Oltre la zona grigia del terrore e dei gulag. Una storia da rifare
Una riflessione su Stalin, sui concetti di tiranno e di capo carismatico e sui rapporti di amore e odio che legano gli avversari al tiranno o al capo carismatico; la riflessione aspira a suggerire criteri con i quali osservare e giudicare l'attuale situazione politica italiana (SD'A)
di Luigi Cavallaro
Fonte Il Manifesto
La storiografia sullo stalinismo ha sempre sottolineato la repressione che lo ha contraddistinto, rimuovendo il fatto che è stato un sistema di potere cresciuto sulle contraddizioni della Rivoluzione d’Ottobre, incontrando così il consenso di una parte considerevole della popolazione sovietica.
Il 21 dicembre 1929, grandi celebrazioni pubbliche salutarono il cinquantesimo compleanno di Stalin. L’egemonia conquistata negli anni precedenti nel gruppo dirigente bolscevico fu esaltata da articoli celebrativi su tutti i giornali di partito, uno dei quali intitolato significativamente Za rukovodstvo («Per la leadership»). Si ricordarono i suoi saldi legami con Lenin e si sottolineò il contributo decisivo apportato alla dottrina marxista con i Principi del leninismo, che egli aveva redatto nel 1924 e dedicato alla giovane «leva leninista», allora in procinto di entrare in massa nelle file del partito.
Stalin ringraziò, ma ribadì di essere solo un discepolo di Lenin, figlio di un partito che intendeva continuare a servire nel segno della «grande svolta» annunciata poco prima, per il dodicesimo anniversario dell’Ottobre. Quell’anno, in effetti, era stato decisivo nell’offensiva lanciata fin dal 1927 allo scopo di liquidare progressivamente i compromessi realizzati durante la Nep con i contadini, gli «specialisti», i sindacati, le nazionalità e il partito stesso, in modo da poter finalmente impiegare l’apparato statale per conformare la produzione e riproduzione sociale ai desiderata del piano.
Furono celebrazioni che restarono abbastanza nel solco della tradizionale sobrietà comunista: di Stalin si esaltò il suo essere un uomo semplice, rude, fraterno. Ma segnarono l’avvio di un processo di canonizzazione che avrebbe toccato vette stupefacenti nei due decenni successivi, in cui Stalin – oltre ad essere rappresentato in innumerevoli gigantografie, statue e ritratti che adornavano le piazze, gli uffici e le case dei sovietici – fu progressivamente gratificato di appellativi come «padre dei popoli», «corifeo della scienza», «bolscevico di granito», «macchinista della locomotiva della storia». Ovvero, e più semplicemente, «l’uomo che amiamo di più».
L’amore per il capo.
Già, perché sarebbe fuorviante sottovalutare o peggio misconoscere che Stalin fu amato: talmente amato che l’annuncio della sua morte, il 6 marzo 1953, suscitò in tutta l’Urss lutto, sgomento e lacrime. Ancor più fuorviante sarebbe supporre che questo straordinario «amore» si dovesse all’efficienza della propaganda e al terrore degli apparati polizieschi: al contrario, bisogna riconoscere che, se lo stato sovietico riuscì a radicarsi nella società sovietica e a coinvolgere nelle sue strutture milioni di cittadini, rendendoli testimoni silenziosi o collaboratori attivi del suo sistema, non fu per colpa o merito della polizia politica, ma – come ha scritto lo storico Michail Jakovlevic Gefter – per via dello «stalinismo insinuatosi dentro ognuno di noi».
Prendendo a prestito la terminologia di Lacan, si potrebbe dire che in Stalin si personificò – e per motivi che sono ancora tutti da scrivere – il meccanismo dell’ordine simbolico espresso dal «grande Altro» in quel tempo in cui la costituzione non scritta della società sovietica virava in direzione della pianificazione. E in effetti, ricordando il giudizio iniziale di quanti fra i suoi compagni non riuscirono a trovare in Stalin alcun tratto distintivo degno di nota, Edward H. Carr notò che si trattava di un fatto assolutamente comprensibile: «pochi grandi uomini sono stati così visibilmente come Stalin il prodotto del tempo e del luogo in cui vissero», un tempo in cui – come avrebbe poi ricordato lo scrittore (e stalinista) Konstantin Simonov – «obbedienza e coscienziosità, disponibilità a superare qualsiasi difficoltà, l’obbligo a dire sì o no, ad amare in modo intenso e a odiare nello stesso modo» erano i valori all’insegna dei quali si formavano le nuove generazioni.
