le banche controllate dallo Stato – dagli enti territoriali e dalle fondazioni, con un ruolo di primissimo piano delle casse di risparmio legate ai territori – rappresentavano ancora poco meno del 70% del mercato bancario italiano ed erano spesso guidate più da obiettivi politici che non da mere logiche commerciali, con una grande influenza dei partiti e delle amministrazioni locali; istituti come la Carisbo (la Cassa di Risparmio di Bologna) o la BPER (la Banca Popolare dell’Emilia Romagna), ad esempio, hanno rappresentato a lungo pilastri fondamentali della strategia economica del PCI nell’Emilia Rossa fino a quando non è arrivata la controrivoluzione neoliberista. Per il mondo bancario, nello specifico, la controrivoluzione prese la forma della legge Amato del 1990, che impose la trasformazione delle casse di risparmio e delle banche del monte in società per azioni e il trasferimento di tutte le attività sociali alle fondazioni bancarie; 8 anni dopo, ad accelerare e approfondire ulteriormente la spoliticizzazione degli istituti di credito intervenne un altro grande leader controrivoluzionario come Carlo Azeglio Ciampi, che con la sua riforma del 1998 obbligava le fondazioni a ridurre progressivamente le proprie partecipazioni nelle banche favorendo una maggiore apertura ai fantomatici mercati. Tradotto: alla concentrazione del sistema bancario nelle mani di una ristretta oligarchia completamente deresponsabilizzata rispetto alle conseguenze delle sue speculazioni sui territori. Risultato: quando Consorte lancia la sua OPA su BNL, il peso delle banche più o meno controllate politicamente è sceso dal 70% del 1990 a poco più del 15% e 5 banche commerciali controllavano da sole il 50% del mercato. Insomma: nel 2005, per un partito politico avere una banca era una cosa profondamente diversa da quello che era stato durante la prima repubblica. Anche grazie alla pubblicazione illegittima di quella intercettazione, alla fine comunque l’operazione saltò e, con lei, molte delle teste che l’avevano architettata: da Consorte all’allora amministratore delegato della Banca Popolare di Lodi Gianpiero Fiorani, fino all’allora governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, che venne sostituito da un agente del grande capitalismo finanziario USA, San MarioPio da Goldman Sachs. L’unico che ancora oggi ci ritroviamo tra i coglioni è Fassino anche se oggi, invece che di una banca, si accontenta di avere i profumi dei duty free.
Negli anni successivi, il Risiko Bancario e il grande processo di concentrazione del mercato del credito nelle mani di una ristrettissima oligarchia finanziaria è continuato indisturbato, con 4 di quelle che nel 2005 erano le principali banche del Paese che si sono ridotte ad appena due – UniCredit e Intesa – che dominano incontrastate; più o meno dall’inizio della crisi pandemica, però, ha subito una significativa battuta d’arresto. Fino a pochi giorni fa; a rimettere in moto la giostra, il 6 novembre scorso, c’ha pensato Banco BPM, il gruppo nato nel 2017 dalla fusione tra due delle più importanti banche popolari italiane: il Banco Popolare e il Banco Popolare di Milano. L’operazione consiste in un’offerta pubblica d’acquisto per Anima Holding che, con 190 miliardi di euro gestiti, è il più grande gruppo indipendente del risparmio gestito in Italia (la nostra piccola, minuscola BlackRock); Banco BPM, con il 22,4%, era già il primo azionista della holding: con questa operazione l’obiettivo è comprarsi il resto, ottenere il delisting di Anima da Euronext Milan – e, cioè, toglierla dalla borsa – e integrarla completamente all’interno del gruppo, per un costo complessivo che si aggira attorno al miliardo e mezzo. La partita del risparmio gestito è in assoluto una delle più importanti in ballo, con numerosi tentativi di aggregazione e ristrutturazione sul tavolo: come sottolineato prima dal rapporto Letta e poi da quello Draghi sulla competitività europea, per tornare a investire per la costruzione di campioni continentali in grado di competere sui mercati globali, l’Europa nel suo insieme – e l’Italia nello specifico – devono riuscire a trovare il modo di trattenere entro i loro confini le migliaia di miliardi che ogni anno si spostano verso i mercati finanziari statunitensi, dove alimentano quella che probabilmente è la più grossa bolla speculativa della storia del capitalismo e dove finanziano le attività dei grandi monopoli tecnologici a stelle e strisce che impediscono l’emergere di competitor europei; a gestire il grosso di questo flusso ci pensano i colossi del risparmio gestito statunitense, da BlackRock a Vanguard. Quello che i piani Letta e Draghi, giustamente, invocano a gran voce è che si creino delle alternative europee all’oligopolio d’oltreoceano; al momento, infatti, i principali attori del risparmio gestito europeo, rispetto ai competitor d’oltreoceano, sono dei veri e propri nani, con Amundi (che è la prima della classe) che gestisce in tutto poco più di 2 mila miliardi contro i 12 di BlackRock e i 10 di Vanguard; una sproporzione che si ritrova anche nelle banche, con l’Europa che conta una sola banca nelle prime 10 al mondo per capitalizzazione e non è manco dell’Unione. E’ la britannica HSBC che, comunque, capitalizza poco più di 160 miliardi contro i 600 di JP Morgan Chase.
