L’America Latina alle prese con il “neoliberismo sovranista” di Trump – Intervista a Álvaro García Linera
DA LA FIONDA (Di Redazione)
La presente intervista è stata pubblicata sul sito del media francese “Le Vent Se Lève” ed è stata realizzata da Vincent Ortiz e Vincent Arpoulet.
Si ringraziano Le Vent Se Lève e gli autori per aver permesso la pubblicazione sul sito de La Fionda.
Per la versione originale si rimanda a questa pagina.
La traduzione in italiano è a cura di Paolo Cornetti.
Ex vicepresidente della Bolivia, Álvaro García Linera ha governato il Paese a fianco di Evo Morales per tredici anni (2006-2019). Teorico politico, è autore di un’opera di ispirazione marxista incentrata sull’emancipazione indigena. In questa intervista analizza le sfide che attendono l’America Latina dopo la rielezione di Donald Trump. Álvaro García Linera ritiene che, malgrado le dichiarazioni di isolazionismo, la pressione imperialista potrebbe aumentare sul subcontinente: in un momento di deglobalizzazione e di regionalizzazione delle catene del valore, l’America Latina sta tornando a essere un fornitore chiave di materie prime per gli Stati Uniti. L’autore si schiera a favore dell’integrazione regionale, con l’obiettivo di aiutare la regione a emergere come polo indipendente. E ripercorre i processi progressisti dell’America Latina di cui è stato uno dei protagonisti.
LVSL (intervistatori) – In che modo analizzi la vittoria di Trump? E quali saranno le sue implicazioni sull’America Latina?
Álvaro García Linera – La vittoria di Trump era prevedibile. In un periodo di crisi economica, di transizione da un regime di accumulazione e di dominazione verso un altro, le posizioni centriste diventano insostenibili. Il centrosinistra e il centrodestra appaiono alle persone come parte del problema.
Nei tempi di crisi come questo si vive di momenti pieni di instabilità: le élite si frammentano, il centro scompare e le posizioni radicali emergono. Trump, da destra, incarna il nuovo spirito dell’epoca.
Quest’epoca è segnata da un declino generale del globalismo e Trump rappresenta una combinazione tra il protezionismo come reazione al globalismo e il recupero delle aspirazioni sovraniste di fronte alla globalizzazione, ma sotto una forma politicamente malsana.
Questo percorso ambiguo, ibrido, anfibio del “neoliberismo sovranista” sta cominciando a venire sperimentato in alcune parti del mondo, si pensi a Giorgia Meloni in Italia, a Viktor Orban in Ungheria o a Jair Bolsonaro in Brasile.
Ma che cos’è questo “neoliberismo sovranista”? È un tentativo di uscire dalla crisi del globalismo neoliberista.
E cosa significherà per l’America Latina? Il subcontinente si troverà invischiato nella disputa tra una Cina in espansione, che si affida alle catene globali del valore, e gli Stati Uniti in contrazione, che hanno bisogno di regionalizzare le proprie catene del valore.
L’America Latina è già legata alla Cina da catene globali del valore, ma gli Stati Uniti vogliono integrarla nella loro sfera di influenza regionale.
La Cina è avvantaggiata perché ha il denaro per investire, mentre gli Stati Uniti ne sono privi.
Di fronte a questa mancanza di risorse, possiamo aspettarci che gli Stati Uniti scelgano la via della forza per imporre questa regionalizzazione delle catene del valore.
LVSL – Il nome di Marco Rubio, nominato Segretario di Stato da Donald Trump, compare in registrazioni audio legate al golpe del 2019 in Bolivia [senatore repubblicano di origine cubana, Rubio è noto per la sua ostilità viscerale alla sinistra latino-americana (ndr)]. Viene citato come intermediario tra i golpisti boliviani e le lobby americane. Come interpreta la sua nomina a Segretario di Stato? Prevede una svolta interventista o una politica di continuità con i Democratici?
Linera – Non ci sarà continuità. I Democratici hanno incarnato i resti del vecchio globalismo, nonostante le ovvie decisioni sovraniste come l’aumento dei dazi. Trump, invece, ha una proposta chiara: un nuovo modello economico per gli Stati Uniti, selvaggiamente capitalista, che prevede un nuovo regime di accumulazione. L’America Latina gioca un ruolo importante in questo modello per via della sua vicinanza geografica.
