Il modello Milano: i giannizzeri del Capitale
di FERDINANDO PASTORE (Pagina FB)
La dimensione globale dell’economia si è sempre rispecchiata nell’esaltazione del processo di localizzazione della decisione politica. Al flusso di denaro senza più barriere corrispose la volontà, tutta progressista, di verticalizzare l’impianto istituzionale degli enti locali con la formazione di un nuovo corpo nobiliare: quello dei super sindaci e dei mega governatori delle Regioni.
Uomini soli al comando in grado di “scegliere la propria squadra”, come si amava dire in quegli anni di sbornia manageriale, al di fuori delle liturgie stanche, laboriose e troppo rigorose nell’applicare il vecchio manuale Cencelli, sinonimo di brutta partitocrazia, quando si doveva comporre l’equilibrio politico di una giunta. Il “nuovo che avanza”, slogan con cui un’intera generazione si è legittimata nell’autocompiacimento, era identificato nella postura efficientista di questi rampolli del giovanilismo imprenditoriale così accecati dalle capacità taumaturgiche del benchmarking, delle spending review e delle privatizzazioni.
Lo scioglimento dell’industria di Stato, della funzione pubblica dell’economia, del programma di piena occupazione tendenziale, viveva nella realtà della vita quotidiana grazie all’impegno solipsistico di questi nuovi CEO della modernità che, in piena autonomia, senza il fardello del controllo democratico esercitato dai partiti, trattavano finalmente con i privati per derubricare a questione di profitto la sfera pubblica. La politica aveva il dovere di facilitare i flussi di mercato, assecondando totalmente le direttive vincolanti del totalitarismo europeista che aveva costituzionalizzato la libera circolazione dei capitali.
Attrarre investitori, dunque, era il solo e unico modo per gestire le politiche sanitarie, abitative, industriali, sociali. Chi aveva in mano il debito pubblico poteva richiedere formalmente “riforme” strutturali e gestire le scelte strategiche di indirizzo politico per interposta persona grazie al sudore degli amministratori locali. I super sindaci alla Sala, un esercito di giannizzeri al soldo dell’aggressività capitalista, hanno incarnato rigorosamente questo spirito antipolitico trasformando le città in luna park per speculatori finanziari pronti a espellere la cittadinanza dal contesto abitativo.
E così hangar post-industriali, lucidati dalla logica delle fondazioni bancarie infestata dalla proposizione ininterrotta di grandi eventi, architetture postmoderne per recintare la vita dei ricchi in gated communities sempre più fortificate e inaccessibili, pacchetti immobiliari da regalare ai portafogli delle multinazionali del real estate, hanno determinato l’espulsione sistematica della popolazione dal tessuto sociale delle città, rendendo il diritto alla casa un capriccio di personalità indolenti non disposte al martirio personale; unico mezzo non considerato passatista per raggiungere l’emancipazione individuale rappresentata dalla logica meritocratica.
Il modello Sala, quindi, che poi fu anche il modello Rutelli e così via all’infinito dal 1992 in poi in qualsiasi città, non è che la rappresentazione plastica della spoliticizzazione dell’economia. Questo ingranaggio post-democratico, nel quale i privati perseguono impunemente il profitto facilitati dalle varianti in deroga dei rappresentanti pubblici, si veste con un’allure di vitalità modernista, di narrazione cool e futurista, per nascondere biechi interessi di bottega, ai quali qualcuno, impunemente, ha dato il nome di “fermento culturale”. Un fermento malinconico, solitario, classista. Questa la Milano degli ultimi anni.
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