Per cominciare a recuperare un po’ di terreno e seguire le indicazioni di San MarioPio, al momento sul tavolo – per quanto riguarda la creazione di campioni europei del risparmio gestito – è in ballo una trattativa tra le tedesche Allianz e DWS, che porterebbe a un patrimonio gestito nell’ordine dei 2 mila miliardi di euro e oltre – che, rispetto agli Stati Uniti, rimangono spiccioli, ma che sono comunque un ordine di grandezza superiori ai 190 miliardi gestiti da Anima; insomma: se il campionato europeo è di seconda categoria, quello italiano continua a sembrare un torneo di calcetto tra amici, che però sta diventando sempre più vivace. Il 13 novembre, infatti, ecco un altro colpo di scena: il Ministero dell’Economia e delle Finanze comunica la cessione del 15% del capitale sociale di Monte dei Paschi di Siena per 1,1 miliardi; a comprarsele, una cordata di 4 investitore rigorosamente italiani e vicini al governo Meloni, a partire da Caltagirone, che si è comprato il 3,5%, la stessa quota acquistata dalla holding degli eredi Del Vecchio, la Delfin. Ma a fare la parte del leone è stata proprio BPM, sia attraverso il 5% che s’è comprata direttamente, sia attraverso un altro 3% che, invece, s’è comprata proprio Anima: il tentativo è quello di creare il terzo polo bancario italiano e di crearlo in modo che sia particolarmente permeabile all’influenza dei partiti del centrodestra. Insomma: a questo giro, a chiedere se “allora, abbiamo una banca?” sono direttamente i partiti al governo, almeno fino a quando non è arrivato il solito guastafeste a rompere le uova nel paniere; alle 6 di mattina di lunedì scorso, infatti, ecco che arriva l’ennesima bomba pronta a destabilizzare tutto il Risiko. L’amministratore delegato di UniCredit, Andrea Orcel, annuncia un’operazione per comprarsi proprio BPM; non è la prima volta che UniCredit punta al Banco: l’ultima volta era stato il febbraio del 2022. Prima dell’ufficializzazione, però, c’era stata una fuga di notizie che aveva fatto impennare i titoli di BPM, aumentando a dismisura il costo dell’operazione che, quindi, era stata accantonata. Ciononostante, l’annuncio di lunedì è stato un vero e proprio fulmine a ciel sereno: UniCredit, infatti, è in ben altre faccende affaccendata.