Se c’è un luogo che deve diventare un sostituto delle importazioni, un luogo su cui le catene del valore possono fare affidamento, è il subcontinente latino-americano. Questa tensione sarà incanalata attraverso i flussi finanziari o l’utilizzo dei manganelli? Visti i numerosi problemi economici che gli Stati Uniti devono affrontare, non possono competere con la Cina in termini di flussi finanziari. Non si può competere con le centinaia di miliardi di dollari che la Cina investe per garantirsi l’accesso alle materie prime nella regione.
Credo che gli Stati Uniti cercheranno di compensare il loro deficit finanziario nelle relazioni con l’America Latina esacerbando il loro interventismo. L’obiettivo sarà quello di imporre una “Via della Seta nordamericana” autoritaria e militarizzata, in contrapposizione alle “Nuove Vie della Seta” cinesi, basate invece su investimenti, infrastrutture e credito.
Marco Rubio non è un elemento essenziale: siamo di fronte a un cambiamento del regime di accumulazione, che si sta regionalizzando. L’America Latina, un tempo considerata insignificante nell’epoca del globalismo trionfante, sta tornando a essere una zona ambita.
Stiamo assistendo a un tentativo di ripristinare la retorica della “guerra alla droga”, che è sempre stata un cavallo di Troia per nascondere il vero intento, cioè l’interventismo americano [la “guerra alla droga” si riferisce alle campagne contro il narcotraffico che si sono svolte in America a partire dagli anni ’80, spesso dirette dalla Drug Enforcement Administration (DEA) americana (ndr.)].
Oggi coesistono due modelli: Paesi come la Colombia e il Messico hanno abbandonato i metodi coercitivi a favore di un approccio strutturale per affrontare le cause del narcotraffico. L’Ecuador, invece, ha ripreso la sua “guerra alla droga” con metodi repressivi tradizionali sotto la presidenza di Daniel Noboa. Egli è stato applaudito dagli Stati Uniti, per un’ottima ragione: la “guerra alla droga” apre loro le porte dell’Ecuador. Il governo di Noboa si è esplicitamente attivato per consentire il ritorno delle basi militari statunitensi nel Paese. Tuttavia, questo tentativo di rilanciare la “guerra alla droga” rischia di essere limitato.
Al suo apice, la “guerra alla droga” americana aveva due obiettivi principali: esercitare una forma di controllo territoriale attraverso basi militari (Ecuador, Colombia, Bolivia) e una costante presenza di polizia; e in secondo luogo, limitare l’ingresso della droga nel mercato nordamericano. Il sistema è però cambiato nell’ultimo decennio: la droga prodotta in America Latina ora è destinata principalmente al mercato europeo. Questo ha ridotto l’urgenza della lotta statunitense al narcotraffico in America Latina. Con il “Piano Colombia” gli Stati Uniti avevano investito un miliardo di dollari e in Bolivia un centinaio di milioni di dollari. Oggi questi importi si sono ridotti a pochi milioni.
Ai fini del controllo politico-militare, questo discorso potrebbe essere riproposto, ma non godrebbe più della stessa legittimità presso l’elettorato americano, la cui preoccupazione non è più la cocaina latino-americana, ma le fabbriche di fentanyl che si trovano negli stessi Stati Uniti. Non credo quindi che tornerà ad essere una questione centrale.
Come ha suggerito il capo del Comando Sud, sarà la stessa presenza cinese a giustificare il ritorno degli Stati Uniti. Ad esempio, alcuni parlano del porto di Chancay, costruito in Perù dalla Cina, come possibile punto di ingresso per le navi militari cinesi. Un’idea ridicola, ma che potrebbe essere utilizzata in maniera strumentale. Penso che la lotta contro la presenza cinese verrà sbandierata come un imperativo di sicurezza nazionale.
In realtà, si tratta semplicemente di una lotta per il controllo delle catene del valore. La transizione energetica richiederà molte materie prime. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia degli Stati Uniti, tra il 2025 e il 2050, i volumi di materie prime strategiche dovranno essere moltiplicati per dieci o dodici per garantire questa transizione. Gran parte di queste risorse si trovano in Africa e in America Latina e le due maggiori potenze mondiali stanno cercando di accedervi.
Il resto sono chiacchiere.
Da questo punto di vista, la Cina è in vantaggio. Negli ultimi vent’anni è stata molto più astuta, investendo senza imporre condizioni e sviluppando infrastrutture stradali e portuali, mentre gli Stati Uniti, dando per scontato il fatto che l’America Latina fosse sotto il loro controllo, non hanno investito nulla e ora si trovano in una posizione di debolezza economica. Per colmare questa carenza sarebbero necessari investimenti massicci, dell’ordine di diverse centinaia di miliardi di dollari. Se gli Stati Uniti non sono disposti a impegnare tali risorse, cercheranno di compensare con misure coercitive: interventi, pressioni, ricatti, presenza militare e di polizia, ecc.
