Iran. Il silenzio strategico del mondo arabo
di TERMOMETRO GEOPOLITICO (Giuseppe Gagliano)
Nel cuore di un Medio Oriente di nuovo sull’orlo del precipizio, mentre Israele e Iran si scambiano colpi durissimi e le cancellerie internazionali si limitano a invocare generiche “de-escalation”, i principali Paesi arabi scelgono una postura di apparente neutralità. Ma dietro questo silenzio si cela un calcolo strategico lucidissimo: evitare che il conflitto si estenda oltre i confini già fragili dell’attuale confronto e risparmiare alla regione un’altra spirale di destabilizzazione sistemica.
Non è una scelta dettata da passività o indifferenza. È al contrario una forma di realismo politico fondato sull’esperienza diretta del disastro. L’invasione dell’Iraq nel 2003 e il successivo crollo dello Stato iracheno sono ancora vivi nella memoria delle monarchie del Golfo e delle repubbliche conservatrici che, allora come oggi, temono che il collasso di un regime, per quanto ostile, possa aprire le porte a un vuoto di potere ben più pericoloso.
L’Arabia Saudita, il Qatar e l’Oman, tre attori con posizioni diverse ma tutti coinvolti nel quadro regionale, hanno mantenuto nelle ultime settimane un profilo basso ma attivo, cercando di mediare in silenzio, esercitando pressioni indirette su Washington, ma soprattutto evitando qualunque segnale che possa essere interpretato come un sostegno a una guerra di regime contro Teheran. Anche nei casi in cui la retorica ufficiale condanna le violenze o denuncia i missili iraniani, l’atteggiamento reale resta uno solo: non spingere la Repubblica Islamica verso il baratro, perché nessuno è in grado di controllare ciò che accadrebbe dopo.
Questo atteggiamento si scontra frontalmente con la visione israeliana attuale, incarnata da Benjamin Netanyahu e da parte dell’establishment militare di Tel Aviv, secondo cui il conflitto con l’Iran può essere risolto solo con la rimozione fisica della Guida Suprema, Ali Khamenei. Una lettura radicale e assoluta, che si rifà alla logica del “regime change” degli anni Duemila, quando l’amministrazione Bush sognava di esportare la democrazia a Baghdad, Damasco e Teheran con le armi e il sostegno delle élite liberali occidentali.
Ma quella stagione è finita. Anche a Washington. Gli Stati Uniti, pur restando presenti nel Golfo e alleati storici di Israele, non mostrano alcuna intenzione di tornare al ruolo di gendarme del Medio Oriente. La dottrina del disimpegno, iniziata sotto Obama e mai davvero abbandonata, si è rafforzata con il riorientamento strategico verso l’Indo-Pacifico e la Cina. Le guerre infinite non sono più sostenibili politicamente né economicamente, e il pubblico americano non tollererebbe un nuovo intervento militare di larga scala.
In questo contesto, la prudenza dei Paesi arabi non è debolezza, ma capacità di leggere il vuoto. Vuoto di leadership internazionale, vuoto di coesione diplomatica, vuoto di strategia condivisa. E proprio per questo, si gioca tutto sulla difesa della stabilità: mantenere i propri confini al riparo dal caos, proteggere gli interessi economici e commerciali, e impedire che un cambio violento a Teheran scateni nuove guerre per procura in Siria, in Iraq, in Libano e nello Yemen.
La loro è una realpolitik radicale: nessun entusiasmo per il regime iraniano, ma anche nessuna illusione sulla capacità dell’Occidente o di Israele di “riformare” il Medio Oriente con la forza. In pubblico, si sostiene la causa palestinese e si condanna l’uso della forza. In privato, si lavora per contenere l’impatto degli scontri, si tengono aperti i canali con Washington e si cerca, soprattutto, di evitare che Israele trascini tutta la regione in un conflitto più grande, spinto dalla convinzione che solo la caduta dell’Iran garantirebbe la sicurezza di Israele.
Ma quella convinzione è pericolosa quanto utopica. L’Iran, anche colpito duramente, è un sistema articolato, resiliente, con radici profonde in tutte le dinamiche di sicurezza della regione. La sua caduta non sarebbe una “vittoria”, ma l’inizio di un nuovo ciclo di frammentazione, faide interne, milizie fuori controllo e nuove guerre settarie.
Ecco perché i Paesi arabi non parteggiano apertamente, non applaudono, non incitano. Al contrario, temono che un errore. un’escalation mal calcolata, un assassinio mirato fuori misura, un’esplosione politica a Teheran. possa scatenare un effetto domino ingestibile.
In un Medio Oriente dove il rumore delle armi ha preso il posto della diplomazia, il silenzio calcolato del mondo arabo è forse l’ultima voce di ragione. Non per difendere l’Iran, ma per difendere sé stessi.
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