Come abbiamo ampiamente descritto in un precedente video, l’11 settembre scorso, infatti, UniCredit ha annunciato l’acquisizione di una partecipazione del 9% della banca tedesca Commerzbank approfittando della vendita di azioni da parte del governo federale (esattamente come nel caso Monte dei Paschi); il governo tedesco ha reagito denunciando l’operazione come potenzialmente ostile e mettendo dei paletti a un eventuale ulteriore aumento della partecipazione della banca italiana. Ciononostante, pochi giorni dopo è emerso che UniCredit s’era già portata avanti: attraverso due banche d’investimento statunitensi come Barclays e Bank of America, infatti, s’è accaparrata sul mercato un altro 21% di azioni – o meglio, non esattamente di azioni, perché per comprarsi le azioni deve ottenere il via libera dalle autorità tedesche necessario per superare la soglia del 9,9%. A comprare le azioni in nome suo sono state, appunto, le banche statunitensi, che fanno da intermediario fino a quando non arriva l’autorizzazione, che però è in stand-by. Su questa partita, infatti, è iniziato un vero e proprio braccio di ferro: da una parte ci sono l’Unione europea e la BCE che, in nome del piano Draghi, spingono per l’autorizzazione; dall’altra, il governo tedesco che, legittimamente, teme che con questa operazione venga meno la missione di Commerzbank. L’istituto di Francoforte, infatti, si è caratterizzato come la banca delle piccole e medie aziende tedesche e il timore è che all’interno di un gruppo continentale più grande, indirizzato alla remunerazione dei soci tramite generosi dividendi più che al sostegno al tessuto produttivo, l’industria tedesca, già messa a dura prova, subirebbe un altro colpo mortale; un preoccupazione accentuata dal fatto che per quanto UniCredit abbia la sua sede centrale a Milano, a dettare legge, in realtà, sono proprio i mega-fondi statunitensi, con BlackRock in particolare che, nel tempo, si è consolidata come l’azionista di riferimento. Impelagata in questo pantano oltreconfine, nessuno si attendeva che UniCredit trovasse il tempo per occuparsi anche delle faccende italiane ; il punto è che l’operazione tedesca, al momento, è in stand by perché nel frattempo la Germania è stata travolta dalla crisi politica e non si muoverà foglia prima di capire il nuovo equilibrio politico che emergerà dalle elezioni anticipate al prossimo 23 febbraio.
Nel frattempo, invece, in Italia la situazione rischiava di sfuggire di mano: per quanto UniCredit sia saldamente il secondo gruppo bancario italiano per capitalizzazione, infatti, in realtà a livello di quote di mercato è piuttosto debole proprio nelle zone economicamente più dinamiche del Paese, a partire proprio dal principale motore economico dell’Italia, la Lombardia, dove ricopre un misero 6% del mercato; come dice il nome stesso, il Nord Italia in generale, ma in particolare proprio la Lombardia, è il punto di forza di BPM che nella regione, in termine di sportelli, è seconda soltanto a Intesa Sanpaolo. Insomma: sembrerebbe il partner industriale perfetto e che però, a quanto pare, rischiava di sfuggirgli per sempre; il primo azionista di BPM, infatti, sono i francesi di Crédit Agricole col 9,9% e “Stando a indiscrezioni circolate nelle sale trading di Londra” riportava ieri sul Sole 24 Ore Alessandro Graziani, sembra “abbia già derivati con le due banche d’affari USA Jefferies e JP Morgan per salire al 19%”. Insomma: non c’era tempo da perdere e, infatti, l’offerta sembra costruita in fretta e furia proprio per provare esclusivamente a congelare la partita in attesa di avere tutti gli elementi per aggiustare il titolo. UniCredit, infatti, ha offerto di comprare l’intero capitale di BPM pagandolo esclusivamente con i suoi titoli e per un corrispettivo molto basso: appena lo 0,5% in più del valore che le azioni avevano sul mercato venerdì scorso. Peccato che, nel frattempo, il valore di quelle azioni sia cresciuto di oltre 5 punti percentuali; insomma: se la vorrebbero comprare con un mega-sconto. La reazione del cda di BPM che si è riunito ieri, quindi, era del tutto scontata: un bel no secco su tutta la linea; Orcel, quindi, nell’arco di poche settimane è riuscito a diventare prima il nemico pubblico numero 1 del governo tedesco, poi di quello italiano e, alla fine, anche degli amministratori di BPM. E’ il prezzo da pagare per provare a ritagliarsi un ruolo di primo piano in questa nuova ondata di ristrutturazioni che, probabilmente, stravolgerà la finanza europea nei prossimi mesi: grazie alle faide in corso, infatti, mano a mano stanno saltando fuori tutti gli altarini.