Nel 2019, l’amministrazione statunitense ha sostenuto un colpo di Stato in Bolivia. Gli ufficiali che si sono ribellati avevano legami con il Dipartimento di Stato. Claver Carone, un funzionario del Dipartimento di Stato, è intervenuto direttamente per supervisionare i militari nella loro azione golpista. Azioni di questo tipo potrebbero moltiplicarsi in America Latina, con gli Stati Uniti che sostituiscono gli investimenti con azioni coercitive e una maggiore presenza dei loro corpi di polizia.
LVSL – Di fronte a queste tensioni in America Latina, la sinistra sostiene la cooperazione regionale. Come si concretizzerà e come reagirà al declino della globalizzazione neoliberista?
Linera – In questa lotta tra titani, ogni Paese latino-americano, preso singolarmente, è insignificante – una formica di fronte a un elefante. Ma se queste piccole voci si uniscono, la voce del subcontinente si farà sentire. Ciò richiede meccanismi di integrazione fondamentali. Possiamo sognare l’unificazione nazionale dell’America Latina, ma non sarebbe realistico a breve termine. Quello che possiamo prevedere sono accordi regionali basati su grandi temi: negoziati commerciali, giustizia ambientale, fiscalità, ecc. Questi accordi tematici, concreti e meno fumosi, permetterebbero all’America Latina di parlare con una forza maggiore nei confronti delle grandi potenze.
Questa integrazione deve essere sostenuta da risorse che consentano la creazione di infrastrutture comuni e il superamento di alcune disuguaglianze. Il problema è proprio questo: poche risorse sono state messe a disposizione per l’integrazione e le infrastrutture.
Di fronte all’arretramento del globalismo, l’America Latina ha mostrato un percorso alternativo, con l’arrivo al potere di governi progressisti. Le loro riforme, spesso non molto radicali, hanno comunque segnato una rottura nel modo in cui lo Stato interviene nella distribuzione, nella protezione del mercato interno e nell’estensione dei diritti. Se guardiamo agli attuali dibattiti negli Stati Uniti e in Europa sulle politiche industriali, sulla sovranità energetica e agricola o sulla protezione di alcune industrie strategiche, si tratta di discussioni che l’America Latina ha già affrontato 20 anni fa.
LVSL – Dopo la prima ondata di progressismo degli anni Duemila [segnata dalle presidenze di Hugo Chavez, Evo Morales, Rafael Correa e dei Kirchner (N.d.T.)], la sinistra sta tornando a vincere in alcuni Paesi- in Messico, per esempio, dove è stata eletta trionfalmente Claudia Sheinbaum. Come vede questa seconda ondata?
Linera – È corretto parlare di due ondate progressiste. Il Messico, che arriva in questa fase dopo gli altri Paesi latino-americani, ha il vantaggio di potersi basare sull’esperienza accumulata dagli altri che gli permetterà di beneficiare di un maggiore slancio. Tuttavia, dobbiamo rimanere vigili: i sintomi dei limiti del progressismo latino-americano cominceranno a manifestarsi, come è già successo in Brasile, Argentina, Bolivia e Uruguay. Il Messico è attualmente in una fase di ascesa, ma è proprio nel momento del successo che le esperienze progressiste possono scontrarsi con i loro limiti.
In Bolivia, il progressismo ha avuto successo, facendo uscire dalla povertà il 30% della popolazione, ridistribuendo la ricchezza e dando potere alle popolazioni indigene. Ma questo successo ha anche evidenziato dei limiti: una volta raggiunto un obiettivo, questo può svuotarsi di significato. La società si evolve, le esigenze cambiano e le strutture sociali si trasformano. Quindi, per continuare a fare progressi, dobbiamo introdurre riforme di seconda generazione.
Il problema che si pone attualmente all’America Latina è che, dopo il relativo successo delle riforme di prima generazione, il loro slancio si è fermato. Il sistema di ridistribuzione della ricchezza e l’intervento dello Stato nel mercato interno hanno dato i loro frutti, ma ora dobbiamo reinventare il modo in cui produciamo ricchezza. L’America Latina, ad esempio, ha ereditato un modello estrattivista. Invece di lasciare che i profitti vadano all’estero, siamo riusciti a reintegrarli nelle nostre economie, internalizzando i profitti per finanziare la giustizia sociale e l’estensione dei diritti.