In nome del partito
Si capisce allora come Charles Bettelheim, in quell’incompiuto monumento alle contraddizioni dell’Ottobre che furono (e tuttora sono) Le lotte di classe in Urss, abbia potuto scrivere che Stalin si limitò ad esprimere in modo sistematico i punti di vista di tutto il gruppo dirigente del partito bolscevico, inclusi i suoi oppositori, e perfino quando gli occorse (letteralmente) di passar sopra le loro teste non fece altro che trarre le conseguenze ultime di quei punti di vista: caso mai, è proprio questa «volontà di andare fino in fondo» che apparentemente pose Stalin «al di sopra» del partito e fece apparire come «sue» concezioni che (salvo rare eccezioni) non erano affatto sue personali.
Del resto, bisognerà pur intendersi su cosa sia una «tirannide». Una volta, Alexandre Kojève irrise quanti supponevano trattarsi di un potere personale basato sul terrore: il terrore puro presuppone in ultima analisi la sola forza fisica, e con la sola forza fisica «un uomo può dominare dei fanciulli, dei vecchi e qualche donna, ma non può imporsi a lungo su un gruppo, sia pure poco numeroso, di uomini robusti». Proprio per ciò, l’autorità di un capo di stato doveva a suo avviso poggiare su qualcos’altro che sulla sola forza: doveva pur esserci di mezzo un «riconoscimento» di quell’autorità che proveniva da una parte significativa della popolazione.
Kojève coerentemente suggeriva di riservare il termine «tirannide» a quei casi in cui il pubblico potere è utilizzato da una parte della popolazione (non importa se maggioritaria o minoritaria) per imporre alla restante parte le proprie idee e la propria forma di vita: «è chiaro che possono farlo solo con la “forza” o il “terrore”, giocando in ultima analisi sulla paura della morte violenta che possono infliggere agli altri». In questo senso non può essere dubbio che il sistema di potere usualmente denominato «stalinismo» sia stato una forma di tirannide; bisognerebbe però aggiungere che ogni rivoluzione dà luogo ad una «tirannide», come in genere ogni forma di potere che si proponga di conseguire i suoi obiettivi senza concedere alcuna forma di compromesso ai suoi oppositori. Tutto sommato, Stalin non avrebbe avuto bisogno di scatenare la «lotta di classe» contro i kulak se costoro avessero «spontaneamente» acconsentito a entrare in massa nei kolchoz.
Non è questo però che qui preme evidenziare. Si deve piuttosto rimarcare che il limite degli oppositori di Stalin consistette proprio nel rifiuto delle necessarie implicazioni di un discorso che pure, nelle sue premesse, condividevano. La supremazia della pianificazione sulle varie forme di autorganizzazione economica, la necessità di sciogliere l’ambiguità nascosta dal consenso contadino alla rivoluzione socialista e la disponibilità a farlo anche con l’uso della forza erano, alla morte di Lenin, convincimenti comuni a tutto il gruppo dirigente bolscevico, benché se ne traessero conseguenze divergenti quanto al «che fare». E se nel corso della famosa discussione sulla «rivoluzione permanente» e il «socialismo in un solo paese» (1924-1926) Stalin riuscì a sbaragliare tanto la «destra» di Bucharin quanto la «sinistra» di Trockij fu proprio e solo per aver risolto l’equazione lasciata in eredità da Lenin nell’unico modo possibile. Era questa, in effetti, la peculiarità della logica staliniana, come osservò Franz Marek: «semplice, cogente e convincente, una volta che si fosse accettata la premessa».
Tanto drammaticamente semplice e cogente era la conclusione che i suoi oppositori non riuscirono mai a concepire una credibile alternativa e si ridussero semplicemente a odiarlo, accusandolo di «degenerazione» e «tradimento» e finendo così per subire passivamente quella stessa «autorità eccezionale» (giusta ancora l’espressione di Bettelheim) che egli era in grado di conferire alle decisioni cui dava il suo appoggio. La vicenda del «testamento di Lenin», sotto questo profilo, è esemplare: per ben due volte, tra il ‘24 e il ‘25, Stalin rimise il mandato di segretario generale del partito nelle mani del Comitato centrale, specie dopo che era stata letta la famosa lettera in cui Lenin, ormai alla fine, lo definiva «rozzo» (grub) e manifestava perplessità sulla sua capacità di gestire in modo non burocratico il considerevole potere conferitogli da quella carica, ed entrambe le volte il Comitato centrale – inclusi Zinovev, Kamenev e, in un caso, Trockij – respinse le sue dimissioni.