Che dietro le quinte tutti gli attori stiano affilando le armi lo rivela un ottimo articolo di Marigia Mangano sul Sole di oggi; le operazioni sui derivati come quelle che abbiamo visto con UniCredit per Commerzbank o come quella che si sospetta abbia messo in piedi Crédit Agricole per tentare la scalata a BPM, infatti, si stanno moltiplicando: “Quote pesanti” sottolinea Mangano, “del valore di 9,3 miliardi di euro, posizionate strategicamente nelle banche al centro del riassetto ai nastri di partenza”. In soldoni, significa che ci sono potenziali investitori – dei quali spesso non conosciamo la natura – che si sono messi in arsenale le armi necessarie per provare a portare a termine numerosi blitz; uno dei più consistenti potrebbe riguardare proprio UniCredit: secondo Mangano, infatti, c’è un bel pacchetto da 4,3 miliardi di derivati sui titoli dell’istituto milanese che, da solo, vale il 7,05% delle azioni. Questo significa che “se dovesse essere destinato ad un unico investitore, ne farebbe automaticamente il primo azionista dell’istituto di piazza Gae Aulenti”; a costruire questo tesoretto c’avrebbe pensato, ancora una volta, Goldman Sachs. Come sempre, Goldman Sachs ne avrebbe costruito un altro che vale il 6,5% di Intesa Sanpaolo; un altro pacchetto mette insieme il 5,4% delle quote proprio di MPS, più delle azioni acquistate dal governo da BPM e, anche a questo giro, a gestire la partita è una banca d’investimento USA: Barclays. Ad alimentare tutto questo attivismo, ovviamente, ci sono le decine e decine di miliardi di extra-profitti che le banche hanno accumulato in questi ultimi anni di tassi d’interesse alle stelle (che i governi si sono visti bene di tassare); insomma: con i nostri soldi gli hanno riempito gli arsenali che ora, necessariamente, devono essere impiegati per ridisegnare l’intera mappa della finanza italiana ed europea. Una rivoluzione che, alla fine del giro, rischia di servire a poco; ammesso e non concesso che tutto questo serva, in qualche modo, a ridurre il gap tra le dimensioni degli attori finanziari europei e quelli d’oltreoceano e che questo (potenzialmente) aiuti a trattenere finalmente una quota maggiore dei nostri risparmi entro i nostri confini, il vero quesito è: cosa ci dovremmo mai fare con questi quattrini? Perché se è assolutamente vero che una fetta consistente del problema sono proprio i capitali che fuggono e ci levano le risorse necessarie per fare gli investimenti – ammesso e non concesso che si riesca a intervenire su questo versante – poi il punto che rimane comunque è: ma chi diavolo le dovrebbe comprare le cose che produci grazie a quegli investimenti? Con Russia e Cina, sotto diktat di Washington hai deciso di dichiarare una guerra commerciale; gli USA di Trump si apprestano a introdurre nuovi dazi e tariffe e la domanda interna hai deciso di continuare a deprimerla con il ritorno dell’austerity e delle misure lacrime e sangue. Mi sembra difficile che costringere le persone a risparmiare ancora di più perché gli tagli ulteriormente lo stato sociale sia la strada giusta per uscire da questo collo di bottiglia (anche nella remota ipotesi che quei risparmi tu riesca a trattenerli più che in passato); l’unica risposta sensata che mi viene in mente è che mentre negli USA – prima Biden e, ora, Trump – pensano a Make America Great Again e alla re-industrializzazione, tutto questo rumore in Europa, in realtà, sia funzionale esclusivamente a cercare di costruire anche da noi una nostra bolla speculativa completamente scollegata dall’economia reale che ci sta sotto, esattamente come hanno fatto – in particolare negli ultimi 15 anni – negli USA. A meno che, invece di limitarci a osservare gli oligarchi mentre tessono le loro trame, non decidiamo (finalmente) di riprenderci in mano il nostro destino; nella Germania che si appresta a tornare alle urne, i lavoratori guidati dall’IG Metall, il più grande sindacato tedesco, e dagli operai della Volkswagen sono determinati a dare battaglia affinché la contesa elettorale si giochi tutta attorno a proposte concrete per mettere fine al declino industriale, a partire anche da risposte ragionevoli sul percorso necessario per tornare ad avere energia russa a basso costo e rapporti commerciali costruttivi col colosso cinese. In Italia CGIL e UIL, con il solito ammutinamento da parte della CISL, hanno convocato uno sciopero generale di 24 ore, dalle 21 di giovedì 28 novembre alle 21 di venerdì 29: come Ottolina Tv, come sempre – al netto di tutte le critiche possibili immaginabili – ci saremo, nella convinzione che chi lavora o si salva da solo o non saranno certo né le banche d’investimento né il piano Draghi a risolvere i problemi per lui. Vi aspettiamo venerdì con la nostra maratona sciopero generale. E se anche tu sei stanco degli youtuber da salotto e pensi che l’informazione che ci serve è quella che sta al fianco delle lotte, faccelo sapere con qualche eurino: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
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