Tuttavia, questo sistema diventa vulnerabile quando le materie prime, come il petrolio o il litio, perdono valore. Ciò solleva la questione della sua sostenibilità. Per garantire che la ridistribuzione della ricchezza non dipenda più dalle fluttuazioni del mercato, dobbiamo creare un nuovo modello di produzione che sia meno dipendente dal prezzo mondiale delle materie prime. Si tratta di una riforma di seconda generazione, che non si limiti a cambiare la distribuzione della ricchezza, ma che possa trasformare il sistema produttivo.
LVSL – Quali strumenti si possono utilizzare per compiere questi passi?
Linera – Per realizzare queste riforme, dobbiamo rivedere il sistema fiscale. Quando i prezzi delle materie prime erano alti, non c’era bisogno di riforme fiscali di vasta portata, perché le eccedenze commerciali consentivano di finanziare la redistribuzione. Oggi la situazione è cambiata. Pochi Paesi hanno introdotto riforme fiscali progressive, come la Bolivia, che ha cercato di introdurre un sistema più equo. Affinché il progressismo possa durare, è fondamentale introdurre riforme che prevedano una maggiore tassazione delle grandi ricchezze.
Dobbiamo anche introdurre politiche ambientali più ambiziose. Nelle riforme di prima generazione avevamo bisogno di risorse immediate, mentre ora è fondamentale sviluppare politiche ambientali più severe per garantire la sostenibilità a lungo termine del modello economico.
Le presidenze di Gustavo Petro in Colombia e di Claudia Sheinbaum in Messico potranno dare vita a un ibrido di riforme di prima e seconda generazione. Ma c’è un rischio: tutto dipenderà dalla lucidità dei movimenti progressisti e dal coraggio dei loro dirigenti. In tempi di crisi, serve un capro espiatorio, qualcuno a cui dare la colpa. La strategia di Kamala Harris di promuovere il consenso e l’unità è fallita. Questo tipo di retorica ha senso in un periodo di stabilità, ma in tempi di crisi bisogna puntare il dito: contro l’oligarchia, la casta, gli ultra-ricchi.
Dobbiamo trovare un avversario con cui confrontarci.
LVSL – Tra i leader della destra latino-americana è Javier Milei quello che più chiaramente afferma di proporre un modello alternativo. Cosa pensa dei primi mesi della sua presidenza?
Non direi che la politica economica di Javier Milei sia stata un fallimento, anche se ha avuto un costo sociale considerevole. Sul breve termine è riuscito a ridurre l’inflazione, ma a costo di una recessione, di licenziamenti e della distruzione dell’industria locale. Ora si trova in una situazione paradossale: sebbene sia riuscito a domare l’inflazione, ciò non durerà, anche perché i dollari non arrivano. Il Fondo Monetario Internazionale non ha fornito alcun sostegno significativo e, sebbene le principali aziende argentine abbiano investito in strategie finanziarie all’estero, i risultati economici a lungo termine sono probabilmente insostenibili.
Ciò che rende complicata la vittoria provvisoria di Milei per la sinistra è che, da parte dell’opposizione, non esiste una vera e propria controproposta. Quando si chiede a qualcuno come risolvere il problema dell’inflazione, tutti tacciono. La mancanza di un’alternativa permette a Milei di mantenere una certa legittimità, nonostante la natura distruttiva delle sue misure.
LVSL – In Bolivia la sinistra si sta spaccando. L’ex presidente Evo Morales e l’attuale Capo di Stato Luis Arce sono impegnati in una lotta fratricida. Come vede la situazione?
Linera – Quella a cui stiamo assistendo in Bolivia è una lotta tra due personalità che esprime qualcosa di più profondo: la transizione dalla prima alla seconda ondata progressista. Questa lotta è sintomatica del declino dell’efficacia delle riforme.
Le discussioni all’interno del partito MAS non vertono su questo aspetto, ma sul candidato per le prossime elezioni presidenziali. Ciò rivela un altro limite, ovvero la natura fortemente personalistica del processo progressista boliviano. Evo Morales incarna una leadership indigena e dobbiamo ricordare che lo Stato plurinazionale è merito dei popoli indigeni. Ma sarà sempre così? O i popoli indigeni subiranno una sorta di espropriazione da parte delle classi medie creole?
La terza questione è come passare da una leadership carismatica a una leadership più ordinaria. Nessuno ha ancora trovato la soluzione. Non ha funzionato in Bolivia, Argentina, Ecuador e, in parte, nemmeno in Brasile, dove Dilma Rousseff sembra essere stata una semplice parentesi prima del ritorno di Lula.
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