«Queste azioni coatte in due tempi, in cui il primo tempo è annullato dal secondo, si verificano tipicamente nella nevrosi ossessiva», aveva spiegato alcuni anni prima Freud nell’Uomo dei topi (1909): e in effetti il comportamento degli oppositori di Stalin sembra riprodurre quello stesso conflitto fra opposti sentimenti che produce la paralisi della volontà dei nevrotici, presi in trappola da un «odio» che non è riuscito a spegnere l’«amore» ma l’ha solo respinto nell’inconscio, dove pure, al riparo dall’azione demolitrice della coscienza, esso può vivere e perfino accrescersi.
Il principio del piacere
Del resto, se appena si considera quanto la strategia della collettivizzazione forzata e della «dekulakizzazione» dovesse alle teoria dell’«accumulazione originaria socialista» del trockista Preobrazenskij o quanto il convincimento circa la possibilità di costruire «il socialismo in un solo paese» fosse debitore delle critiche buchariniane alla versione trockista della «rivoluzione permanente», si può facilmente comprendere come il dubbio fosse la cifra prevalente del loro atteggiamento: dal conflitto tra due sentimenti così radicalmente antitetici non poteva venire che un freno a qualsiasi prospettiva d’azione.
In questo senso Stalin diventò, letteralmente, la loro ossessione. Il «pensiero» di organizzare un’opposizione capace di scalzarlo dal potere finì per tener luogo di un’azione politicamente idonea allo scopo, e ciò – si badi bene – ben prima che si esaurissero i suoi margini di possibilità: per quanto la storiografia sia ancora divisa sul momento in cui il potere del gruppo dirigente staliniano pervenne ad una relativa stabilizzazione, sembra davvero arduo retrodatarlo (come taluni hanno proposto) addirittura al 1925, quando i giochi erano ancora lungi dall’essersi conclusi.
Se ne possono trarre lezioni per l’oggi, in cui il «grande Altro» non prescrive più amore e soggezione per il comando politico ma – come Lacan aveva avvertito fin dai primi anni ‘70 – ripete oscenamente «Godi!» ad una società essenzialmente anarchica e sempre più ripiegata nella contemplazione narcisistica di se stessa? Ripensando alle forme e ai modi in cui va in scena lo «scontro» fra Silvio Berlusconi e l’opposizione capeggiata dal Partito democratico saremmo tentati di rispondere di sì, ma non possiamo argomentarlo in questa sede.
C’è spazio qui solo per ricordare che poco più di trent’anni fa, in un lucido libretto dedicato all’analisi del «modello di Stalin», Rita di Leo ebbe a chiedersi se «l’elaborazione di una teoria politica sulla base del rigetto del socialismo realizzato da Stalin» fosse davvero «una proposta politica accettabile», o non menasse inevitabilmente «a una serie lunga e inaspettata di rifiuti, che vanno da Lenin a Engels, a Marx e arrivano a Hegel e Rousseau». Non era una domanda peregrina, come i fatti avrebbero poi dimostrato: per comprendere il successo della vittoriosa sortita staliniana dall’impasse in cui si trovò la Nep sul finire degli anni ‘20 sarebbe stato in effetti necessario «studiare lo stalinismo come un sistema di potere e non come la degenerazione del socialismo di Marx e Lenin», mettendo al centro dell’analisi «il partito bolscevico e lo Stato sovietico e non le purghe e i campi di concentramento».
Sfortunatamente, la storiografia ha fin qui mancato l’appuntamento. Quanto all’analisi politica di ispirazione marxista, o sedicente tale, per molto tempo ha trovato consolante cullarsi in un’accezione ideale (cioè ideologica) del «comunismo», piuttosto che sforzarsi di comprendere che problemi di democrazia potevano sorgere anche in sistemi comunisti, e oggi pare acquietata alla moda corrente di negare che fra democrazia e comunismo possano darsi parentele di sorta. Un altro discorso? No, proprio il discorso del «grande Altro».
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